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La “ragion di stato”: è questa la formula che da sempre giustifica l’esistenza dei servizi segreti. Esistono cioè, detto brutalmente, questioni relative alla sicurezza dello stato che richiedono operazioni illecite dal punto di vista dei tradizionali canoni del diritto pubblico e di quello internazionale. Il problema, ovviamente, pur avendo poco o nulla a che fare con considerazioni d’ordine morale non può però prescindere, se si vuole preservare il profilo istituzionale e dunque non “deviato” del ruolo dei servizi segreti, dalla questione della responsabilità politica. In altre parole, le attività di spionaggio e di controspionaggio debbono comunque, a modo loro, essere oggetto di indagine e critica da parte delle opinioni pubbliche dei paesi democratici. Se la segretezza delle operazioni è un aspetto decisivo nel momento dell’azione lo è molto meno quando tali operazioni e i loro esiti, entrando a far parte del tessuto storico del paese, finiscono per condizionarne il futuro. Il sistema politico italiano, per qualche strano motivo, non riesce ad accettare l’idea che si debba far luce su vicende del nostro recente passato ancora pervicacemente al riparo dallo sguardo dell’indagine critica. Uno dei punti dolenti a tale proposito è la costante indisponibilità del Parlamento a rendere trasparenti gli atti relativi ai lavori delle Commissioni d’inchiesta parlamentari. Nel recente passato, come è noto, sono state istituite alcune di queste commissioni con l’obiettivo di esaminare e comprendere più a fondo importanti e drammatiche pagine della travagliata storia nazionale come quelle delle stragi terroristiche che hanno insanguinato l’Italia negli anni della “guerra fredda”. E’ di questi giorni la notizia di una iniziativa in corso da parte di un folto gruppo di storici italiani per chiedere ai Presidenti di Camera e Senato di liberare l’Italia da questa sorta di tutela posta sui materiali archivistici raccolti dalla “Commissione Stragi” e dalla “Commissione Mitrokhin”. Al momento, infatti, questi documenti sono stati, attraverso una preventiva e acritica secretazione, sottratti alle valutazioni presenti e future degli studiosi. Tali documenti, insomma, non diventeranno materiale da depositare, secondo le regole stabilite per tutti gli atti pubblici, all’Archivio Centrale dello Stato. Il fatto che finiscano, invece, in qualche fondo segreto e riservato non è, badiamo bene, una questione che riguarda gli storici e la loro “insana” curiosità, ma rappresenta un grave segnale di debolezza della nostra democrazia che si suppone sia ancora “immatura” per poter venire a contatto con verità scomode. Il consolidarsi della linea della “secretazione” sembra quindi, in altre parole, il prodotto dei timori dell’attuale classe politica (senza troppe distinzioni tra schieramenti) ossessionata dalla paura che eventuali verità storiche possano in un modo o nell’altro essere utilizzate in campagne scandalistiche. Insomma sull’esigenza di chiarezza sembra spuntarla il timore, certo per nulla infondato, dell’esasperato uso pubblico della storia con cui, in Italia più che altrove, si cerca di delegittimare l’avversario per spostare qualche decimo di percentuale elettorale. Allo stato attuale delle cose, quindi, ci troviamo di fronte a un risultato paradossale: le Commissioni parlamentari, istituite per appurare la verità, rischiano di diventare strumento per la conservazione del segreto e dell’ignoranza, allontanando i cittadini dalla comprensione degli avvenimenti su cui il Parlamento (cioè i nostri rappresentanti) aveva deciso d’indagare. Speriamo che la richiesta degli storici trovi la dovuta eco a livello istituzionale ma certo poco potrà essere fatto se tale richiesta non troverà la dovuta considerazione da parte di un’opinione pubblica stanca di recitare il ruolo del minore sotto tutela. Di scheletri negli armadi nazionali ne abbiamo conservati già troppi e troppo a lungo. Ormai è ora di far entrare aria pura nelle segrete stanze.

da Il Corriere Adriatico