Per un governo che si è formato ottenendo la maggioranza dei seggi alla Camera grazie ad uno scarto elettorale dello 0,06% (25.000 voti) e quella al Senato soltanto grazie ai senatori a vita, la sua durata di 281 giorni è stata forse anche più ampia di quello che persino un sostenitore dell’Unione avrebbe potuto sperare. E lungo questi nove mesi di gestazione, molti ministri ed infiniti sottosegretari non sono stati nemmeno utili per partorire qualcosa di buono. Una finanziaria travagliatissima, un indulto contestato, missioni estere in Afghanistan e Libano dove il governo è stato salvato in aula ed allo stesso tempo messo di fronte alle proprie incongruenze dal voto dell’opposizione, scandalo Telecom, diatribe infinite su TAV e ponte sullo stretto, posticce liberalizzazioni del ministro Bersani, ruggini più o meno esplicite con gli Stati Uniti e recente ddl sulle coppie di fatto. Usando un esplicito criterio valutativo dell’antica Roma, credo questa si possa definire una performance assolutamente da pollice verso. Ma essendo per fortuna caduti in disuso gli affamati felini, quantomeno Napolitano avrebbe potuto rimandare la brigata prodiana in pasto agli elettori. Ma si sa che tra compagni non è cosa farsi troppi dispetti, specialmente se all’orizzonte si profila minacciosa la sagoma di Belzebù-Berlusconi. E così il Presidente della Repubblica ha deciso di far partire un “Prodi ter”, considerando anche il primo governo Prodi, riuscito (anche allora tra un ricatto e l’altro di Rifondazione che forniva il prezioso “appoggio esterno”) a restare in sella per 29 mesi (maggio ’96 – ottobre ’98) prima di cedere il passo al primo governo D’Alema.
Non voglio soffermarmi sul pietoso quanto indispensabile mercimonio di voti utili a dare una parvenza di maggioranza che possa sostenere Prodi quando si ripresenterà a palazzo Madama, e nemmeno sulla clamorosa contrazione e metamorfosi del programma di governo: da oltre 300 pagine pregne di caramelle per ognuno dei rappresentanti della variopinta coalizione a 12 punti contenenti, tra gli altri: rispetto delle alleanze e degli impegni in ambito internazionale, realizzazione dei “rigassificatori”, via alla Torino-Lione, aiuti concreti (assegni, asili nido) alle famiglie, riordino del sistema pensionistico, maggiori poteri a Prodi ed all’onnipresente Sircana. Le mie domande vertono infatti tutte già al “post-fiducia”, quando raccolti i sufficienti numeri tra uno Scalfaro febbricitante, qualche senatore tornato a Canossa ed una Montalcini richiamata in fretta e furia da Dubai, bisognerà ricominciare a governare questo nostro benedetto paese. Innanzitutto sorge spontanea un’osservazione. Rileggendo i 12 punti sui quali il premier ha preteso una assoluta coesione della maggioranza si nota che il programma ha forse più punti di contatto con qualche forza politica dell’opposizione piuttosto che con molte della maggioranza. E poi, se un simile “diktat” fosse stato espresso dal precedente premier, chissà che levata di scudi a trecentosessanta gradi contro un tale presidenzialismo attentatore della pluralità e delle opinioni altrui…
Andiamo oltre e veniamo al punto. Questo rischia di divenire il governo delle “crisi di coscienza”. Molte delle sue componenti infatti sono perfettamente posizionate tra l’incudine dell’ebbrezza ricevuta dal frequentare i romani palazzi di governo ed il pesante martello della propria ideologia e del “patto con gli elettori”. Ma se qualche settimana fa questo discorso era applicabile solo alla sparuta rappresentanza di teo-dem o “cattolici adulti” che dir si voglia, ora il gruppo dei deputati e senatori in crisi di coscienza rischia di diventare ben più consistente: Verdi, PdCI e Rifondazione contribuiranno infatti in modo molto massiccio ad ingrossare questo nuovo “club dei travagliati”. Che fare? Votare su Afghanistan, Tav, impianti di rigassificazione, riduzione della spesa pubblica, riforma della previdenza, e coppie di fatto in modo diametralmente opposto a quanto promesso alla “base”, che tanto conta e tanto fa sentire la sua voce a sinistra, o chiedere alla base stessa di chiudere un occhio e mezzo sull’operato del governo, appellandosi a quella che Guareschi chiamava “l’obbedienza pronta e cieca” pur di scongiurare lo spettro del ritorno della destra al potere?
Ancora una volta l’anti-berlusconismo può rivelarsi l’unica ricetta vincente di una sinistra così asfittica di idee utili ad affrontare le sfide che si pongono di fronte all’Italia del terzo millennio. Una sinistra rimasta indietro di troppi anni, rimasta all’epoca della contestazione, delle manifestazioni di piazza e dei (tanti) diritti prima dei doveri, sempre ammesso che ce ne siano. Questa è la sinistra italiana, che ora è finalmente riuscita a coronare il suo sogno di “sinistra di lotta e di governo”, ma senza accorgersi che le due cose, specialmente per chi sta al governo ed agita ancora la falce ed il martello (unici in tutto l’occidente), sono ormai incompatibili. Ma accecati dalla loro “differenza antropologica” (Oliviero Diliberto, SKY tg24) non vogliono rinunciare al tentativo di imporre i loro dogmi al paese, seppur partendo da un pugno di voti, poco più del 20% degli italiani. E così finiscono pateticamente per manifestare contro loro stessi, proprio come a Vicenza, aiutati anche dal fatto che è molto più facile convincere dei giovani al fascino della gazzarra e della ribellione all’autorità piuttosto che al rispetto del senso civico e ad una cultura del sacrificio e del lavoro. E gli stessi giovani che sognano di essere alternativi e ribelli, in realtà non si accorgono di essere perfettamente inquadrati ed indottrinati dalle direttive del “Casarini” di turno. D’altronde si sa, è sempre stato molto più “trendy” essere “contro”, piuttosto che lavorare per il bene della propria Nazione.
Da un ottimo sito internet (www.storialibera.it), propongo uno stupendo passaggio tratto dall’ “Imparfait du présent” di Alain Finkielkraut, filosofo e scrittore francese noto per essere ben lontano dal “politically correct” oggi imperante: “E’ schiumando di rabbia contro il fascismo in piena ascesa che l’arte contemporanea fa man bassa delle istituzioni culturali. Non c’è nessuna fessura nella corazza dei fortunati del mondo post-sessantottino. Hanno lo stereotipo sulfureo, il clichè ribelle, l’opinione sopra le righe e più buona coscienza ancora che i notabili del museo di Bouville descritti da Sartre ne “La nausea”. Perchè essi occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del maestro e quello, prestigioso, del maledetto. Vivono come una sfida eroica all’ordine delle cose la loro adesione piena di sollecitudine alla norma del giorno. Il dogma sono loro, la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro rari avversari. In breve, coniugano senza vergogna l’euforia del potere con l’ebbrezza della sovversione. Stronzi.” Che Prodi arruoli pure tutti i Follini che vuole, ma finché l’Italia non si sbarazzerà definitivamente di questa inutile ed anacronistica zavorra non potrà mai essere pronta per un vero e moderno bipolarismo tra una forza liberal-conservatrice ed una democratico-progressista, al pari delle altre nazioni occidentali.