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Le vicende di corruzione politico-finanziaria che a partire dagli anni ’90 vengono portate allo scoperto dalle indagini di alcuni inquirenti della Procura di Milano e definite – con un brutto neologismo ormai entrato a pieno anche nei dizionari costituzionali – “Tangentopoli”, rappresentano una pagina importante e allo stesso tempo drammatica della storia d’Italia. Le proporzioni dello scandalo che le inchieste della magistratura fanno emergere sono da brivido: vi è un intero sistema che, nel completo disprezzo delle norme di legge, scambia favori relativi all’uso del pubblico denaro con benefici economici a singoli amministratori o con finanziamenti occulti ai gruppi politici e ai partiti di appartenenza di questi ultimi. Solo nel primo anno della legislatura apertasi dopo le elezioni del 1992, sette ministri del Governo in carica sono costretti a dimettersi perché raggiunti da informazioni di garanzia, mentre le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di membri del Parlamento arrivano alla cifra, a dir poco incredibile, di cinquecentoquaranta. La corruzione interessa, seppur in misure e con responsabilità diverse, la classe politica nella sua interezza, non limitandosi ai partiti di governo ma coinvolgendo ampi settori dell’opposizione che avevano fatto della “questione morale” uno dei tratti distintivi della loro immagine e della loro politica. La reazione pubblica che segue è incontenibile: non si potranno, credo, dimenticare le scene di risentimento e di collera della gente, che raccoltasi davanti all’Hotel Raphael di Roma dove alloggiava l’ex Presidente del Consiglio Craxi, lo accoglie con il lancio di monete, insulti e sputi.
Tangentopoli travolge in breve la c.d. “Prima Repubblica” e – vorrei aggiungere – non ne sentiamo la mancanza. Ciò detto, c’è da chiedersi cosa resta, a distanza di 15 anni, di quella esperienza.

Svolgo due considerazioni.
1) Distacco dalla politica ed esaltazione della magistratura. Tangentopoli ha prodotto un distacco della società civile dalla politica e un rifiuto del sistema tradizionale dei partiti. Ciò è ben rappresentato dall’esito, quasi plebiscitario, con cui il referendum dell’aprile del 1993 conduce alla abrogazione quasi integrale della legge elettorale di tipo proporzionale allora in vigore e che costringe il Parlamento a disciplinare nello stesso anno il nuovo sistema elettorale. L’obiettivo è quello di ottenere una riduzione del numero dei soggetti politici in competizione e, soprattutto, una moralizzazione della vita politica italiana. Aldilà delle trasformazioni, più spesso meramente esteriori e strumentali che hanno conosciuto un po’ tutte le forze politiche, sono dell’idea che quell’obiettivo è stato in gran parte frustrato. Tangentopoli non ha prodotto né un rinnovamento effettivo dei partiti politici, né un ridimensionamento del loro ruolo nelle istituzioni. Ciò sia a causa della sostanziale permanenza di un fenomeno corruttivo occulto, probabilmente ineliminabile nelle società complesse, sia per una ormai palese incapacità di reale trasformazione dei meccanismi della gestione politica partitocratica. Di “partitocrazia” parlava già Giuseppe Maranini all’indomani della entrata in vigore della Costituzione, come di una tendenza dei partiti ad occupare le istituzioni e a spartirsi quote di potere, sovrapponendo le proprie esigenze al regolare funzionamento degli organi dello Stato. Certo è che la debolezza delle istituzioni, e per molti anni la mancanza di ricambio al Governo (anche se – sia chiaro – le cose non sono affatto mutate neppure col ricambio), ha favorito una occupazione dello Stato, sia a livello centrale, sia più spesso a livello locale, che ha pochi eguali in altri Paesi democratici. Tangentopoli segna il declino dei partiti come architrave del sistema politico, ma non anche il loro arretramento nella presa del potere. E’ data infatti registrare una perdurante straordinaria capacità di essi a penetrare e radicarsi nei gangli del potere statale. Sembra insomma di potere dire che la partitocrazia è rimasta pienamente “in sella”, come ad esempio provato dalle consuetudini/convenzioni che vedono la spartizione in capo alle segreterie dei partiti delle “quote” per le nomine dei membri delle c.d. autorità amministrative indipendenti (autorità che, come dice il nome, erano nate proprio all’opposto con una forte vocazione di indipendenza rispetto ai partiti ed alle logiche spartitorie). Come pure, a maggior ragione, dalla eliminazione del voto di preferenza che significa di fatto attribuzione del potere di scelta dei candidati alle segreterie di partito.
Accanto a ciò è dato assistere ad una vera e propria esaltazione del ruolo della magistratura. L’idea che comincia a radicarsi con l’inizio di Tangentopoli è quella del giudice “vendicatore” dei torti che il popolo onesto ha subito a causa di una classe politica corrotta e responsabile di tutti i mali (v. la ricostruzione di M. Tarchi, L’Italia populista, Il Mulino, 2003); sostituire gli strumenti della politica rappresentativa con quelli della giustizia penale sembra l’unica soluzione possibile per spazzare via il marcio. Si tratta di un processo che vede un forte attivismo di alcune aree politiche tradizionali e non: dal PDS alla Lega, dall’MSI alla Rete di Leoluca Orlando e che viene amplificata da un interventismo massmediale di dimensioni fino ad allora sconosciute. Non è un caso che si comincia a parlare di un “partito dei giudici”, per intendere una aggregazione dai confini non chiari che però dispone di un discreto grado di influenza sull’opinione pubblica e il cui tratto comune è la difesa costante, e sovente acritica, delle iniziative giudiziarie contro la classe politica (vedi il libro di C. Guarnieri, Giustizia e politica, Il Mulino, 2003) e del “popolo dei fax”, ovvero di un fenomeno che vede la gente comune schierarsi simbolicamente con i magistrati di Milano attraverso l’inoltro di centinaia di fax al giorno con cui si sollecita e si incita ad andare avanti.

2) Discrezionalità dell’azione penale e separazione delle carriere. E’ noto che i vari sistemi giudiziari si differenziano a seconda che riconoscano o meno il carattere discrezionale dell’azione penale, anche se – sia chiaro – questa distinzione risulta poi assai sfumata nelle prassi operative. In via teorica, al principio della obbligatorietà che impone al pubblico ministero di perseguire tutti i reati di cui abbia notizia (secondo il modello italiano), si contrappone quello di opportunità, di gran lunga il più diffuso, che gli consente di non attivare il procedimento in presenza di certi elementi lasciati alla sua valutazione, o al contrario di attivarlo sulla base di precise scelte di politica criminale. Nelle democrazie contemporanee infatti l’iniziativa penale viene solitamente ricondotta nel circuito delle deliberazioni pubbliche. Il collegamento con il sistema politico assume forme diverse, ma spesso un ruolo centrale viene assegnato all’esecutivo tramite il Ministro della giustizia, cui compete quantomeno di definire le priorità da rispettare nel perseguimento dei reati. Ecco la ragione per la quale, nella quasi totalità dei regimi democratici, l’azione penale viene delegata ai funzionari che formano una struttura separata e non a magistrati indipendenti. I sistemi che hanno una magistratura per così dire “a corpo unico” rappresentano dunque un caso abbastanza insolito nel panorama contemporaneo e ancora più atipico è il caso di sistemi che, come il nostro, riconoscono garanzie pressoché medesime a giudici e pubblici ministeri. Nella maggior parte delle democrazie contemporanee infatti quando si parla di magistratura si fa riferimento solo ai giudici la cui imparzialità nella risoluzione delle controversie è protetta da particolari garanzie di indipendenza. Non ne fanno parte i pubblici ministeri ai quali compete la funzione requirente, ossia l’esercizio dell’azione penale. La loro separazione strutturale, o le differenze di status, assecondano infatti un fine che non va sottovalutato, ovvero creare un contrappeso al potere giudiziario. In altre parole, giudici indipendenti hanno sì il potere di decidere in ultima istanza, ma non quello di scegliere i casi da decidere. Le analisi comparate mostrano che, dove presente, il legame organizzativo e culturale tra giudice e pubblico ministero, soprattutto se sostenuto da identiche garanzie di indipendenza è un elemento in grado di esaltare l’incidenza politica della magistratura e della giustizia penale (v. Pederzoli, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Il Dizionario di Politica, Utet, 2004). Peraltro, come sopra anticipato, anche in quegli ordinamenti che sanciscono il principio della obbligatorietà dell’azione penale, vi è sempre un ampio margine di discrezionalità rimesso ai giudici. Né può essere diversamente. Lo sviluppo o meno di una certa indagine dipende infatti certamente dalla presenza di denunzie, ma soprattutto dalla volontà dei magistrati del pubblico ministero di portarle avanti, investendovi tempo e risorse. Questo è ciò che è avvenuto anche con Tangentopoli: in particolare vi è stato un uso della discrezionalità dell’azione penale che si è focalizzata nei confronti di alcuni soggetti, di certi tipi di reato, di determinate aree del Paese. Basti pensare alla propensione interventista della Procura di Milano e all’uso talvolta eccessivamente disinvolto delle misure cautelari (tanto che la legislazione successiva, approvata con larghi consensi, ne ha aumentato le garanzie) che non ritengo si possa spiegare solo col fatto che Milano rappresentava la capitale economica dell’Italia. Vero è che Milano era la base indiscussa del partito socialista, oltre che la residenza del suo segretario. In altri termini, proprio attesa la discrezionalità dell’azione penale nei termini di cui si è detto, la sensazione è che si è operato per così dire “non a tutto tondo”. Non che questo, s’intende, fosse una strategia costruita a tavolino, ma di certo non si può parlare di mera casualità. In sintesi, a partire dal 1946 le garanzie di indipendenza della magistratura italiana sono state talmente potenziate che essa oggi appare tra le più garantite dell’Europa continentale. Il fatto poi di inglobare al suo interno il pubblico ministero, che il principio di obbligatorietà rende di fatto irresponsabile, ne ha accresciuto il potere. Sono convinta che una seria riforma dell’ordinamento giudiziario, specialmente sotto il profilo della separazione delle carriere e del reclutamento del personale, debba tornare ad essere una delle priorità dell’azione di governo, senza che ogni tentativo di riforma debba necessariamente considerarsi un attentato alla presunta intoccabilità della Costituzione.

Per concludere, sono dell’idea che Tangentopoli ci ha lasciato in eredità un diffuso sentimento di avversione per la democrazia parlamentare e partitica ma anche – e questo è l’elemento di novità – una sopravvenuta sfiducia nei confronti di una parte della magistratura, stigmatizzata per gli eccessi giustizialisti che hanno caratterizzato alcuni momenti delle indagini (sia anche, di contro, per ripetuti eccessi di “buonismo”!) e trascinata in un confronto politico che non ha certamente giovato alla credibilità della sua immagine.
Forse c’è anche la consapevolezza – come è stato detto – di una occasione perduta.