Il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin mi attacca per la decisione di non appoggiare l’eliminazione dalla Costituzione della pena di morte in tempo di guerra. Lo fa utilizzando, in primo luogo, un argomento in realtà rituale nelle critiche che mi indirizza: “dispiace – ha più o meno detto Bordin – che questa posizione sia assunta da chi ha partecipato l’esperienza radicale”. L’argomento non mi è sgradito. Vi è al fondo un residuo di stima che la comune appartenenza di un tempo ha prodotto. Lo trovo, però, fuori contesto. Ho lasciato il Partito Radicale ventisei anni fa. Allora ne avevo solo ventuno. Un tempo così lungo è sufficiente affinché si compia l’usucapione e anche reati efferati cadono in prescrizione. Io, d’altra parte, non considero affatto quel periodo della mia vita alla stregua di un efferato reato del quale pentirsi. Lo ritengo, invece, una eccezionale esperienza di formazione della quale esser grato, che ha per me rappresentato un riferimento critico nel tentativo di approdare alla maturità. In questo percorso, alcune idee di quel bagaglio sono state confermate, altre del tutto contraddette e altre ancora sono state declinate in modo del tutto diverso da come i radicali, e tra questi con particolare acume Massimo Bordin, hanno continuato a fare.
Questa polemica me ne offre ulteriore conferma. Innanzitutto per il riferimento che Bordin mi ha contrapposto: il pacifismo hemingweiano di Addio alle armi. Per me è stata, come si usa dire, una “lettura di formazione”. Ne ricavai il senso dell’irresponsabilità che indissolubilmente si connette alla opzione pacifista. La colsi non solo nella contrapposizione tra la scelta di diserzione e la tragica realtà alla quale si trovarono a far fronte i soldati di Caporetto. Ma persino, riflessa, nella sfera più intima del protagonista che esce da quell’esperienza disperato, libero da quella responsabilità che gli affetti, gli amori, i figli inevitabilmente sedimenta nell’attitudine dell’uomo adulto. Sarebbe facile, d’altro canto, restando in ambito letterario, contrapporre alla citazione hemingweiana la produzione di uomini che furono anche anti-militaristi come Alain o Emilio Lussu di Un anno sull’altipiano. Da essa si evince ancor meglio che, per chiunque, indipendentemente dalle proprie inclinazioni ideali, o si rigetta la guerra sempre e comunque o non si può fare a meno di considerare, senza sconti, la drammaticità delle scelte che essa implica. Ecco perché, in questo caso, non la si può artificialmente amputare dei mezzi – anche i più estremi – per richiamare gli uomini ad attraversare, senza fuggire, le sue tragiche conseguenze.
Chi conosce la storia – e Bordin senz’altro la conosce – sa bene che, anche quando vengono attaccate, le democrazie partono svantaggiate rispetto ai regimi dispotici perché debbono rispondere alla opinione pubblica. Non è dato loro di ridurre la vita umana a numero né di disperderne il valore. Non penso gli si possano infliggere ulteriori handicap. Perché se le democrazie dovessero cadere sconfitte, l’umanità andrebbe incontro a orrori ben più grandi di quelli contenuti in una norma estrema, prevista innanzitutto a scopo di dissuasione.
Bordin, come me, è anch’egli preoccupato di quanto sta accadendo, non lontano da noi, in Medio Oriente per le possibili derive di un totalitarismo di tipo nuovo, non meno temibile di quelli del secolo scorso. E’ proprio certo che non serva che vi sia qualcuno, seppure non d’accordo con lui, che richiami la classe politica alle vere responsabilità del nostro tempo? A questa richiesta mi si può solo contrapporre il rigetto della guerra “sempre e comunque”. Rispetto questa posizione, anche perché non è questo il pacifismo che mi preoccupa. Esso, pur sempre, svolge quel ruolo di coscienza critica che è proprio delle minoranze. Mi inquieta assai di più, invece, il pacifismo irriflesso di un intero Parlamento, perché sintomo di crisi morale che, nel corso della storia, è sempre stata prodromo di successive e ben più gravi crisi, politiche e militari.