Nel pensiero e nella predicazione di Benedetto XVI i volti acquistano un’importanza crescente. Già da tempo egli ha impostato le sue catechesi del mercoledì sugli apostoli, i primi discepoli di Cristo, i padri apostolici e i padri della Chiesa in una catena che trasmette la crescita della fede e lo sviluppo del dogma attraverso il ritratto di testimoni. Un procedimento similare il pontefice adotta anche nell’enciclica sulla speranza.
Ad evidenziare la trasformazione che la speranza può operare nella vita e nel cuore dei cristiani il primo volto che egli presenta è quello di Santa Giuseppina Bakhita, «la fortunata», venduta come schiava e liberata dall’annuncio del Vangelo presso le suore canossiane di Venezia. Da allora ella divenne una testimone della speranza di liberazione: «la speranza, che era nata per lei e l’aveva redenta, non poteva tenerla per sé». La speranza cristiana, tuttavia, non si limita a questo mondo, come testimonia il secondo volto presentato dal papa nell’enciclica.
Si tratta di Sant’Ambrogio, la cui figura è da leggere in unione con quella di suo fratello Satiro, di lui più grande di qualche anno. Alla scomparsa di Satiro, Ambrogio scrisse l’opera In morte del fratello nella quale parla della vita eterna illuminata dalla Grazia. La speranza, argomenta il Papa insieme con Sant’Ambrogio, non riguarda solo la vita terrena, ma anche quella futura. Non solo, non si spera solo per se stessi e per la propria sopravvivenza, ma anche per quella dei nostri cari. Sant’Ambrogio richiama al Papa il volto di Sant’Agostino, il giovane retore di Tagaste che proprio ascoltando il vescovo di Milano si convertì alla fede cristiana. Ritornato in patria, egli pensava di vivere la sua esperienza cristiana nella casa paterna, lontano dalle preoccupazioni della carriera e della vita. Secondo il Papa questo è «il momento dell’immersione nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più».
A questo punto, sulla base del cammino spirituale di Sant’Agostino, Benedetto XVI si pone una domanda: se la vita eterna è per i cristiani ricerca della propria felicità, della propria beatitudine eterna, essi non finiscono per cadere nell’accusa di individualismo? Il Papa risponde all’obiezione unendosi al cardinale De Lubac. In due opere della prima metà del Novecento, il teologo francese mostrava che il «cattolicesimo è essenzialmente sociale. Sociale nel senso più profondo della parola: non soltanto per le sue applicazioni nel campo delle istituzioni naturali, ma prima di tutto in se stesso, nel suo centro più misterioso, nell’essenza della sua dogmatica » (‘Cattolicismo, aspetti sociali del dogma’).
Non si può rimproverare, dunque, al cristianesimo di essere indifferente alla sorte dei sofferenti. Al contrario, i pensatori moderni, in particolare i positivisti e i marxisti, hanno ridotto l’uomo e la sua speranza, hanno provocato il dramma dell’umanesimo ateo. Scrive De Lubac: «Non è vero che l’uomo, come sembra talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo contro l’uomo» (‘Il dramma dell’umanesimo ateo’). Il Papa riprende il filo del suo pensiero con Sant’Agostino. Dopo la fase della ricerca individuale, il dottore africano cominciò dapprima una vera e propria esperienza di vita monastica e poi, chiamato dal suo vescovo, si occupò dei valori cristiani della gente comune. La speranza cristiana, dunque, incide sulla quotidianità della vita, sulle istituzioni e sugli ordinamenti sociali. A cominciare dalla Chiesa, nella quale il vescovo, il presbitero e il credente non possono mai rilassarsi nel loro ufficio, ma devono sempre provare la santa inquietudine per vivere e trasmettere la speranza e collaborare all’edificazione della città. Una evoluzione similare troviamo nell’altro volto della speranza citato da papa Benedetto:
Bernardo di Chiaravalle. Come Agostino, nella prima parte della sua vita Bernardo pensò anzitutto alla fuga e allo spregio del mondo. Nei suoi monasteri, tuttavia, i giovani monaci apprendevano il valore del lavoro, la fatica dell’agricoltura con la quale preparavano il pane per il corpo e per l’anima. Successivamente anche Bernardo andò oltre. Fondò numerosi monasteri, moltiplicò i suoi interventi presso la curia romana, con la predicazione della crociata intervenne nella vita politica del suo tempo. Soprattutto, Bernardo scrisse un’opera, De diligendo Deo, nel quale il tema dominante è l’amore di Dio. L’oggetto della speranza dell’uomo, allora, è l’amore di Dio che viene a completare la più profonda aspirazione umana. In questo senso, argomenta il Papa, «è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita» (n. 27).
Benedetto XVI procede con un’altra domanda: dove impariamo a sperare? All’interrogativo risponde con un nuovo volto: quello del cardinale vietnamita Xavier Nguyen van Thuan. Di famiglia cattolica, impegnata nell’amministrazione e nel governo del Paese, van Thuan venne arrestato nel 1975 e liberato nel 1988. Nei tredici anni di prigionia, in particolare nei lunghi periodi di isolamento, la preghiera divenne la sua forza. In uno dei suoi diversi luoghi di detenzione riuscì a farsi inviare da un familiare un piccolo quantitativo di vino e dei pezzetti di pane con i quali iniziò a celebrare l’Eucarestia. A questo punto la sua preghiera era perfetta: privata di ogni elemento superfluo era legata a Cristo, alla Chiesa suo corpo, alle sofferenze dei fedeli, alle sofferenze del mondo. «In questo modo – conclude il Papa – si realizzano in noi le purificazioni, mediante le quali diventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini» (n. 34).
Il cardinale, del resto, aveva davanti a sé l’esempio dei tanti martiri sui quali è edificata la comunità cristiana in Vietnam. Tra loro, il verbita Paolo Le-Bao-Thin, ucciso nel 1857 e canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1988. In una lettera che ricorda quelle dell’apostolo suo omonimo, egli scrive ai fedeli: «Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio». E davvero il carcere di Paolo, come quello di van Thuan, è un inferno. La speranza cristiana, tuttavia, ha la forza di trasformare la sofferenza in gioia, nella convinzione che Dio, secondo un’espressione di San Bernardo cara al Papa che la citava già nel libro su Gesù, non può patire ma compatire.
Il luogo dove secondo Benedetto XVI si trova questa misericordia di Dio che nel Figlio è entrata nel mondo e con lui è ritornata al Padre, insieme con una conoscenza approfondita delle sofferenze dell’uomo, è il giudizio. Lì viene revocata la sofferenza e ristabilito il diritto, in particolare quello dei deboli e degli oppressi. La giustizia, però, è accompagnata dalla Grazia e dalla misericordia di Dio, dalle preghiere della Chiesa. Così la speranza diventa comunitaria e universale: «La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri ». La vita degli uomini è un viaggio. L’ultimo volto è quello di Maria, la stella della speranza cristiana che indica la via ai fedeli e agli uomini tutti.
Giuseppina Bakhita, venduta come schiava in Sudan e liberata dall’annuncio del Vangelo Il cardinale vietnamita Van Thuan, che durante il regime comunista ha vissuto tredici anni in carcere, e il suo connazionale Le-Bao-Thin, martirizzato nel 1857 Ambrogio ricorda la dimensione ultraterrena della speranza Agostino evidenzia la sua incidenza sulla vita sociale e sulle istituzioni Bernardo di Chiaravalle indica nella conoscenza di Dio il suo fondamento. E De Lubac denuncia i limiti dell’umanesimo ateo.
(da “Avvenire”)