L’articolo su un presunto pericolo di un’ondata neo-guelfa che Aldo Schiavone ha pubblicato sulle pagine della Repubblica del 5 febbraio scorso è di quelli che merita una risposta meditata: per la rilevanza della tematica, per la stima nel suo autore, per la robustezza dei riferimenti storici che, quando vi sono, non vanno mai presi alla leggera. Essi, di norma, aiutano la comprensione del presente ma, in qualche caso, possono invece determinarne l’oscuramento.
I bersagli polemici di Schiavone sono molteplici. Il “declinismo”, innanzi tutto, che proietta l’immagine di uno Stato italiano troppo debole per farcela da solo e per questo bisognevole di soccorso. Da qui la determinazione di una compagine di politici e intellettuali, cattolici ma ancor più “atei devoti”, di cercare nel Papa il vertice di una formula trinitaria che, partendo da Berlusconi e passando per l’America, riesca a costituire un’armatura abbastanza forte per tenere insieme le membra disperse e i “particolarismi” di uno Stato in decomposizione. Infine, la tentazione della Chiesa di accettare questo ruolo di protezione, di supplenza e di sostituzione intervenendo a gamba tesa nel dibattito etico di una società complessa per giungere a un acritico rigetto della modernità. Quest’ultimo timore, in particolare, spinge Schiavone a guardare indietro. A risalire fino al medioevo, agli sgangherati esordi di una modernità che in Italia passò per le parrocchie anziché dallo Stato, all’attitudine antica di privilegiare, con Guicciardini, la garanzia del “particulare” piuttosto che puntare, con Machiavelli, sull’autonomia della politica.
Con queste attitudini, però, Schiavone rischia di smarrire qualcosa che, per l’appunto, appartiene a quel mondo moderno al quale egli così tanto tiene. A me sembra, in particolare, che non consideri affatto quanto la fine dell’equilibrio mondiale “secondo-novecentesco” abbia prodotto – nei popoli ancor più che nelle élites -, una naturale commistione tra bisogno di sicurezza geopolitica e riconsiderazione identitaria. E’ lungo questa trincea che è stato rinvenuto il cadavere di quel rozzo paradigma d’ascendenza positivista in voga fino agli anni Ottanta, per il quale il ruolo della religione sarebbe stato destinato ad affievolirsi fino al punto di scomparire. Quel che è accaduto nell’ultimo decennio, in America con ancora più evidenza che in Europa, attraverso il ritorno della dimensione religiosa nel discorso pubblico (e persino in quello più specificamente politico), è un fenomeno diffuso e spontaneo la cui origine si trova più nell’istintivo bisogno di difendere la modernità e il benessere da essa provenuto che non nella sua negazione.
Queste propensioni si sono intersecate e combinate nei loro effetti con un altro fenomeno, anch’esso assai più una peculiarità del nuovo secolo che non un ritorno al passato. I progressi della scienza e l’avanzare della tecnica hanno inaugurato quella che è stata felicemente definita “la sfida antropologica”: la pretesa dell’uomo d’intervenire sulla vita fin dalla sua creazione e per tutto il suo corso, che fa intravvedere con crescente precisione la tentazione di superare il confine dell’umano così come si è fin qui storicamente e antropologicamente connotato. La rilevanza anche politica di questo fenomeno è indubbia. Mai come oggi l’origine della vita, le sue manipolazioni, la morte sono entrate nelle agende della politica a livello sia nazionale sia europeo, scadenzandone i ritmi e le stesse linee di frattura. E proprio per indicare questa trasformazione, d’altra parte, è stato creato il neologismo “biopolitica”.
Da qui due conseguenze, che possono considerarsi persino scontate. La prima è che di fronte alla portata di tale sfida, le propensioni degli uomini non possono ridursi ad un fatto di fede. E’ del tutto legittimo che quanti un tempo si definivano “laici” si mobilitino contro i rischi di derive scientiste, eugenetiche e temano per una contrazione delle libertà effettive o per la nascita di nuovi razzismi. Si possono contestare queste loro propensioni, non certo disconoscerne le motivazioni.
La seconda conseguenza concerne, invece, la Chiesa. Su questi temi non le si può chiedere di tacere. Sarebbe come riproporre una edizione della Chiesa del silenzio in versione post-moderna. Si può e si deve pretendere, invece, più semplicemente, che essa accetti le decisioni dello Stato anche quando queste violano i suoi precetti. Ma non mi sembra, in coscienza, che ciò possa considerarsi in discussione.
Dal combinato disposto di queste due conseguenze discende che bisogna fare molta attenzione nel distinguere i comportamenti politici degli uomini da quelli della Chiesa, evitando d’accreditare automatismi che nella realtà delle cose spesso non esistono. Questo discorso vale in particolar modo per l’Italia. Qui, la Chiesa di questo inizio di secolo non è nemmeno paragonabile a quella trionfante dei tempi di Pio XII, e neppure a quella dei suoi successori. Invece d’indire i referendum li subisce. All’aspirazione di veder rinascere il partito unico dei cattolici rischia di sostituire l’asfittica difesa di un partitino dei cattolici. E la potentissima Curia di un tempo ha difficoltà perfino a trovare un compatto consenso alle sue direttive tra le gerarchie ecclesiastiche. Per questo può anche accadere – ed è successo – che siano gli uomini a scandire tempi e ritmi di campagne e iniziative politiche. Mentre la Chiesa si limita a subirle e, al più, a cercare prudentemente d’indirizzarle.
E allora, mi domanderà Schiavone, come spiegare la mobilitazione di masse, cattoliche – con l’appendice di laici convertiti, atei devoti, teocon o come diavolo li si vuol chiamare – nel caso del Family Day o in quello della partecipazione all’Angelus in solidarietà con un Papa impedito dal recarsi alla Sapienza?
A me pare che questi sommovimenti della società italiana, assai più che al rischio di neo-guelfismo, ci invitano ad indagare cosa sia la nostra identità nazionale. Dalle profondità storiche nelle quali Schiavone getta il suo scandaglio, dovrebbe emergere un’evidenza: l’identità italiana non s’identifica con il cattolicesimo ma da esso non può prescindere. Per questo, quando si sente minacciata reagisce e si mostra. Essa richiede, in fondo, di prendere atto del fatto che oggi non esistano più le condizioni per proporre la rinascita dello Stato nazionale sulla fasulla contrapposizione tra cattolici e laici figlia delle peculiarità del nostro processo d’unificazione nazionale e dei suoi sviluppi novecenteschi. Di guardare, insieme, più indietro e più avanti per emancipare, finalmente, il liberalismo da una pregiudiziale anti-cattolica che ha fatto della nostra tradizione liberale una corrente di pensiero minore nel panorama europeo. Dobbiamo rialzarci da soli. Ma per ritrovare la bussola, quel che proprio non serve è la creazione artificiale di nuove contrapposizioni di maniera che, in nome della modernità, ripropongano l’approdo a un’identità artificialmente dimezzata.
(da L’Occidentale)