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Nella quarta di copertina del libro di Yvon Tranvouez (Tranvouez 2000) dedicato alla vicenda e alla crisi della Quinzaine, il periodico di punta del progressisme chrétien francese dei primi anni Cinquanta, si legge: “le migliaia di cristiani che si riconoscevano [nella rivista] si rifiutavano di essere degli stranieri nel mondo moderno. Invocavano la propria esperienza di un nuovo mondo di cui il movimento operaio e la rivoluzione comunista erano portatori. Ad essi sono stati opposti i principi immutabili del mondo cattolico, ponendoli così di fronte ad un scelta impossibile, che condusse gli uni ad un esilio senza ritorno, gli altri all’affermazione paradossale di una doppia fedeltà, alla Chiesa e alla classe operaia”.

Se la “crisi del progressismo” ci conclude in Francia col 1955, le coordinate che emergono dalla semplice sintesi redazionale del libro restano caratterizzanti (e non solo la vicenda “progressita”).

E sono:

– il tema dell’essere “stranieri nel mondo” (analogo a quello degli steccati),

 – il tema di un rinnovamento dell’esperienza cristiana a contatto con i portatori del mondo nuovo (che, a seconda delle culture cattoliche, non sarà solo la Modernità della “classe operaia”),

–  l’assunto che l’avversario di queste istanze fossero (siano) i “principi (cattolici) immutabili”. 

 

Affiorano i tratti di un paradigma:

1) la estra-mondanità (come inautenticità invalidante) del cristiano se non guadagnato alla modernità;

2) l’opposizione tra il desiderio/destino di una conformità all’uomo moderno (specialmente se portatore di una missione/forza rivoluzionaria) e dei “principi immutabili” impropriamente opposti da un potere (ecclesiastico);

3) la coincidenza dell’istanza autentica e della pratica (militante) d’essere uomini tra gli uomini (ed anzi tra i migliori di essi) con la jeunesse de l’Église.  

 

Questi tratti non bastano ancora ad intendere la vicenda dei “progressismi” cattolici italiani, come delle resistenze e delle permeabilità; manca, per ferreo vincolo temporale, l’accelerazione data pochi anni dopo dal Concilio Vaticano (annuncio, preparazione, svolgimento) al dibattito sulla Chiesa stessa e alla inedita diffusione della cultura teologica in alcuni anni e generazioni; manca la metamorfosi (posteconomicistica) delle stesse culture comuniste con la fine degli anni Sessanta e il declino della classe operaia come fenomeno e come mito. Mancano i segnali della decostruzione del cosmo teologico cattolico, non meno che (in Italia) del cosmo politico democraticocristiano; come niente sembra far prevedere, nella contrapposizione progressista a Roma, il carisma universalistico nuovamente guadagnato dal pontificato di Giovanni Paolo II. Ma il topos della separatezza cattolica, il concordismo cristiano-comunista, il ringiovanimento della Chiesa (presto si parlerà ovunque e a lungo di riforma) sono tratti di primaria importanza.

 

2. Da dove prendere avvio? Il punto di partenza è dato, in questo contributo, da un paradigma e da una emergenza, che pongo ambedue negli anni Trenta del Novecento. Il paradigma è quello di una intelligenza cattolica (o intelletto cattolico) ricostruita dopo la (e in virtù della stessa) crisi modernista, guidata da una coiné teologica rigorosa (spesso disegnata nell’equilibrio di due scolastiche, la tomista e l’agostiniana), governata dal prestigio (e dalla ragione) della Sede romana. La teologia delle scuole (delle Facoltà teologiche, degli Istituti cattolici) come le forme dette di teologia “aperta” e le filosofie cristiane in formazione, sono addestrate a riconoscere il rischio modernistico, la sua storicizzazione del dogma e della Scrittura (quindi dell’istituzione), la sua psicologizzazione della fede, la sua contrapposizione di “esperienza” a ragione e argomento. La tradizione liturgica è sotto il vaglio di una grande riflessione. D’altronde l’instauratio di Pio X aveva offerto già predisposte, alla chiesa uscita dalla Grande guerra, le nette forme catechetiche di una fides quae, la certezza del diritto, l’equilibrio esegetico, il valore razionale e la grandezza della ricerca dogmatica, nonché l’apertura personalista (della filosofia e della teologia morale) e una letteratura religiosa (specialmente, ma non solo, di lingua francese) di qualità memorabile. Sullo sfondo un ordinato processo di formazione del clero e di costruzione e ricambio della gerarchia nel laboratorio universalistico di Roma, dei suoi istituti, collegi e Facoltà. Questo il quadro, di qualità cattolica insuperata, del Cattolicesimo tra le due guerre.

La emergenza è, per definizione, congiunturale nonché prevalentemente endogena (rispetto al sistema Chiesa), ma mette la Chiesa alla prova del “secolo delle ideologie”. Nel corso degli anni Trenta prende, infatti, forma lo schierarsi militante (chiamato, appunto, “trentismo”) degli intellettuali e degli scrittori, il loro passaggio all’ideologia (rivoluzionaria, comunque di engagement) e allo schieramento di partito, o di blocco mondiale. Il principale reagente sarà, com’è noto, la guerra di Spagna e in generale la minacciosa affermazione in Europa delle rivoluzioni carismatico-autoritarie. La costellazione intellettuale si collega e si allea; esce dalla latenza la société de pensée. Inizia la storia della milizia contro-reazionaria (come definita da Taguieff) e questa milizia investe come disposizione, atteggiamento e linguaggio l’intelligenza cattolica. Nella cultura e costellazione cattolica prendono forma, con lieve ritardo ma, poi, rapidamente, nel corso della seconda Guerra mondiale) inedite reti e stili militanti.

 

3. Una tesi è che la spinta trentista (investita subito, e accelerata, dalla seconda Guerra mondiale) penetri nella cultura intellettuale della chiesa cattolica, con sintomatica anticipazione nel mondo francese. Agisce negli intellettuali laici ma specialmente nel clero, tra i teologi (poiché il militantismo intellettuale ha bisogno di menti dottrinarie, meno frequenti allora tra i laici cattolici) e li trasforma in intelligencija (seguo e integro il modelli classici di Augustin Cochin, Voegelin, Aron, Besançon, e le diagnosi di Gaston Fessard). Così i teologi saranno i protagonisti della cultura cattolica publica a partire dai tardi anni Cinquanta, subentrando alle generazioni dei maestri laici (narratori, poeti, filosofi, saggisti) della prima metà del Novecento. Gruppi intensi di teologi (e di laici, come sequela) assumono questa personalità, questo noi. 

Ogni intelligencija tematizza, costitutivamente, valori di engagément civile/storico e di libertà critica; le sociétés de pensée sono costituite poi in attivo antagonismo a ciò che viene individuato come il Potere. Questo equivale ad affermare che, se il complesso ordine cattolico del Novecento postmodernistico vive da decenni “fermenti” e contrapposizioni (sotto il governo, sempre più carismatico d’ufficio, dei Papi e delle Congregazioni romane), non sarà questo dato “interno” a introdurre gli squilibri (per qualcuno attesi, preparati e fecondi) della stagione conciliare e postconciliare. La complexio cattolica è la regola nella storia della Chiesa; le sue tensioni sono in se stesse vitali e sostenibili. La grande crisi cattolica del secondo Novecento (anni Sessanta/Settanta) ha una origine esterna alla logica della complexio e, negli ambienti ove si afferma, colpisce a morte la complexio stessa; nessun riformatore tollera troppo a lungo la coesistenza di reformata e reformanda.

Questo essere entro o fuori del perimetro della complexio cattolica è anche la soglia strutturale che distingue l’opera dei Padri conciliari nel loro insieme dalla spinta delle minoranze engagées, forse già prima, ma specialmente nel corso del Concilio e nei decenni critici della sua “attuazione”. Le Costituzioni conciliari sono esempi, spesso particolarmente alti, di complexio dottrinale in una fase di elevata mobilitazione e tensione interna. Tendenzialmente o effettivamente eccentriche alla complexio sono, dunque, fin dall’inizio le rappresentazioni dualistiche e militanti di ciò che nei documenti sarebbe “autenticamente conciliare”, “traente” in opposizione alla residualità del vecchio.

 

4. Mutano, nell’operare militante dell’intelligencija teologica (che non è tutta la cultura teologica cattolica – né De Lubac, né von Balthasar né l’allora giovane Ratzinger saranno mai intelligencija), gerarchia degli obiettivi e profilo del lavoro teologico e pastorale della e nella Chiesa. Si accentua fino alla negazione, con i primi anni Sessanta, il conflitto col centro e con l’autorità gerarchica (nelle chiese nazionali come negli ordini religiosi), in quanto estranee e costitutivamente antagoniste a quel paradigma. Ma non sorprende che si dia, già a partire dal decennio postbellico, anche un distanziamento, se non una frattura, tra intelligencija teologica (chierici e laici) e sentire cattolico come definito di recente (la formula è di Perniola).

Gli interpreti del sentire cattolico sono, negli anni tra le due guerre, teologi (classici) e spirituali, scrittori e filosofi cristiani. Sono, ancora nel dopoguerra, gli uomini della Weltanschauung cattolica, del sacro, della santità del corpo mistico, della cultura alta e cristianamente ordinata (da Romano Guardini all’anglocattolico T.S.Eliot, da Giuseppe De Luca in Italia, e magari Papini, a Christopher Dawson, dagli Inklings , C.S.Lewis e altri, a Louis Massignon, da Przywara a Gilson ecc.).

La dissociazione tra il sentire dell’alta cultura cattolica europea e la effervescenza teologica è indicatore importante del definirsi e organizzarsi di una intelligencija. Paradossalmente, mentre le generazioni giovani (ancora negli anni quaranta/cinquanta) si formavano nel sentire cattolico, nelle generazioni adulte (s’intende, in cerchie determinate, non in forma generalizzata) sensibilità spirituali e istituzionali, letture formative e auctores, passavano in secondo piano sostituite da obiettivi e orizzonti di “novità”. Sintomatica la dominante della riforma della chiesa, di quella Chiesa che invece il sentire cattolico coglie santa e significante come essa è, proprio nella sua costituzione organica, sacramentale e gerarchica.

Questo clivage si definisce sintomaticamente col passare degli anni, e particolarmente dopo il Concilio, tra cultura teologica dei chierici (che sono i membri più importanti e attivi della neointelligencija) e il sentire cattolico dei laici, prevalentemente esterni alle organizzazioni cattoliche (che seguiranno le sorti dell’intelligencija).

Al vertice della avvertenza critica di questo distanziamento vi sarà (precoce) Le paysan de la Garonne di Jacques Maritain, ma (per fare un esempio meno sistematico) la reazione di una grande critico della modernità come lo storico dell’arte Hans Sedlmayer. La maggioranza della cultura cattolica si pone polemicamente, così, non contro il Concilio ma contro la minoranza teologica attiva che (assicuratasi la maggioranza dell’assemblea) ha tentato di plasmarlo e che cerca di guidarne l’attuazione secondo istanze variamente radicali.

 

5. Come impostare un’analisi dell’intelletto cattolico e della funzione di intelligencija svolta da Firenze, per intenderne la recezione e accettazione della sua influenza nel quadro italiano? Quale il contributo della Firenze conciliare-progressista alla “fine del cattolicesimo politico” (Del Noce)? La situazione fiorentina è peculiare. Se cerchiamo di leggere il quadro postbellico vediamo che vi si combinano a) una tradizione e, in età contemporanea, una società e una diocesi secolarizzata-secolarizzante (rilevanti le ricerche toscane di A.Nesti), cui si rivolgono le “risposte” del governo pastorale di Dalla Costa; b) una concentrazione (novecentesca) di élites intellettuali. Tutto questo avrà precise conseguenze nella costruzione dell’identità critica e del dissenso, o meglio nella micro-reticolarità di sociétés de pensée nelle loro diverse fasi. 

Nella Prefazione alla recente ristampa del Valore della persona umana (1947, ma elaborato nel 1943) si mette in evidenza il particolare equilibrio realizzato da La Pira (in continuità, parziale, con la stagione del “Frontespizio”) nel suo saggio. La lettura diretta di Tommaso si associa alla scoperta di un volume importante, Autour de la personne humaine, 1941 (o poco prima ?), ove intellettuali e filososofi notevoli (Descoqs, La Vaissière, Jolivet, altri) si confrontavano con Mounier. L’apporto del neotomismo (Descoqs) nel dialogo personali, alla fine degli anni Trenta, trasmette a La Pira gli strumenti per maneggiare il personalismo comunitario con strumenti tomistici, alla cui razionalità si è sempre affidato. Gli sviluppi propriamente lapiriani sono nella direzione di una società costellazione di comunità costituite su e da individui-persone; la componente antiorganicista è netta. La Prefazione nota l’apporto di questa posizione, teoreticamente ferma (Tommaso, il diritto romano), ad una liquidazione delle tematiche filosofiche della crisi: la concezione, e la norma, personalistico-comunitaria, fondata sulla individualità e il suo destino trascendente, permettono il superamento del pessimismo “umanistico” o Kulturpessimismus (Huizinga e molto pensiero europeo tra le due guerre).

Ma l’accantonamento del Kulturpessimismus si risolve in un ‘ottimismo’ sulla storia (sul suo potenziale) e sull’azione che secondi le tendenze ultime della storia, che rompe l’equilibrio del paradigma lapiriano. Questo “momento” investe anche La Pira, nella forma di un entusiasmo per alcuni anni verso l’opera di Teilhard de Chardin. Ma il prefatore stesso conclude con quello che egli considera il “superamento” balducciano delle diagnosi e della cultura di La Pira,  a conferma della persistenza ancora oggi delle coordinate comuni negli anni Settanta. L’effetto intelligencija immanentizza, con impietosa regolarità (a Firenze come ovunque), l’ottimismo della salvezza cristiana nella certezza della bontà (capace di autoriscatto) dell’uomo e della storia come definiti e letti fuori dei paradigmi cristiani. È il terreno ideale (come mostra con anticipo la cultura dei preti operai e della Mission de France) dell’autocolpevolizzazione della Chiesa e del collasso del paradigma antropologico e storico cristiano (agostiniano) la civitas hominum nelle versioni progressiste (a dominante comunista) diviene un paradigma “salvifico” schiacciante per le culture cristiane. Oramai il Cristianesimo non deve giustificare la storia, ma esso deve piuttosto giustificarsi di fronte alla storia (Del Noce). Sviluppando la diagnosi fondamentale di Del Noce nella mutazione degli anni Cinquanta il cristianesimo della militanza di quegli anni, spesso un forma di storicismo (immanentistico) cristiano, si smarrisce come capacità propria di interpretare la storia presente, di “dar ragione del la storia nella sua realtà” (che rinvia ad una formula di Eric Voegelin). 

Quando nell’autunno del 1958 si accende la battaglia pubblicistica su Esperienze Pastorali di don Lorenzo Milani (non senza conflitti intraecclesiastici: il vescovo D’Avack difenderà sempre la legittimità dell’imprimatur concesso al libro), G. Arfè pubblica (sul Ponte) una recensione tutt’ora considerata dalla storiografia milaniana tra le più importanti. Per Arfè (cit. in S.Tanzarella, Gli anni difficili, pp.170-171) sintomaticamente, Esperienze pastorali nascono “sullo sfondo di un dramma di più vaste proporzioni, quello di un paese, il nostro, nel quale gli elementi di progresso tecnico-scientifico non riescono a tradursi in fatti di diffuso progresso sociale (…).   I dati dell’inchiesta [condotta da Milani] stanno lì a dimostrare che l’ostacolo di fondo alla missione pastorale risiede nel preciso identificarsi del Cattolicesimo in una politica nella quale le classi popolari, i poveri, scorgono una forza nemica”. La captatio (da parte socialista) della eventuale mobilitazione cattolica, è condotto anche osservando che allo stesso Milani (quindi anche alla Chiesa per i poveri) compete “una parte di responsabilità”. L’invito all’autoimputazione di responsabilità storico-sociali, che apparteneva da tempo alle culture del progressimo, avrà (circolarmente) effetti teologici e politici di dissoluzione.

In questa congiuntura l’equilibrio cattolico (nella comunanza lapiriana) degli anni Cinquanta non regge alla prova del Concilio: si ha rapida trasformazione, divisione, dispersione. Anche, anzi anzitutto, a Firenze la trasformazione più importante attiene alla rapida metamorfosi, già nella prima metà degli anni Sessanta, di minoranze intense della cultura intellettuale/teologica cattolica (dall’europea alla fiorentina, in anticipo su altre in Italia – da ciò la sua contingente funzione di guida) in intelligencija politico-religiosa “anti-sistema” e antiromana.