È da mesi che scrivo incessantemente sui problemi dell’istruzione e ho incontrato reazioni di vario tipo. Inutile nascondere che le più gratificanti sono state quelle favorevoli, tra cui moltissime lettere di insegnanti e di genitori preoccupati per la drammatica crisi della scuola e dell’università, ma anche seriamente intenzionati a non arrendersi.
Poi ci sono stati gli insulti, particolarmente rivolti ai firmatari dell’“appello per la scuola del merito e della responsabilità” (promosso dal Gruppo di Firenze – http://gruppodifirenze.blogspot.com/ )- e che il ministro Gelmini ha fatto suo. Siamo stati gratificati di ogni appellativo: ignoranti, pistoleri, don Ferrante, gente che non sa cos’è la scuola e via dicendo. Siamo stati invitati da un sindacalista a dimostrare in che modo siamo andati in cattedra. L’ex-ministro Berlinguer – un giurista che ancora ricopre l’incarico di presidente di commissioni per la promozione della cultura scientifica e musicale, un caso unico al mondo – ci ha definiti “relitti del passato, tagliati fuori dalla storia”, “laudatores temporis acti”, una “casta” crociano-gentiliana legata a un “cultura morta e deduttivistica”, insensibili alla “rivoluzione epistemologica in atto” che – come proverebbero le “scienze pedagogiche, cognitive e psicometriche” – permette di riconciliare emisfero destro e sinistro, mentre noi li vogliamo tener separati.
Debbo però riconoscere che Berlinguer non si è sottratto a un confronto radiofonico in cui ho potuto cortesemente spiegargli che la sua visione della scienza non sta né in cielo né in terra, che la buona scienza è “deduttivistica”, che i laboratori vanno bene per una concreta acquisizione e comprensione dei principi scientifici ma che rimestando in laboratorio non esce fuori nulla, così come il computer senza qualche idea da metterci dentro non macina neppure numeri. E debbo riconoscere a Giuseppe Bertagna, unico tra tutti i pedagogisti, di aver volentieri accettato un confronto diretto, pacato e approfondito.
Trovo invece intollerabile l’atteggiamento di coloro che fanno orecchie da mercante e che, interpellati sulle idee e teorie cui più tengono, non se ne danno per intesi e continuano ostinatamente a ripeterle, senza neppure provare a rispondere alle obiezioni, evidentemente convinti che quel che conta è il fatto di ricoprire posizioni di potere che consentono loro di infischiarsene altamente delle critiche.
Ad esempio, sono mesi che siamo in molti a martellare sul fatto che la scuola e l’università non sono aziende e servizi, che la cultura e l’istruzione non sono “prodotti”, che l’efficienza aziendalistica è assolutamente inappropriata e inefficiente in questo contesto, che l’idea di concepire alunni e famiglie come “utenti” è devastante, che il termine “customer satisfaction” andrebbe proscritto in questo contesto, salvo la valutazione di edifici, gabinetti e servizi accessori all’insegnamento propriamente detto. Non si è avuto l’onore di una risposta, salvo un “esagerato” che sul mio blog ha sostenuto che tutto al mondo è un’azienda, anche la Chiesa e la Via Lattea. Ci si potrebbe rallegrare di tanto silenzio: è la prova evidente che non v’è uno straccio di argomento di risposta. Il guaio è che poi si continua impavidamente a usare questi concetti, come se fossero verità di per sé evidenti, al pari dell’esistenza dei piedi con cui camminiamo e, in mezzo a molte cose pregevoli, rispunta fuori la “customer satisfaction” anche nelle relazioni alle Camere del ministro Gelmini.
Un altro esempio clamoroso è dato dalla questione della valutazione. Sono mesi che scriviamo e riscriviamo sul tema, mettendo in luce tutti i problemi che esistono in merito, criticando il modo con cui operano docimologi e valutatori, fornendo esempi concreti, mettendo in discussione l’idea di misurabilità delle competenze, nonché la consistenza stessa del concetto di competenza. Potevamo attenderci una stroncatura dallo stuolo di docimologi e di valutatori che si affollano in ogni angolo del sistema, e vista la passione che il mondo dei pedagogisti nutre per la valutazione. Silenzio assoluto. Però si continua a pontificare con immutata prosopopea.
Il Libro bianco sulla scuola prodotto dal precedente governo, la cui produzione è stata coordinata da Fabrizio Barca, ha proposto un baraccone allucinante composto da 400 persone e dotato di un finanziamento megagalattico. A parte la felicità di coloro che sarebbero assunti ci piacerebbe sapere quali sarebbero La “felicità” che ne ricaverebbe il sistema dell’istruzione. Sarebbe interessante sapere come opererebbero i 400 valutatori. Per esempio, mettendo in opera la procedura della distribuzione gaussiana? In genere la racconto ai miei colleghi matematici quando desidero metterli di buon umore, anche se al riso subentra l’incredulità che una bestialità del genere sia vera e non una trovata umoristica. È con la distribuzione gaussiana che si lavorerebbe nel baraccone? E si valuterebbero quantitativamente le competenze anche se i pedagogisti ammettono che sono vent’anni che tentano di darne una definizione misurabile e non ci riescono? Oppure si userebbe la procedura proposta da Giorgio Allulli, cioè misurare la dispersione scolastica e premiare con maggiori finanziamenti le scuole che più la limitano? In altri termini – abbiamo osservato in molti – ciò significa premiare coloro che promuovono tutti, perché questa è la via maestra per arrestare la dispersione scolastica…Così come il degrado dell’università è largamente dovuto alla sciagurata idea di misurarne l’efficienza in termini di laureati in tempo. Tutto ciò è stato detto ma gli Alti commissari della valutazione non si degnano di rispondere. Sono esenti da valutazione e non perché si sentano sicuri di sé – al contrario! – ma perché sanno di essere insediati nella stanza dei bottoni.
Di fronte alle critiche Fabrizio Barca ha enunciato sul Corriere concetti oscuri e vaghi, parlando di “diagnosi valutative”, di “obbiettivi di progresso” e di “azioni rimediali”… Debbo dire che questa aggettivazione burocratico-espertese mi mancava. E aggiungerei che una proposta avanzata parlando di “azioni rimediali” andrebbe cestinata su due piedi. Chi pretende di parlare di istruzione deve pure dar prova di saper usare l’italiano a un livello minimale.
Ma anche il Grande Ufficiale della Repubblica, prof. Francesco Giavazzi – che pure ha il merito di aver stigmatizzato la fumosità del Libro bianco – si è particolarmente distinto per l’arroganza con cui continua a propinare ricette su questioni di cui visibilmente capisce poco, ignorando superbamente le critiche che sono state ripetutamente mosse ai suoi articoli sulla Stampa da più parti e ultimamente da Paola Mastrocola su La Stampa.
Giavazzi continua a parlare ostinatamente di “valutazione” come se si trattasse di cosa ovvia e come se non fosse necessario specificare come vada messa in opera. Parla di valutazione da fare scuola per scuola e non a campione, ma non dice se vada fatta a distanza, dai terminali dei baracconi mediante test a risposta chiusa (Dio ce ne scampi, è il modo di somministrare ciò che si vuole), alla maniera di Allulli (Dio ce ne scampi doppiamente) o con commissioni d’ispezione non si bene come composte. In realtà egli sembra affidare tutto al meccanismo di concorrenza e con ciò mostra di non capire una banale differenza: tra due supermercati l’utente sceglie quello che offre il miglior prodotto al minor prezzo, tra due scuole sceglie quella che promuove di più al minor costo di studio, a meno che questo utente non sia dotato di un senso etico paragonabile a quello di Catone il Censore. Sono mesi che andiamo dicendo queste cose, inutilmente. Non si tratta di obiezioni teoriche ma di osservazioni che hanno una portata eminentemente pratica. Che un Grande Ufficiale non abbia orecchie per ascoltarle e discuterle torna soltanto a suo demerito; che vengano prese sul serio idee tanto superficiali è invece molto inquietante.
Un’altra questione serissima è quella del reclutamento. Personalmente sono abbastanza favorevole all’idea di concedere alle scuole il diritto di reclutare direttamente, a tre condizioni: che ciò venga fatto entro una lista nazionale chiusa derivante da trasparenti e rigorosi processi di “verifica”; che il singolo istituto e i docenti vengono rigorosamente “valutati” (e ci risiamo); che vengono garantiti meccanismi di mobilità e la carriera del docente (vincolata al merito) non si svolga tutta all’interno di un singolo istituto, altrimenti si produrranno delle situazioni clientelari. Anche questi punti andrebbero analizzati in dettaglio tenendo conto della realtà, come ha osservato Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi, che ha accusato Giavazzi di non sapere quel che dice, poiché da anni non esistono più concorsi d’ingresso alla scuola: per entrarvi ormai semplicemente “ci si accoda” e la promessa di assunzione di 50.000 precari rende risibile qualsiasi progetto di nuove forme di assunzione. Ma tant’è, queste miserie non possono sfiorare la mente di un Grande Ufficiale.
Il quale, al contrario, fa un passo avanti a dir poco audace proponendo una flessibilità dei percorsi di studio secondo cui gli insegnanti sarebbero liberi di progettare i loro corsi, decidendo individualmente cosa insegnare. La proposta non è nuova e riprende in pieno i capisaldi della pedagogia dell’autoapprendimento che, già nelle forme limitate in cui è stata applicata alla scuola italiana, nelle riforme Berlinguer e Moratti, è responsabile dei guasti di fronte a cui ci troviamo. Certo, per i pedagogisti la scuola italiana è ancora troppo “rigida” e loro vorrebbero personalizzarla in toto, ma sono sotto gli occhi di tutti gli effetti devastanti di una mano libera che permette di insegnare a scuola la “legge dissociativa” dell’addizione o trasformare le lezioni di storia alle primarie di un’interminabile odissea attorno agli orologi o ai concetti di mattina e pomeriggio.
La scuola deve fornire una preparazione di base uguale per tutti. È assolutamente inaudito che all’università sia normale stabilire quali sono le nozioni base imprescindibili di analisi matematica o algebra – la possibilità che in un corso di laurea in matematica non si studino mai i numeri reali è considerata aberrante – e a scuola questo principio sia invece disatteso. La possibilità di percorsi individuali implica che uno studente che non ama la matematica o la sintassi possa essere esentato dallo studiarle, o quantomeno che gliene venga proposta una versione alleggerita. Mi dispiace, ma una proposta che apra la strada anche solo al rischio che in una classe si studino le equazioni di secondo grado e in un’altra soltanto quelle di primo, è un’autentica follia. Il bello è che negli Stati Uniti si sta rimettendo in discussione questa pedagogia dell’autoapprendimento personalizzato riscoprendo le virtù dell’approccio disciplinare. L’abbiamo ricordato all’“americano” Giavazzi, ma pare che egli preferisca il più ortodosso pedagogismo antiautoritario di stampo sessantottino.
Al riguardo vogliamo dire una parola chiara a quei cattolici che sono sinceramente preoccupati dell’autonomia scolastica, della parità scolastica e di non vedersi imposti dei programmi uniformi magari di stampo laicista. Siamo sensibili a queste esigenze ma allora cominciamo col dire che bisogna impegnarsi contro ogni risorgere della pedagogia che espropria la famiglia delle sue funzioni educative. Colpisce assai vedere molti cattolici impegnati sul fronte della difesa della famiglia e, in completa incoerenza, difendere i corsi di “convivenza civile” e di “affettività”, che sono poi quella trovata zapaterista contro cui si battono i cattolici in Spagna.
Nel rivendicare la libertà educativa il Papa ha detto: «È legittimo infatti domandarsi se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi diversi suscitati, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti, da forze popolari multiple, preoccupate di interpretare le scelte educative delle singole famiglie. Tutto lascia pensare che un simile confronto non mancherebbe di produrre effetti benefici». Il Papa non sa che è ormai considerata una bestemmia parlare di “programmi” e che si possono soltanto enunciare “indicazioni” che poi la scuola attua in autonomia… Ma anche i cattolici più “modernisti”, dopo aver perdonato l’uso di questa sciagurata parola, vorranno consentire che queste non sono le parole di un accanito laicista bensì del Papa… Parole sacrosante. Perché quel che vogliamo è una scuola critica e aperta. Per esempio, vorremmo una scuola in cui si spieghi la teoria dell’evoluzione mostrando i pro e i contro, le questioni aperte e discusse e quelle acquisite – il che può farsi benissimo e anche in maniera didatticamente efficace (si veda ad esempio, il libro di Juncker e Scherer, “Evoluzione. Un trattato critico”, Gribaudi). Invece non ci piace per niente l’idea di una scuola darwinista e di una scuola creazionista, di una scuola in cui s’insegna la storia a orientamento di destra e un’altra di sinistra, una scuola in cui si esalta la tecnologia ed un’altra in cui si denigra, e via esemplificando. L’idea che uno nasca in una famiglia di fascisti o di comunisti e debba frequentare una scuola fascista o comunista è orripilante. È giusto invece che la famiglia abbia il diritto di scegliere una scuola avente un orientamento religioso e morale ben definito, in cui l’alunno venga educato non soltanto alla conoscenza delle religioni ma anche in un contesto cattolico (o ebraico o protestante). Per il resto, come dice il Papa, programmi (pardon, indicazioni) nazionali validi per tutti.
È giusto liberalizzare l’istruzione ma è irresponsabile gettare alle ortiche quelle conquiste che hanno condotto all’abbattimento dell’analfabetismo e a una formazione culturale di base che offra gli strumenti per pari opportunità nella vita associata. Non a caso la decadenza è iniziata con il prevalere di quella pedagogia di stato che mira a sminuzzare, parcellizzare e libanizzare l’istruzione e che non paga mai il prezzo dei suoi insuccessi né mai viene chiamata a rendere conto delle proprie azioni.
Ma anche queste saranno parole al vento. Circolano troppi apprendisti stregoni che hanno un solo argomento: il potere, certamente non quello delle idee.