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«Siamo o meno alla vigilia di un nuovo ‘22? Non si tratta di un problema accademico. […] Insomma il fascismo degli anni sessanta non può essere il fascismo degli anni venti: ma non per questo il fenomeno del ‘60 è qualcosa di profondamente diverso da quello del ‘20. È finito il fascismo delle squadre d’azione, della violenza combattentistica, del nazionalismo esasperato: è rimasto – e in qualche misura – lo spirito antidemocratico, la tendenza all’autoritarismo, la pressione degli interessi economici; e c’è, inoltre essenziale novità in una situazione dominata dalle forze cattoliche, la volontà di potenza di un corpo, come la gerarchia ecclesiastica, con i suoi organismi e i suoi laici, estraneo alla società organizzata a Stato, e proprio perché estraneo intrinsecamente sopraffattore. I caratteri formali del movimento che rovesciò il regime democratico quarant’anni fa sono mutati; il colpo di Stato è un obiettivo che oggi non ha più senso. Ma che l’attacco esterno del fascismo allo Stato sia divenuto l’interna degenerazione clerico-fascista dello Stato, nulla toglie all’essenziale, se non in questo: che ha reso più difficile riconoscere un pericolo che è identico».

Se non fosse per qualche riferimento cronologico inequivocabile, quest’analisi sembrerebbe scritta nelle ultime settimane da Eugenio Scalfari o da Furio Colombo: lo stesso atteggiamento intellettuale, le stesse retoriche. Risale invece al 16 febbraio 1960 e comparve in un Taccuino del «Mondo» di Mario Pannunzio, che – con ogni probabilità – ne fu l’autore: su quel settimanale – specialmente nei primi anni Cinquanta –  si erano uditi anche accenti diversi, ma ormai stavano prevalendo questi toni. Uomini come Nicola Matteucci e Augusto Del Noce avevano un bel rispondere che «il fascismo era definitivamente morto nell’aprile 1945» e che considerarlo un pericolo eterno della politica italiana era strumentale e pericoloso: in quell’anno, soprattutto dopo l’esperienza del governo Tambroni, prese forma definitivamente quell’antifascismo «ideologico» o «categoriale» o «militante» che  è giunto fino ai nostri anni e che continua a costituire una risorsa ideologica a cui certi ambienti politici e culturali non sanno rinunziare.

E’ necessario, invece, ribadire la distinzione fra l’antifascismo «storico», che si è sviluppato in Italia dai primi anni Venti fino alla guerra di liberazione e quello, appunto, «ideologico». Il primo comprende figure e pensieri, che sono fra le  migliori espressioni della cultura italiana della prima metà del Novecento e che hanno dato prova di superiore “moralità”, combattendo contro il fascismo in tempi in cui sembrava non esserci possibilità di vittoria. Il secondo, presente in varie forze (comunisti, socialisti, post-azionisti, cattolici dossettiani) fin dall’immediato dopoguerra, è diventato egemone nei primi anni Sessanta con l’avvio dell’esperienza di centro-sinistra, di cui ha costituito in qualche modo la base ideologica. E’ stato una «formula» (come l’avrebbe definita Gaetano Mosca) funzionale a determinati disegni politici, anche se non sempre convergenti: l’apertura a sinistra, la legittimazione del partito comunista come cardine della democrazia italiana, la condanna di ogni anticomunismo, l’illegittimità politico-culturale di una qualsiasi formazione alla destra della DC e delle correnti anticomuniste all’interno dello stesso partito di maggioranza relativa, ma anche – nelle frange della “nuova sinistra” – la critica radicale della repubblica nata da una Resistenza abortita e tradita.

Recentemente don Gianni Baget Bozzo ha scritto che questo antifascismo «ideologico» è stato all’origine della violenza politica e anche delle derive terroristiche nere e rosse del ventennio che succede al 1960. Può sembrare un’affermazione paradossale, ma non è del tutto infondata. Dopo il luglio di quell’anno, la destra post-fascista fu ricacciata nel ghetto. Tutti i suoi tentativi di revisione ideologica e i conseguenti atteggiamenti perbenistici e legalitari parvero a molti dei giovani che gravitavano in quell’area non solo un «tradimento», ma un «tradimento inutile»: donde la loro auto-emarginazione e la radicalizzazione che li investì negli anni seguenti, parallela a quella che si svolgeva nelle frange giovanili di estrema sinistra. Quanto a queste, poi, credo che sia ormai indiscutibile che l’esperienza partigiana, la sindrome della guerra civile incompiuta, la necessità di chiudere definitivamente i conti con un nemico, che si incarnava in figure nuove, ma che restava sostanzialmente quello di sempre, fu alla base della scelta della lotta armata di non pochi comunisti “combattenti”.

Ho letto recentemente, nelle pagine di un noto storico dell’Italia contemporanea, che quello italiano sarebbe «un popolo […] con un’etica di basso profilo, sul quale il cattolicesimo ha esercitato un ruolo essenzialmente negativo, esaltando l’esteriorità, a scapito dell’interiorità, i comportamenti estrinseci a svantaggio della responsabilità». Tutto questo detto in una sede “scientifica”: ma quanti articoli di giornale abbiamo letto, dopo le recenti elezioni politiche, che grondano disprezzo per i nostri connazionali, il loro “conformismo”, il loro bisogno dell’uomo della Provvidenza, e poi puntualmente ripescano la Controriforma, la solitudine delle minoranze eroiche, il sentirsi stranieri in patria, la tenacia disperata dei pochi anticonformisti duri a morire, etc.!  La condanna moralistica degli italiani è un altro tipico topos dell’antifascismo “ideologico”, un’altra forma retorica con precedenti illustri nella cultura politica nostrana degli ultimi due secoli: per lo più si coniuga con un risentito laicismo, perché è la famosa mancanza di una Riforma religiosa che spiegherebbe questa corruzione originaria, mai interamente sanata. Da qui il carattere incompleto e trasformistico di ogni “rivoluzione” italiana, dal Risorgimento alla Resistenza. 

Giusto un secolo fa, in un saggio su Ruggero Bonghi, Benedetto Croce prendeva le distanze da questo moralismo politico, ironizzando sulle «generiche lamentele circa la corruttela dei tempi e le miserie d’Italia» e l’abuso «dei paragoni dell’Italia con paesi stranieri (con l’Inghilterra, con la Francia, ecc.)». Credo che la sua lezione resti, per questo aspetto, ancora valida per la cultura liberale italiana: anch’egli, certo, si sentiva parte di una specifica tradizione culturale e politica (quella che da Giannone giungeva ai giacobini napoletani e alla tradizione liberale del Mezzogiorno), ma di tale tradizione non ebbe mai una concezione esclusiva. Era storico troppo  avvertito per non capire che la “nazione italiana” ha  una struttura policentrica, che in essa si intrecciano tradizioni religiose e filoni culturali assai diversi, nessuno dei quali può pretendere un monopolio dell’ “italianità” e considerare gli altri alla stregua di “nemici interni”. Così seppe chinarsi con amore e curiosità inesausta sulla “vecchia Italia”, fatta di capitani di ventura e cortigiane, vescovi giansenisti e teologi liguorini, diplomatici borbonici e calvinisti in esilio;  e poiché non concepiva una storia se non del “positivo”, riuscì a individuare lo specifico contributo o almeno l’importante testimonianza  lasciata da tutti costoro nella storia nazionale.

Se non si ha una simile percezione della storia italiana, si finisce per gettarne gran parte e per identificarla con la tradizione a cui si appartiene: lo fece Giovanni Gentile, lo hanno fatto gli intellettuali del partito d’Azione, non a caso quasi tutti di estrazione gentiliana.

 Si è tornati a parlare negli ultimi anni degli anti-antifascisti, di coloro cioè che si opposero, col sarcasmo e l’invettiva più spesso che con un compiuto ragionamento, alle mistificazioni dell’antifascismo «ideologico»: la tradizione che da Ansaldo, Guareschi, Longanesi giunge fino a Montanelli. Molti di costoro nutrivano lo stesso pessimismo antropologico sul carattere degli italiani e sulla storia nazionale che era stato proprio dei giovani gobettiani e sarebbe poi prevalso di nuovo – dopo la guerra –  negli intellettuali azionisti: questo perché comune era l’origine “vociana” della loro cultura.  Uomini come Longanesi e Montanelli avevano a lungo creduto che il fascismo di Mussolini fosse la soluzione per questa endemica pochezza morale degli italiani: verso la fine degli anni Trenta, si accorsero che non solo non era così, ma che esso ne era invece l’ennesima incarnazione. Solo che a differenza di molti coetanei non ebbero la forza o la voglia di passare all’antifascismo: non furono più fascisti, ma non diventarono antifascisti. Restarono dei “disincantati”, convinti che di tanta speme restasse loro solo la scelta del “meno peggio”, compiuta sempre “turandosi il naso” e facendo chiaramente intendere di non esserne soddisfatti.

Ma esiste anche una tradizione liberale di anti-antifascismo, che forse andrebbe riproposta con maggior decisione: essa si incarna non solo in grandi intellettuali come Matteucci,  Romeo e De Felice, tutti appartenenti alla generazione post-fascista, ma anche in alcuni decisi antifascisti degli anni Trenta, che subirono allora arresti ed emarginazione. Costoro potevano vantare un passato che molti sacerdoti dell’antifascismo «ideologico» della prima repubblica erano (come abbiamo poi saputo) ben lungi dal possedere, eppure sono stati rapidamente messi da parte. Perché? Proprio in quanto si opposero alla ripresa strumentale e parossistica del cleavage fascismo/antifascismo e ne intuirono i risvolti politici. Alcuni nomi: Mario Vinciguerra, condannato dal Tribunale speciale a quindici anni di reclusione nel 1930; Carlo Ludovico Ragghianti, autore nel 1954 di un classico Disegno della liberazione italiana; Panfilo Gentile, per anni collaboratore del «Mondo» di Pannunzio.

Ma si può ricordare il caso del grande italianista Carlo Dionisotti, nel 1944 autore di un durissimo intervento, in cui rivendicava (da militante del Partito d’Azione) la giustezza dell’assassinio di Gentile. Dopo la guerra Dionisotti si trasferì in Inghilterra, dove avrebbe trascorso il resto della vita, ma negli anni Sessanta riprendeva contatto con gli antichi compagni, intervenendo più volte con articoli storico-politici su «Resistenza», il periodico torinese delle associazioni partigiane gielliste. Si tratta di saggi di notevole interesse che meriterebbero un esame approfondito (e magari di essere raccolti), ma qui ci interessa  solo l’ultimo, uscito nel 1968 in polemica contro alcune dichiarazioni di Guido Quazza. Lo storico piemontese, uno dei più impegnati sul terreno dell’antifascismo «ideologico», aveva sostenuto «l’innegabile continuità, pur nel mutare della situazione storica, tra la rivolta partigiana e la rivolta studentesca» di quell’anno e ne giustificava anche gli aspetti violenti, scrivendo che «occupazioni e dimostrazioni studentesche non sono state che pallida ombra, quasi una caricatura della violenza che il sistema stesso possiede e può e sa adoperare». Si trattava di un argomento (allora classico) di giustificazione della violenza politica, che sottolineava la “violenza strutturale” presente in tutte le istituzioni sociali e politiche e finiva quindi per legittimare qualsiasi azione violenta diretta contro di esse. Già nel 1965, Dionisotti aveva espresso dubbi che l’antifascismo potesse ancora costituire «l’insegna»  in base alla quale si potessero produrre «una chiarificazione e semplificazione dei contrasti politici fondamentali» e «un potenziamento e un aggiornamento dei partiti e dello Stato»: ora alla fine dell’anno degli studenti, poneva una questione «alla quale è sperabile che il prof. Quazza possa rispondere tacitianamente sì o no.  Se come egli crede indubitabile, esiste un rapporto di continuità fra la lotta partigiana e la rivolta studentesca, esiste dunque un parallelo rapporto di continuità fra il regime nazifascista e il presente assetto politico dell’Italia?».

Si può essere studiosi di Pietro Bembo e del petrarchismo cinquecentesco e avere una percezione dei propri tempi molto più limpida di tanti storici di professione. Dionisotti coglieva il nodo problematico delle argomentazioni di molti antifascisti «ideologici», per il quale sarebbe stato difficile per loro spiegare, negli anni successivi, che, pur esistendo in qualche modo una tale continuità, i “nuovi partigiani” non avrebbero dovuto tuttavia impegnarsi in azioni violente e, magari, in una lotta armata contro il nemico di sempre.

(L’Occidentale)