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Tra le parole più ricorrenti da mesi spiccano “Ocse-Pisa” e “debiti formativi in matematica”. Probabilmente non molti sanno cosa esse significhino esattamente, ma quel che è chiaro a tutti è che alludono a una constatazione: «gli italiani sono per lo più somari in matematica».

E tutti si chiedono cosa fare per rimediare a questo disastro che rischia di farci scivolare nel Terzo e Quarto Mondo, in un mondo che punisce chi non ha cultura scientifica e tecnologica, di cui la matematica è un asse portante. Ma oltre alle lamentele, ai proclami ed alle dichiarazioni d’intenti che cosa si è fatto e si sta facendo?

Il Comitato per la Matematica istituito dall’ex-ministro Fioroni, nel suo periodo di attività sotto il precedente governo, ha dapprima preso atto – con massima soddisfazione dell’ala pedagogico-didattica e sconcerto dei “relitti del passato” come lo scrivente – che tutto si può fare salvo che parlare di “programmi” e di “contenuti”, termini orrendi e fortunatamente proscritti dal pensiero moderno, e che il toccasana consiste nell’approfondire ed estendere il dominio delle metodologie dell’“insegnamento-apprendimento”. Avendo constatato che la scuola media inferiore è il “buco nero” della matematica – per molteplici ragioni che è inutile qui approfondire – è stato elaborato un colossale piano consistente nell’istituzione di decine di centri provinciali di aggiornamento (con tanto di strutture connesse), di “dipartimenti di matematica” istituto per istituto, di “istituti pilota”, ecc. ecc. Per fortuna la ragione ha prevalso, e il megagalattico piano – che avrebbe messo a dura prova le coronarie di qualsiasi ministro del tesoro – è stato accantonato. Siccome dei programmi di matematica non si può parlare, tantomeno dei libri di testo, non ne è venuto fuori altro. Insomma, la pletorica montagna non ha partorito neppure il topolino e non si può che salutare con favore che la fine della legislatura ne abbia interrotto la sterile esistenza.

Per parte sua, la Commissione per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica presieduta dall’ex-ministro Luigi Berlinguer ha prodotto un documento culturalmente inconsistente, pieno di affermazioni divertenti, come quella secondo cui in Italia l’insegnamento scientifico è oggetto di apprendimento “scolastico” e “cartaceo”: chissà mai dove si dovrebbe insegnare e apprendere la scienza se non a scuola e chissà perché la carta dovrebbe essere un oggetto diabolico. Dopo aver scomunicato il “deduttivismo” e aver decretato in modo altisonante che il vero metodo scientifico è “sperimentale” la Commissione ha individuato come toccasana la costruzione di migliaia di laboratori in tutte le scuole italiane.  Insomma, si propone un altro assalto alle finanze pubbliche, per giunta totalmente irrazionale, visto che verrebbero dotate di laboratori scuole in cui piove dal tetto. Ma, oltretutto, si fa uno sberleffo in faccia alla matematica che è scienza inesorabilmente “deduttiva”, non sperimentale e “cartacea” e anche quando ricorre al calcolatore lo fa sulla base di un solido apparato teorico.

Altre ricette? Tutte contrassegnate dalla stessa caratteristica: alla larga dai contenuti, e dalli con la metodologia. I docimologi e i valutatori raggiungono l’apice comportandosi come quel medico cui interessa soltanto un’accurata compilazione della cartella clinica – curva della temperatura e della pressione arteriosa, curva glicemica, ecc. – e poi se il malato se ne va all’altro mondo è un fatto secondario. Quantomeno sarà disponibile una perfetta descrizione statistica del processo che ha condotto all’esito fatale.

Dobbiamo tuttavia correggerci: una proposta concreta, seppure sempre metodologica, viene avanzata. Si tratta del progetto di una totale liberalizzazione del sistema: concessione di una totale autonomia ai singoli istituti i quali determineranno i programmi in assoluta libertà. In un istituto si studierà latino e Dante e niente matematica, in un altro tanta matematica e niente letteratura. Tutto verrà messo in mano alla dura selezione darwiniana del mercato: vincerà il migliore a giudizio dell’utente, nel trionfo della “customer satisfaction”. Lasciamo da parte il fatto che un sistema del genere ha senso – teorico, non necessariamente pratico – alla sola condizione di abolire il valore legale del titolo di studio, altrimenti è fatto apposta per favorire gli istituti che promuovono i somari. Lasciamo da parte il fatto che la seconda condizione imprescindibile è la totale privatizzazione del sistema, altrimenti l’autonomia sarebbe fittizia e produrrebbe quei nefasti effetti già sperimentati nelle università. Lasciamo da parte il fatto che la prospettiva di realizzare in tempi ragionevoli assieme all’autonomia le due suddette condizioni imprescindibili – privatizzazione totale e abolizione del valore legale del titolo di studio – può essere forse raccontata ai bimbi in appendice al “Gatto con gli stivali” o al più creduta da qualche nonna ultracentenaria. Lasciamo da parte tutte le ragionevoli obiezioni che si possono fare a una concezione aziendalistica che equipara l’istruzione a una rete di supermercati. Pur lasciando da parte tutte queste inezie resta il duro fatto che un esempio di un sistema del genere che funzioni veramente, al punto da rendere accettabile l’idea di una rivoluzione epocale come quella appena abbozzata, non esiste in natura. E non si venga a tirar fuori il modello statunitense, perché la scuola negli Stati Uniti è un colabrodo e non è certamente un esempio da seguire. Di fatto, oggi gli unici modelli che funzionano sono rigidamente centralisti e statalisti e basati sull’uso di programmi rigidi. Avete visto le foto delle scuole cinesi, trasferite all’aperto a causa del terremoto: la maestra che “impartisce” nozioni con il righello in mano, davanti alla lavagna, e i bambini seduti ordinatamente a lavorare in modo “cartaceo”? Avete letto i programmi di matematica di molti paesi dell’Estremo Oriente? Non voglio trarre conclusioni di alcun tipo, ma che almeno si ragioni liberamente sui fatti, senza pregiudizi ideologici e senza costruire alla leggera castelli in aria.

E alla fine di tutta questa orgia di idee, che fare per la matematica? Scusate la banalità, anzi la trivialità, ma colpisce il fatto che a nessuno venga in mente un’idea semplice semplice, e cioè che un buon rimedio potrebbe essere quello di studiarla, e studiarla bene, questa dannata matematica, visto che tutti concordano sul fatto che se non la sappiamo siamo perduti.

Studiare? Ma questo è un fatto secondario, anzi perturbante. Tutt’al più deve risultare come sottoprodotto, effetto, conseguenza di opportune scelte gestionali. Dire agli studenti di studiare e pretendere che lo facciano è il colmo della volgarità e – diciamolo pure – del più rivoltante atteggiamento reazionario. Assistiamo così allo spettacolo tragicomico di “educatori” ed “esperti scolastici” che sparano decine di proposte di ingegneria istituzionale e di marchingegni organizzativi e legislativi nella speranza che da essi discenda come scienza infusa dal cielo la conoscenza dell’algoritmo della divisione o delle formule risolutive delle equazioni di secondo grado. L’unica prospettiva esclusa è che i poveri stressatissimi cocchi debbano poggiare il sedere sulla sedia, aprire un libro e imbrattare qualche foglio. La scienza infusa per via legislativa e ordinamentale… Un fenomeno degno davvero di un’indagine del Cicap (il Centro per lo studio dei fenomeni paranormali).

Il fatto che tutto sia considerato accettabile, anche confidare nel paranormale o nei miracoli, eccetto che chiedere ai ragazzi di studiare, è confermato da numerose lettere che ricevo e che testimoniano della situazione che si è prodotta a seguito del pur blandissimo provvedimento dell’ex-ministro Fioroni per il recupero dei debiti formativi. Raccontano molti professori di matematica di essere messi alla gogna, loro e la loro disciplina, da certi consigli di classe e da certi “dirigenti scolastici” che deprecano il turbamento delle coscienze prodotto dai numerosi “rinvii” a corsi di recupero per debiti in matematica. Pare che i docenti di matematica siano sotto accusa per la turbativa che hanno provocato prendendo sul serio il fatto che una buona metà degli studenti non sa la matematica e per aver avuto la sciagurata idea di “rimandarli”, il che poi significa imporre una quindicina di ore di recupero al termine delle quali la promozione sarà comunque assicurata. Quei dirigenti e quei colleghi che li mettono alla gogna sono imbevuti dell’ideologia del professor De Mauro secondo cui non c’è niente di male che uno studente sia carente in un paio di discipline: quel che conta è che egli si collochi al di sopra di una certa “media minima” (con una terminologia che esprime una profonda cultura matematica).

Che “squola felix” era quella in cui una metà degli alunni poteva tranquillamente infischiarsene della matematica, e magari anche della grammatica italiana! Era un luogo di armonia tra fanciulli, insegnanti, famiglie e sindacati. Poi sono venuti i maledetti rapporti Ocse-Pisa e qualcuno si è pure messo in testa l’idea sciagurata di chiedere ai “debitori formativi” di studiare di più. Roba da pazzi. Il risultato sarà una crescita esponenziale dell’odio per la matematica e allora non bisognerà lamentarsi se al prossimo Ocse-Pisa l’Italia risulterà agli ultimissimi posti per le “competenze” in matematica.

Pretendono pure che si studi… Invece di affidarsi allo stellone d’Italia e alle escogitazioni di San Pedagogista di Stato.

(L’Occidentale)