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Una forte corrente d’opinione, ripresa anche da molti articoli apparsi sull’Occidentale, vorrebbe presentare le occupazioni e le manifestazioni degli studenti di questi giorni come nient’altro che la meccanica riproposizione di un rito che va in scena ogni autunno: una pratica di socializzazione che porta i giovani liceali e universitari a perdere qualche giorno di lezione e che, in cambio, concede loro un’esperienza di vita.

A me, invece, non pare sia proprio così, almeno per tre ragioni.

Innanzi tutto mai come in passato si è formato un asse tra manifestanti e professori. Anzi, a ben vedere, sono questi i veri leader della contestazione. Quelli che spingono i loro allievi nelle piazze a fare lezione e li incitano con parole, opere e omissioni. Così posto, il conflitto rientra in una dinamica più complessiva che sta investendo l’Italia. Il governo Berlusconi, infatti, è saldo e forte nell’opinione pubblica (del resto, anche in tema di scuola e università i sondaggi parlano chiaro) ma non ha conquistato le élites del Paese che al più lo subiscono. E che appena possono cercano di fargliela pagare. Rettori, presidi e professori, che per tanti versi dovrebbero trovarsi sul banco degli accusati per la situazione nella quale versa l’università, hanno così trovato un insperato appoggio in un movimento di contestazione più schiettamente e coerentemente conservatore rispetto a quelli passati e si fanno interpreti di una rivincita che va oltre i confini delle cittadelle universitarie sulle quali regnano.

Il secondo aspetto di novità è nella reazione che questa strana alleanza sta suscitando. I movimenti giovanili hanno sempre rappresentato una minoranza rumorosa che, però, ha potuto contare sul silenzio complice dell’altra parte. Vi è qualche segno che questa complicità antica stia venendo meno. Al di là dell’azione esplicita dei movimenti giovanili di centro-destra, chi gira per siti e blog avrà notato strane aggregazioni tra coloro che spontaneamente dicono di appartenere alla maggioranza silenziosa, che rivendicano diritti e si fanno interpreti di un cambiamento operoso, contro manifestazioni e assemblee. Bisognerà vedere nei prossimi giorni se tutto ciò sfocerà in qualche forma d’iniziativa pubblica. L’università è ormai divenuto un universo autoreferenziale. Se questa prospettiva dovesse concretizzarsi e assumere forza, anche solo come contestazione episodica del movimento in atto, le dinamiche interne potrebbero esserne sconvolte.

Da tutto ciò discende il terzo aspetto di novità, che concerne i comportamenti di quanti hanno in mano le sorti del Paese. In passato, nel corso del lungo Sessantotto, le classi dirigenti hanno avuto nei confronti delle contestazioni – piccole o grandi che fossero – un atteggiamento paternalistico se non compiacente, lasciando a poche figure emblematiche il compito di dire la verità: nel ’68, è quanto fecero e scrissero Augusto Del Noce, Sergio Cotta o Nicola Matteucci.

Non sono stati pochi i danni prodotti da questo modo d’interpretare il proprio ruolo di governo. Ma su un piano politico generale ci si poteva permettere questa sorta di acquiescenza nei confronti dei movimenti di contestazione, perché ci si trovava in una fase di espansione e non era in gioco né la tenuta del Paese né tanto meno la bancarotta dell’università. Oggi la situazione è diversa. Per questo non basta che chi ha la responsabilità di provare a modernizzare il Paese si limiti a evidenziare solo contraddizioni e miserie del movimento. Spetta a lui anche indicare la via d’uscita: un progetto credibile per il futuro dell’università oltre la denunzia delle storture, delle insensatezze dei privilegi che in quest’universo si sono accumulati nei decenni.

A questa prova si è chiamati nei prossimi giorni. E dalla capacità o meno di affrontarla dipenderà tanto dell’esisto finale di questa vicenda.