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Le identità collettive sono un Giano bifronte. Da una parte, sono uno dei principali fattori di coesione sociale, creando tra gli individui delle legature che permettono l’esistenza dell’ordinamento statale. Dall’altra parte, sono un fattore di lacerazione sociale, introducendo un’opposizione tra “noi” e gli “altri” che può essere così intensa da rompere l’ordine sociale e quello politico.
Nel mondo d’oggi l’identità è divenuta problematica. In primo luogo, perché, come viene spesso osservato, non è più percepita come un dato “naturale” ma come una creazione culturale o comunque come un dato problematico, modificabile nel corso dell’esistenza, o come oggetto di una scelta (1). In secondo luogo, perché è divenuto sempre più difficile mantenere l’equilibrio tra le due facce dell’identità collettiva, quella che lega e crea coesione e quella che distrugge e crea conflitto.
Infatti è ormai sempre più frequentemente evidenziata la difficoltà di assicurare una forza vincolante che mantenga unito l’ordinamento politico. Dai Balcani alla Palestina, dal terrorismo islamico all’esplosione in India del fondamentalismo indù, per arrivare al conflitto tra fiamminghi e valloni in Belgio, la riscoperta dell’identità innesta conflitti che minacciano lo Stato. Ma senza andare così lontano, va osservato come persino la terra per eccellenza della coesistenza pacifica di etnie e culture diverse, ossia gli Stati Uniti d’America, attraversa un periodo di lacerazioni profonde. Al riguardo, autorevolmente è stato scritto: “E’ un periodo buio per la politica statunitense. Gli americani sono in profondo disaccordo praticamente su tutto… Non sono divergenze nell’ambito di un civile dibattito: nessuna delle due fazioni ha rispetto per l’altra. Non siamo più partner dell’autogoverno; la nostra vita politica assomiglia sempre più a una guerra”. Se poi si guarda l’esperienza italiana della cosiddetta “Seconda Repubblica”, è agevole constatare come essa sia stata prevalentemente caratterizzata dall’emersione di una cultura politica che ha radicalizzato il conflitto tra maggioranza e opposizione, rievocando gli schemi schmittiani della politica come contrapposizione tra “amico e nemico”. Pertanto il suo regime politico è stato definito “bipolarismo conflittuale”.
Le difficoltà di assicurare l’unità degli ordinamenti liberaldemocratici non sono però recentissime, anche se nei tempi presenti paiono accresciute. E’ nota, per esempio, l’analisi di Bockenforde: “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che per amore della libertà lo Stato deve affrontare” . Fino al XIX secolo la religione era stata la grande forza unificante che poteva garantire l’unità e la coesione necessaria per l’esistenza dell’ordinamento statale, ma quando questa capacità unificante è divenuta insufficiente, il problema dell’unità politica è diventato di ardua soluzione: “ di cosa vive lo Stato, dove trova la forza che lo sostiene e garantisce l’omogeneità e le intrinseche virtù regolative della libertà, delle quali ha bisogno da quando la forza vincolante tratta dalla religione non è né può più essere essenziale per esso? Fino al secolo XIX, in un mondo originariamente interpretato in senso sacrale, la religione era stata la più profonda forza vincolante per l’ordinamento politico e la vita dello Stato. L’eticità si può fondare e mantenere in via intramondana e secolare, lo Stato può edificarsi su una ‘morale naturale’? Se la risposta è no, può esso – indipendentemente da tutto ciò – vivere della soddisfazione delle attese eudomonistiche dei suoi cittadini?”.

Dal quadro problematico che si è rapidamente schizzato si sprigionano sfide epocali per il costituzionalismo del XXI secolo. In verità, il costituzionalismo si è sempre confrontato con il tema dell’identità, ma per lungo tempo la sua problematicità è rimasta nascosta. Il concetto di “Nazione” è servito a ribadire l’esistenza dell’unità politica, intesa come dato naturalmente necessario. Se per lungo tempo l’ordine sociale e quello politico potevano contare su ben radicate e strettamente intrecciate “società di familiarità reciproca” (la famiglia, il villaggio, le comunità locali basate sui rapporti feudali, la comunità dei fedeli), con la piena affermazione dello Stato moderno e di un’economia capitalistica e mercantile e la conseguente crisi di queste forme tradizionali di identità e di legame sociale, l’identità nazionale è divenuta il fondamento dell’unità politica e della legittimità dello Stato. La grande invenzione è stata quella di fare della nascita il fondamento di un’appartenenza degli individui ad un tutto inscindibile e coeso che trovava la sua massima espressione nello Stato sovrano. Si è così realizzato un matrimonio indissolubile tra Nazione e Stato sovrano.
Il punto centrale dello Stato nazionale, anche nelle diverse realizzazioni storiche riconducibili ai principi del liberalismo politico, è stato la indiscussa superiorità dell’identità statual-nazionale rispetto alle altre. Lo Stato ammetteva l’esistenza di identità minori, come le collettività territoriali, ma esse restavano subordinate allo Stato nazionale titolare della sovranità. Emblematica è, al riguardo, la teoria dell’ordinamento giuridico di Santi Romano dove la scoperta del pluralismo degli ordinamenti giuridici si accompagna alla sovraordinazione dell’ordinamento statale rispetto a tutti gli altri operanti nel suo territorio.
Con il costituzionalismo del secondo dopoguerra, che in Europa si costruisce sulle macerie dei totalitarismi, l’unità politica è divenuta un dato assai problematico e la Nazione ha perduto la forza aggregante di un tempo Il conflitto sociale, che lo Stato liberale – anche grazie al suffragio ristretto – aveva posto al di fuori del suo perimetro istituzionale, è entrato pienamente nel recinto costituzionale. Ma simultaneamente la capacità unificante dell’idea di Nazione è venuta meno. Da una parte, le grandi ideologie che hanno rappresentato questo conflitto, animando il “secolo breve”, sono state tipicamente transnazionali. Dall’altra parte, il riconoscimento del conflitto sociale, inteso soprattutto come conflitto di classe, ha svelato il carattere artificiale dell’interesse nazionale, dando voce all’interno dello “Stato pluriclasse” a interessi eterogenei e conflittuali, che potevano trovare un componimento provvisorio solo attraverso la mediazione e il compromesso.
A questa grande trasformazione il costituzionalismo del secondo dopoguerra rispondeva essenzialmente in due modi, tra loro strettamente connessi, i partiti politici di massa e lo Stato sociale. Mentre l’identità nazionale, seppure non dissolta, perdeva gran parte della sua forza di coesione, assumevano forza quelle identità collettive espresse dai grandi partiti politici di massa che – nell’era delle ideologie – costituivano delle identità assorbenti, onnicomprensive, sovraordinate e prevalenti su qualsiasi altra identità particolare. La sovranità dello Stato ed il suo risvolto, l’identità nazionale, entravano in crisi a favore di prepotenti identità collettive che esigevano una piena fedeltà da parte degli individui (il “partito-chiesa”), che erano in grado di fornire i criteri generali cui ispirare i comportamenti dei singoli, che potevano richiedere ai “fedeli” sacrifici nell’immediato in vista del trionfo futuro dell’ideologia. Proprio quest’ultima capacità consentiva a ciascun partito di mediare tra interessi diversi, in nome dell’ideologia, e di raggiungere delle sintesi, che poi fornivano la base del compromesso tra i diversi partiti, stilizzato nel “parlamentarismo compromissorio” di Hans Kelsen. In questo modo il sistema dei partiti poteva ricomporre in unità il pluralismo.
E’ risaputo, però, che questo modello è entrato in una crisi profonda perché sono venute meno le ideologie novecentesche e le forti identità collettive che su di esse erano state costruite. Il sistema dei partiti è, un po’ dovunque, corroso da difficoltà che riguardano sia la legittimazione che la capacità decisionale. Esso non riesce più ad assicurare l’unità politica dell’ordinamento statale. Così come è in crisi quello “Stato sociale” che era stata costruito dai partiti di massa e dalle loro politiche redistributive con cui si è pacificato il conflitto sociale del novecento. Com’è noto, di fronte a ai rischi dell’esistenza ed ai correlativi stati di insicurezza – la malattia, la vecchiaia, l’invalidità – lo Stato sociale forniva al singolo individuo, e particolarmente ai meno abbienti, un ombrello protettivo, che doveva accompagnarlo “dalla culla alla tomba”. Se la forte identità nazionale era in larga misura logorata, la rete statale di sicurezza costituiva un altrettanto forte fattore di coesione, che amplificava la funzione integrativa del sistema dei partiti. Ma la globalizzazione, le politiche di risanamento finanziario, i limiti alla spesa pubblica, le politiche di liberalizzazione, com’è noto, hanno fortemente ridimensionato lo Stato sociale.
Di fronte alle difficoltà di mantenere l’unità politica, oggi, non pare più sufficiente neppure il richiamo al cosiddetto “patriottismo costituzionale”. La Costituzione come simbolo dell’unità di una società pluralistica e ora pure multiculturale, non sembra sufficiente a mantenere un livello sufficiente di coesione, a contrastare le tendenze disgregatrici e l’affermazione dei particolarismi. Intanto, perché le Costituzioni dei Paesi europei sono state storicamente il prodotto di quei grandi orientamenti ideologici e politici che, nella seconda metà del novecento sono usciti vincitori dalla lotta contro i totalitarismi. La Costituzione come compromesso vitale tra queste grandi famiglie ideologiche, non può avere l’originaria forza unificante perché le sue matrici politico-ideologiche hanno perduto il radicamento nella società. Ma soprattutto, è stato giustamente osservato che in Europa il “patriottismo costituzionale” si legava storicamente e logicamente ad uno “Stato sociale” che riusciva – in un contesto economico, sociale e politico ben diverso dall’attuale – a garantire agli individui la sicurezza contro le disavventure dell’esistenza.
Pur nel pluralismo delle ideologie e delle culture, nonostante la perdita di vigore dell’idea di Nazione, la capacità integratrice della Costituzione poteva fare affidamento sulle politiche del Welfare che essa legittimava ed in una certa misura imponeva. Quando, però, come già detto, gran parte delle antiche protezioni sociali vengono meno o si indeboliscono, quando aumentano non solo i rischi legati alle naturali vicende della vita, ma anche quelli ingenerati dallo sviluppo industriale e della tecnica, dando vita alla “società del rischio”, l’individuo è esposto ad un senso di insicurezza che solo debolmente può essere contrastato appellandosi alla Costituzione.
Le Costituzioni del novecento hanno legittimato quel processo di estensione della cittadinanza efficacemente descritto da Marshall, attraverso il passaggio dalle libertà civili, ai diritti politici e quindi ai diritti sociali. Ma nell’epoca della globalizzazione è divenuto arduo allo Stato coprire finanziariamente il costo di tali diritti, sicché ha sempre meno benefici da offrire in cambio della lealtà. Tale fenomeno riguarda non solo gli individui e i gruppi economicamente più deboli, ma anche i gruppi più ricchi. Se lo Stato non può assicurare più adeguati benefici e se, addirittura, appare come un costo da sopportare senza che sia capace di assicurare il bene fondamentale della sicurezza, anche i gruppi più ricchi tendono a far venir meno la loro lealtà allo Stato sotto forma di solidarietà nazionale.
Inoltre, il processo economico esclude dalla società alcuni individui, che sono stati descritti come “rifiuti umani” e che finiscono nell’oblio di quella che è stata chiamata la “sottoclasse”. Il prodotto terribile del capitalismo globale è, a livello planetario, non già lo “sfruttamento” di cui parlava Marx, bensì l’”esclusione”. Per tutti costoro non ci può essere una “repubblica” ed una Costituzione in cui identificarsi.
La crescita dell’insicurezza individuale apre la strada alla ricerca di qualche più semplice e immediata identità collettiva, che possa fornire un qualche riparo, dal punto di vista materiale o almeno psicologico, di fronte ai rischi della nostra epoca. Com’è noto, la nostra era è segnata dalle richieste di “riconoscimento” di identità collettive da parte degli ordinamenti statali. Il cosiddetto “multiculturalismo” esprime, infatti, l’idea secondo cui il “vecchio” paradigma della politica del novecento che vedeva nelle politiche redistributive il rimedio all’ingiustizia, andrebbe sostituito da un nuovo paradigma. Quest’ultimo richiederebbe come rimedio all’ingiustizia, la quale corrode la possibilità del vivere insieme in una comune società statale, il riconoscimento delle identità culturali distinte, la valorizzazione delle differenze culturali, il loro mantenimento contro ogni politica di assimilazione. Ma così facendo c’è anche il rischio che lo Stato si sgretoli in comunità identitarie separate, non comunicanti, reciprocamente diffidenti, diffondendo così ancora più alienazione e conflitti.

Se la Nazione, i partiti di massa, il patriottismo costituzionale non riescono più a fornire quel minimo di forza unificante che è necessaria per l’esistenza dell’obbligazione politica e per la legittimità dello Stato, aprendo la strada alla rincorsa dei particolarismi e delle attese eudomonistiche di cui parla Bockenforde, è naturale che l’attenzione si sia rivolta verso quella tradizionale fonte di coesione e di unità che è la religione.
Di fronte alla frammentazione sociale, alla perdita di senso, al nichilismo che pervadono le società occidentali e minano alla radice la legittimità dello Stato, la religione si ricandida a fornire il collante sociale e la base di legittimazione dello Stato. La prospettiva post-secolare vede proprio nella religione l’unica forza capace di fornire l’ethos della società tutta intera. All’idea della neutralità dello Stato e quindi della sua laicità (che, però, come afferma la Corte costituzionale italiana, non esclude un atteggiamento dei pubblici poteri di favore per il fenomeno religioso purché non via siano discriminazioni tra le diverse confessioni religiose), si sostituisce l’idea secondo cui la Chiesa possiede un patrimonio di verità ultime sull’essere umano, sia come singolo che come soggetto sociale, e che questo patrimonio possa supplire ai tradizionali collanti su cui si è basata l’unità politica dello Stato.
Naturalmente problematiche di simile spessore non possono essere liquidate in poco spazio, ma vanno richiamati i principali argomenti che sono stati opposti da Zagrebelsky alla suddetta prospettiva. Dal punto di vista dello stato costituzionale democratico, essa si rivela come una sottrazione di legittimità alla costituzione positiva. La sua validità, infatti, è sottoposta ad un giudizio esterno di verità e pertanto è resa precaria: “ad una Costituzione immanente, finisce per sovrapporsi una Costituzione trascendente, sempre potenzialmente in contrasto”. Inoltre, lo sviluppo coerente della menzionata prospettiva comporta un’iper-rappresentazione delle posizioni della Chiesa a scapito delle altre confessioni religiose e dei non credenti, “con la conseguenza, contraddittoria rispetto all’esigenza posta in premessa – contribuire alla formazione di un ethos comune, al cui servizio la Chiesa afferma di volersi porre -, di una realtà e di un sentimento di discriminazione e alienazione che non possono che alimentare divisioni ulteriori, contrasti e tensioni distruttive”.
Ma anche la soluzione offerta da Zagrebelsky pare debole. Secondo lo studioso citato lo Stato costituzionale democratico ha già un suo sistema di valori su cui si fonda: tolleranza nei confronti delle fedi di tutti, laicità, libertà e socialità, razionalismo, pluralismo, uguaglianza, diritti umani, costituzionalismo, democrazia…Tutto questo, indubitalmente, è identità. Essa, a differenza di quella dei procacciatori di identità perdute non poggia su elementi concreti del tipo: una fede, una religione, una tradizione, un’ideologia o una mitologia, una storia, una terra, una stirpe ecc. Non poggia su unità pre-date perché la democrazia pluralista, per condurre a una vita comune le sue tante componenti, senza far uso di violenza, deve far leva soprattutto su valori astratti, non concreti; formali o procedurali, non materiali.”. In questo modo si ripropone una variante del patriottismo costituzionale, per giunta più debole di quella sopra richiamata, perché si riferisce ai soli valori procedurali. Sicché in fin dei conti si sfugge alla domanda se una democrazia pluralistica possa reggersi esclusivamente sul rispetto delle procedure e non richieda invece un radicamento in un paniere di valori condivisi. Quanto difficile sia optare per la prima soluzione, emerge proprio nei momenti di crisi o di trasformazione sociale, quando larghi parti della società non percepiscono più i benefici – materiali o immateriali – che derivano dello “stare insieme”, quando cioè le procedure democratiche hanno comunque esiti che ai più appaiono privi di qualsiasi valore o peggio ancora ostili.
Ecco allora che, per sfuggire, ad esiti così infelici per lo Stato costituzionale democratico, può entrare in gioco la proposta di Habermas. Nell’ormai celebre dialogo con Joseph Ratzinger, divenuto poi Papa Benedetto XVI, era sostenuto che lo Stato costituzionale democratico non contempla le sole libertà negative ma vari diritti di partecipazione, per cui il processo democratico vale come una procedura di produzione giuridica legittima in quanto permette la formazione inclusiva e comunicativa dell’opinione e della volontà; per questa ragione esso lascia presumere di ottenere risultati accettabili razionalmente. Lo Stato costituzionale democratico, grazie alla garanzia delle “libertà comunicative”, mobilita la partecipazione dei suoi cittadini alla discussione pubblica in ordine a temi che riguardano tutti. Perciò, il “vincolo unificante”, di cui oggi si lamenta la mancanza, può essere costruito attraverso questo processo democratico. In questo universo teorico si inserisce l’idea secondo cui la secolarizzazione culturale e sociale può essere configurata come un “processo di apprendimento doppio”, il quale “obbliga tanto la tradizione dell’Illuminismo, quanto la tradizione della dottrina religiosa a riflettere sui propri rispettivi limiti”. Su questa reciproca “disponibilità ad apprendere” si fonda la ricerca di una via di soluzione al problema sollevato da Bockenforde: “nella società post-secolare si giunge a conoscenza che la ‘modernizzazione della coscienza pubblica’ comprende, in fasi diverse, mentalità sia religiose che secolari e le trasforma riflessivamente. Se concepiscono insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare, entrambe le parti possono prendere sul serio reciprocamente, anche dal punto di vista dei fondamenti cognitivio, il loro contributo a temi controversi nella sfera pubblica”. C’è in questa proposta la sottolineatura dell’attenzione che deve essere riservato a quanto presente nella vita comune delle comunità religiose: “una volta che esse rinuncino al dogmatismo e alla coercizione sulle coscienze, può rimanere un qualcosa di intatto, un qualcosa che altrove è andato perduto e non può essere ripristinato da nessun sapere professionale o specialistico da solo”. In questo complesso processo di reciproco apprendimento, potrebbe essere trovato il modo per integrare quel “terreno comune” che è necessario per la sopravvivenza della democrazia. Nell’edificazione di questo terreno comune un posto non irrilevante va assegnato a quel principio di solidarietà tra individui, cui la fortuna e le capacità hanno assegnato diverse posizioni sociali e differenti gradi di benessere economico. Un principio ben presente nella tradizione e nella vita delle collettività religiose e che se sostituito dalla rincorsa delle attese eudomonistiche porta all’inaridimento delle radici comuni e, quindi, delle ragioni dello “stare insieme”.

Esiste un paradosso dell’identità. L’esistenza di una chiara identità collettiva è necessaria per assicurare l’unità politica, ma al tempo stesso l’identità è una forza che distrugge l’ordine sociale e rompe l’unità politica. L’unità politica è necessaria per mantenere una forma evoluta di socialità umana, ma al tempo stesso essa può costituire una minaccia per la libertà di scelta e per la pari dignità degli individui, imponendo un modello uniforme di cultura e di comportamento.
La sfida che viene lanciata al costituzionalismo del XXI secolo è come ritrovare – nell’era della globalizzazione, della società del rischio, della crisi delle ideologie novecentesche – un equilibrio tra unità e differenza. Si ripropone, quindi, la domanda di come sia possibile ottenere l’unità politica nonostante le differenze e, inversamente, di come sia possibile preservare la differenza nonostante l’unità.
Nel precedente paragrafo si è sottolineata l’urgenza di costruire un “terreno comune”, anche attraverso il confronto à la Habermas tra religioni e tra laici e credenti, ma la ricerca di un terreno comune è difficile se le identità si atteggiano a recinti chiusi e, anche dal punto di vista dell’analisi e delle costruzioni culturali, si insiste sulla configurazione delle identità quali sistema di credenze, di valori, di culture completi, pre-definiti e reciprocamente escludentesi.
Proprio muovendo da simili premesse Zagrebelsky respinge la proposta di Habermas: tra laici e credenti – cattolici, in particolare – non ci può essere un reciproco apprendimento perché il momento critico è sempre presente: “il momento in cui la pretesa di una parte al riconoscimento delle sue proprie ragioni richiede la contraddizione dei presupposti da cui muove l’altra parte. E’ il momento in cui, da entrambe le parti, per restare fedeli a sé stesse si pronuncia la fatidica frase non possumus”. La possibilità del dialogo, quindi, viene sostanzialmente negata: “la capacità di dialogo equivale alla disponibilità all’auto-modificazione, in base ai buoni argomenti (razionali e religiosi, ma, questi ultimi, sostenuti con argomenti capaci di valere in generale). Se non è così, il dialogo si trasforma in monologo tra sordi. Questo pericolo esiste sia per il pensiero razionale, sia per quello religioso, ma per quest’ultimo è più grave, in quanto solo esso è sostenuto da un’autorità concentrata, produttiva di dottrine nel suo ambito vincolanti. Solo il mondo cattolico, non certo quello non cattolico, ha dietro di sé questa realtà produttiva di verità di fede”.
Ma si tratta di argomenti che provano troppo. Se accogliessimo simili argomentazioni, dovremmo concludere che tra cattolici e laici non c’è esito possibile che lo scontro, il conflitto irriducibile, in cui c’è un solo vinto e un solo vincitore. L’alternativa a questo esito sarebbe l’irreversibile esclusione di uno dei due contendenti dalla sfera pubblica, il restringimento del recinto dello Stato, in modo che una delle forze in campo sia esclusa dalla sfera pubblica. Ma in entrambi i casi sarebbe compromesso proprio quel pluralismo e quella tolleranza che in premessa la teoria vorrebbe garantire. Certamente quelli indicati potranno essere esisti storicamente possibili, ma questo non significa che essi siano anche necessari. Il punto centrale è come evitare che il dialogo si trasformi in monologo tra sordi, cioè che la vita pubblica sia percorsa da un’opposizione irriducibile tra identità collettive non comunicanti, ostili, in guerra tra loro.
Siamo così a dover fare i conti con la contrapposizione tra la teoria dello scontro di identità e la teoria della pluralità delle appartenenze, ossia, per semplificare, attribuendo a ciascuna un nome, tra Huntington e Sen.
Nella prima prospettiva vi è l’idea secondo cui ciascun individuo ha un’affiliazione prevalente, fino a diventare esclusiva, ad un gruppo. Un’affiliazione, che secondo gli approcci prevalenti nel comunitarismo e nel multiculturalismo, è un dato di fatto, con la conseguenza che l’appartenenza ad un’identità comunitaria è una sorta di presa di coscienza di questo fatto e non già il prodotto di una scelta. Le principali versioni della teoria comunitarista partono dal presupposto, diversamente fondato e argomentato, che l’identità di un individuo con la propria comunità debba essere l’identità principale o dominante. Le cosiddette “culture” a cui una persona appartiene sono considerate secondo criteri univoci e determinano in toto i comportamenti di chi appartiene a quel gruppo culturale. Il mondo viene, così diviso, in piccole isole sottratte alla reciproca influenza intellettuale.
Questo atteggiamento intellettuale trova la massima espressione nella teoria dello “scontro di civiltà” di Huntington, sviluppata soprattutto sul terreno delle relazioni internazionali. Semplificando un po’, c’è l’idea secondo cui le persone possono essere classificate sulla base della civiltà cui ciascuna di esse “appartiene”. C’è la riduzionistica convinzione che gli esseri umani di tutto il mondo possano essere interpretati e caratterizzati prevalentemente in base alle diverse civiltà cui appartengono, definite essenzialmente in base alla religione, sicché il mondo viene diviso in compartimenti stagni, ognuno corrispondente a una civiltà. In questa prospettiva gli abitanti del pianeta o di uno Stato possono essere classificati soprattutto in base al criterio religiosi. Da qui, per esempio l’opposizione tra cristiani e mussulmani sul piano globale e l’opposizione tra cattolici e laici, sul piano del singolo Stato.
Ma questo approccio – secondo Amartya Sen – non tiene conto di come nella vita di tutti i giorni gli individui si considerano membri di una serie di gruppi, e a tutti questi gruppi appartengono. La cittadinanza, la residenza, l’origine geografica, il genere, la classe, la politica, la professione, l’impiego, le abitudini alimentari, gli interessi sportivi, i gusti musicali, gli impegni sociali, e così via, ci rendono membri di una serie di gruppi. E bisogna sottolineare che “Ognuna di queste collettività, a cui apparteniamo simultaneamente, ci conferisce un’identità specifica. Nessuna di esse può essere considerata la nostra unica identità, o la nostra unica categoria di appartenenza”. Sicché è possibile contrastare la forza di un’identità bellicosa grazie al “potere delle identità concorrenti”. Se esistono “affiliazioni concorrenti” non c’è l’uomo ad una dimensione, ma una serie di identità specifiche che si influenzano e si limitano reciprocamente. C’è in più l’idea secondo cui l’identità non si scopre, ma è il frutto di una scelta, certamente limitata e più o meno variamente condizionata, ma comunque espressione di un atto di scelta che può anche cambiare nel corso del tempo e per il modo in cui è compiuta può servire a rimodellare i tratti delle identità. Identità che comunque difficilmente si presentano come blocchi monolitici, perché ciascuna “civiltà” o ciascun gruppo culturale presenta al proprio interno molte più diversità interne di quanto la prima prospettiva teorica riconosca, così come presentano interazioni – sia intellettuali che materiali – tra di loro.
Ritornando al tema della religione e della creazione di un terreno comune, va evidenziato come l’ultimo approccio citato piuttosto che al “dialogo”, difficile, tra isole culturali separate dal mare delle affiliazioni uniche, insistendo sulla pluralità di appartenenze, rende più facile quell’opera di scoperta dei limiti di ciascuna identità, di reciproco apprendimento, di trasformazione reciproca di cui si ragionava nel precedente paragrafo. Dire “più facile” non significa, ancora una volta, necessario. In definitiva, ciò che alla fine fa la differenza è l’operare della politica. Perché la politica può esasperare le differenze identitarie, servirsi di queste per radicalizzare il conflitto – come sta avvenendo in tanta parte del mondo, anche occidentale – oppure può sforzarsi di pacificare il conflitto, anche facendo leva sull’esistenza di identità contrastanti, cui può appartenere lo stesso individuo. Anche se così si riconosce il conflitto tra identità e lo stesso conflitto interno al singolo individuo, c’è nella pluralità di appartenenze una spinta all’ammorbidimento, al contemperamento, al ragionamento per stabilire a quale identità dare di volta in volta prevalenza con la scelta individuale, e quindi permette di contrapporre al fondamentalismo il ragionamento all’interno del processo democratico. Invece della “fine della storia” e della scomparsa della politica nel mercato globale, la nostra epoca esprime un grande bisogno di politica.
La pacificazione del conflitto sociale del novecento è stato uno dei principali obiettivi del costituzionalismo del secolo scorso. Il contrasto del fondamentalismo, la ricerca della coesistenza pacifica di identità collettiva, l’individuazione delle nuove “ragioni dello stare insieme” sono gli obiettivi di una politica costituzionale all’altezza delle sfide lanciate alle democrazie pluralistiche dalle trasformazioni del mondo in cui ci è toccato di condurre la nostra avventura umana.

(L’articolo di presentazione al secondo numero della rivista Percorsi Costituzionali incentrato sul tema del rapporto tra Identità e Costituzione)