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Bene ha fatto Alessandro Campi, dalle pagine del Mattino di venerdì scorso, da un lato ad attirare l’attenzione dei lettori sull’ormai assai vicina (27 marzo) celebrazione del congresso di fondazione del Popolo della Libertà; dall’altro a sottolineare l’esigenza che la nuova formazione politica rifletta con attenzione sulle proprie radici ideologiche.

Ci sono delle ragioni, certo, per le quali la nascita del nuovo partito non ha finora generato un dibattito culturale particolarmente vivace. Là dove il Partito Democratico originò dalla necessità di porre rimedio al rapido e drammatico crollo di consensi del governo Prodi, e dovette quindi dotarsi di un’identità autonoma rispetto ad esso, il Pdl si forma in un momento nel quale l’esecutivo guidato da Berlusconi appare quanto mai saldo, così come indiscussa è la primazia del Cavaliere nel suo schieramento. Sarà quindi – non potrà che essere – caratterizzato dal suo essere da un lato al servizio di un leader carismatico, dall’altro subordinato alle scelte politiche del governo.

Il Pdl d’altra parte, sebbene le sue origini siano profondamente berlusconiane, ha come propria missione «storica» proprio quella di istituzionalizzare il processo di trasformazione e ricomposizione che ha interessato il centrodestra dal 1994 ad oggi, e di proiettarlo al di là della parabola biografica del Cavaliere. Sia l’organizzazione sia la cultura del nuovo partito dovranno, se non proprio essere fin d’ora autonome dalla leadership del presidente del Consiglio, quanto meno prepararsi ad esserlo sul medio periodo. Anche se – è sempre bene ricordarlo! – la politica non può mai completamente essere pianificata in anticipo e a tavolino. Ossia: per quanto ci si possa preparare ad esso, il «dopo-Berlusconi» sarà comunque profondamente influenzato dal modo nel quale il Cavaliere uscirà di scena; dalle circostanze storiche in cui quell’evento accadrà; dalla costellazione dei poteri che si avrà allora.

Se Alessandro Campi ha dunque ragione quando sottolinea l’esigenza che la nascita del Pdl sia accompagnata da una seria riflessione culturale, assai più perplesso mi lascia invece quando, sulla scia dell’attuale crisi economica, chiede che la cultura del nuovo partito sia «più sociale e solidaristica», poiché «i tempi a venire richiedono una politica che dia protezione e sicurezze soprattutto ai più deboli, una politica ispirata alla ricerca del bene comune e ai valori della socialità, che metta la comunità prima dell’individuo e la difesa del lavoro prima del miraggio di una ricchezza facile e alla portata di tutti». Le mie perplessità nascono da due diversi ordini di considerazioni, uno relativo all’attuale situazione italiana, l’altro alla natura del berlusconismo. Non può esservi alcun dubbio che, come sottolinea Campi, la situazione dell’economia mondiale abbia da un lato restituito importanza al ruolo dello Stato, dall’altro gettato un’ombra sul libero mercato. Da un lato, però, sarebbe poco saggio trarre da un fenomeno certo rilevante ma, almeno per il momento, temporaneo e contingente come la crisi economica più insegnamenti di quanti sia lecito trarne, dimenticando peraltro – il 1929 insegni -quanto spesso l’intervento pubblico abbia peggiorato la situazione piuttosto che migliorarla. Dall’altro, e soprattutto, al di là della contingenza recessiva e guardando a un periodo più lungo e a tendenze più profonde, non possiamo certo fingere che la situazione italiana sia paragonabile a quella dei paesi anglosassoni.

Un conto, insomma, è ripensare il libero mercato là dove è sostanzialmente libero, e si può temere di avere ecceduto in libertà. Un altro conto, là dove libero lo è stato sempre assai poco. Oggi i limiti dell’economia italiana ci consentono magari di soffrire meno di altri Paesi. Non possiamo però dimenticare come dal 1994 al 2007 la Penisola sia cresciuta in media quasi dello 0,8% in meno degli altri sei Paesi più industrializzati. E come negli ultimissimi anni di questo periodo, ossia dal 2004 al 2007, quello 0,8 di ritardo sia salito quasi a un punto percentuale. Più in generale, poi, è l’intera contrapposizione fra liberismo (presunto) selvaggio e «bene comune» a lasciarmi perplesso, quando la si applichi al contesto italiano. Per la semplice ragione che, sotto l’etichetta della solidarietà, in questo Paese continuano ad essere difese delle rendite di posizione che non solo un liberale, ma anche un socialdemocratico o un cattolico sociale giudicherebbero insopportabilmente inique. Iniquo nei confronti delle generazioni più giovani il sistema pensionistico (pubblico). Iniquo nei confronti di chi cerca di entrarvi il mercato del lavoro (disciplinato dallo Stato). Iniquo nei confronti delle classi più svantaggiate il sistema dell’istruzione (pubblica). Eccetera.

La seconda ragione per la quale mi lascia perplesso l’idea che il Pdl possa avere una cultura più sociale che liberale, dicevo, è Silvio Berlusconi. Alessandro Campi menziona nel suo articolo varie correnti interne al Pdl a suo avviso disponibili a distanziarsi dal liberalismo: la destra sociale, gli ex socialisti, i cattolici. Dimentica però il Cavaliere: il singolo più importante elemento determinante di quello che è, e per un pezzetto ancora resterà, un partito carismatico. Ora, è evidente che il Berlusconi del 2009 non è più quello del 1994. Ma è pure evidente che – ammorbidito e temperato quanto si vuole – il messaggio di fondo del berlusconismo resta quello dell’imprenditorialità e del merito. Ovvero della supremazia dell’individuo sullo Stato.

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(Il Mattino – 09 marzo 2009)