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Ogni tanto il dibattito politico propone qualche pseudoargomento sul quale concentrare fuggevolmente l’attenzione. A questa categoria deteriore di confronto delle idee appartiene anche la suggestione, più volte affacciatasi nelle cronache di questi giorni, di dar vita a un partito del sud o ad altri analoghi movimenti politici. Tuttavia, anziché liquidare questa proposta con un’alzata di spalle, come pure si sarebbe tentati di fare, è opportuno discuterla brevemente per cercare di capire quali sono le ragioni la motivano.

L’esempio che i fautori del “partito del sud” fanno valere è quello della Lega. Il partito di Bossi, si dice, ha saputo organizzare il consenso, ascoltando le richieste che venivano dal territorio, dando risposte a problemi reali. Questo giudizio trascura un aspetto essenziale. Senza dubbio la Lega ha fatto pesare con forza le proprie rivendicazioni, ma lo ha fatto sempre su di un piano che possiamo definire localistico e corporativo. Non casualmente i leghisti hanno sistematicamente ostacolato la razionalizzazione del sistema politico, che pure è un’esigenza sentita dalla gran parte degli elettori comuni. Sotto il profilo istituzionale, infatti, la Lega ha tenacemente avversato qualunque tipo di intervento che puntasse ad aumentare la stabilità e l’efficacia dell’esecutivo (maggiori poteri al premier, leggi elettorali più selettive, governi di legislatura). Dal punto di vista del clima politico, poi, il partito di Bossi ha costantemente favorito la polarizzazione della contesa politica, agitando proposte demagogiche pur di lucrare consenso, ma al tempo stesso cercando di smarcarsi dalla logica di schieramento che è indispensabile per un corretto funzionamento di una matura democrazia dell’alternanza. In sostanza la Lega è un sintomo del malessere che attanaglia il sistema politico italiano, non la soluzione. La creazione di un partito del sud, inserendo un nuovo elemento nel quadro politico, peggiorerebbe la situazione. Non costituirebbe un utile contrappeso alla Lega ma un ulteriore intralcio nella faticosa transizione italiana.

Il fatto è che dietro la proposta di dar vita a un movimento autonomista al sud si cela un calcolo di assai più breve respiro. Come è noto nel 2010 sono previste elezioni in gran parte delle regioni italiane. Da qui la preoccupazione da parte di alcuni settori del ceto politico di acquistare visibilità, per capitalizzare al massimo sulla prossima scadenza. Ecco allora l’idea di creare una sigla localistica che possa risultare accattivanti per gli elettori incerti o disamorati dalle vicende politiche. Insomma, un’operazione finalizzata a salvaguardare spezzoni di ceto politico a rischio di disoccupazione, nella quale la modernità del marketing politico viene aggiogata al carro dell’eterno trasformismo.

Rispetto a questo, sarà bene ricordare che le difficoltà del meridione non sono legate alla contingenza ma hanno ragioni di più lungo periodo. Rimanendo sul terreno politico, e senza entrare nel merito dell’usura strutturale delle politiche economiche meridionaliste, occorre tener presente che il terremoto dei primi anni novanta non ha prodotto soltanto la scomparsa di una classe politica, ma ha anche ridistribuito territorialmente i rapporti di forza. Per intenderlo basta por mente a quanti ministri meridionali c’erano negli ultimi governi della prima repubblica e a quanti ce ne sono adesso.

Al mezzogiorno non serve un nuovo partito, che darebbe a notabili in crisi una nuova arma di ricatto, ma un quadro politico nazionale stabile capace di produrre scelte incisive in materia di ordine pubblico, di risanamento economico, di istruzione. Scelte capaci di avere, nel medio periodo, effetti positivi anche sulla vita delle regioni meno dinamiche dal punto di vista economico. Analogamente, in previsione delle regionali dell’anno prossimo il problema non è quello di creare una nuova sigla partitica, sperando risulti più appetibile per gli elettori, ma semmai quello di accentuare i profili civici delle candidature da presentare, elevandone la qualità in fatto di competenza e di capacità gestionale.