La questione meridionale è una costante nella storia del nostro Paese, da prima ancora che si formasse lo Stato nazionale. Nell’ambito del filone politico-culturale del meridionalismo, accanto a forme di vuota retorica politica, a fenomeni di clientelismo, a manifestazioni di vittimismo, si sono espresse alcune delle migliori intelligenze e alcune delle più lucide analisi sulla vicenda e i problemi dello Stato unitario: da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, da Antonio de Viti De Marco a Manlio Rossi Doria. Oggi la questione meridionale è ancora viva, ma l’approccio con cui affrontarla deve essere profondamente ripensato: il processo di internazionalizzazione dell’economia, la formazione di un «villaggio globale» e di una cultura civile condivisa dall’intero Paese, la velocizzazione degli scambi, l’emergere di spinte federaliste al Nord come al Sud, hanno infatti modificato radicalmente il contesto sociale, culturale, istituzionale ed economico. Ancorpiù che in passato, bisogna perciò liberarsi da un equivoco di fondo: che per superare il ritardo storico del Sud sia necessario compensare l’insufficienza dei capitali privati aumentando le risorse gestite dallo Stato e dagli apparati pubblici per la realizzazione di investimenti. produttivi. Quest’approccio dirigista e assistenziale è infatti al tempo stesso inattuale, inefficace e dannoso. Inattuale perché troppo costoso e dunque incompatibile con gli odierni vincoli della finanza pubblica. Inefficace perché basato sul presupposto di una pretesa superiorità dello Stato rispetto al mercato nella destinazione delle risorse.
DANNOSO perché crea dipendenza e dirige le capacità imprenditoriali alla ricerca del sostegno pubblico, e quindi di rendite, piuttosto che del giusto profitto di impresa che è fattore determinante dei processi di sviluppo. Fin qui, invece, la politica in favore del Mezzogiomo si è storicamente caratterizzata per la netta prevalenza delle misure di sostegno attivo, che non forniscono risposte efficaci alle vere cause del mancato decollo dell’economia meridionale. La natura fortemente discrezionale dell’erogazione e della gestione degli strumenti di sussidio al Sud ha comportato il riconoscimento allo Stato e ad altri apparati pubblici di una forte funzione valutativa nella selezione dei progetti da sostenere finanziariamente: scelta infelice, poiché il carattere selettivo delle misure di aiuto alle imprese si scontra con l’incapacità della burocrazia di valutare il merito delle iniziative imprenditoriali. Inoltre, l’aver affidato alla macchina burocratica la funzione di intermediazione nella gestione delle politiche di sostegno allo sviluppo del Mezzogiorno ha comportato un aumento esponenziale dei costi di transazione a carico del sistema delle imprese, costrette a dedicare tempo e risorse allo sviluppo e al mantenimento di buone relazioni con le strutture dell’amministrazione pubblica. Negli ultimi anni si è cercato di rimediare coinvolgendo maggiormente nella gestione degli incentivi le regioni, gli enti locali e le parti sociali. Ma i risultati non sono stati affatto brillanti. Il problema del Sud, insomma, non è la mancanza di capitali disponibili per investimenti produttivi. I capitali ci sono, e quand’anche fossero insufficienti resta da spiegare perché non ne arrivano altri. Il vero nodo del differenziale di crescita del Mezzogiorno risiede nelle diverse condizioni di redditività che disincentivano gli investimenti produttivi: se non si interviene sulle cause di questo divario, qualsiasi politica di sostegno al Sud è destinata al fallimento.
Il contesto
È necessario migliorare le condizioni di contesto per favorire la libera iniziativa di impresa, e quindi l’innovazione, la produttività e la crescita. Così come nel mondo lo sviluppo dei Paesi emergenti è stato reso possibile dalle politiche di liberalizzazione e di apertura degli scambi di merci, servizi, capitali, dalla integrazione finanziaria, dalla cooperazione regolamentare, così il Meridione, ancor più del resto del Paese, potrà beneficiare di uno Stato che sappia assicurare un contesto istituzionale e normativo in cui gli operatori economici possano perseguire, nella maniera più efficace possibile, la libertà d’intraprendere. In questa prospettiva, assolutamente centrale è la dotazione infrastrutturale che al Sud appare del tutto insufficiente ed è causa di un forte svantaggio competitivo. Occorre realizzare un piano straordinario in grado di mobilitare risorse significative e attivare procedure per identificare, progettare e realizzare in tempi rapidi interventi di carattere strategico. Altrettanto importante è il tema della sicurezza e dell’ ordine pubblico, Un problema acuto per i cittadini del Mezzogiorno ma anche per le imprese. Una delle cause dei minori investimenti produttivi nel Mezzogiorno risiede infatti proprio nelle diverse condizioni di sicurezza e di legalità nelle quali sono costrette a operare le imprese nel Sud. Un ulteriore fattore di deterioramento delle condizioni competitive del meridione si registra sul versante della formazione del capitale umano. Come hanno dimostrato in questi giorni le classifiche del ministero dell’Istruzione pubblica, il dcadimento qualitativo della formazione universitaria e post-universitaria che ha investito negli ultimi anni l’intero Paese, ha assunto caratteri drammatici nel Sud, dove sono ormai quasi del tutto scomparsi centri di eccellenza nella ricerca scientifica, e le attività di ricerca che esistono sul territorio appaiono troppo spesso del tutto slegate dalle dinamiche economiche e produttive presenti nell’area. Il crescente fenomeno migratorio, che ormai riguarda centinaia di migliaia di studenti meridionali, genera forte preoccupazione sulle prospettive di sviluppo dell’economia del Mezzogiorno.
Gli interventi immediati
Le questioni fin qui elencate, complesse, stratificate e aggravatesi negli anni, richiedono strategie di medio-lungo periodo incisive e costanti. Ma una politica meridionalista efficace deve anche farsi carico di interventi più immediati, in grado di innescare con rapidità processi spontanei di crescita. Bisogna insomma compensare fin da subito le condizioni di svantaggio in cui operano le imprese meridionali. In che modo? Valutando la possibilità di introdurre strumenti di vantaggio fiscale per il Mezzogiorno. Riducendo il carico fiscale sulle imprese che operano al Sud si renderebbe estremamente più attraente l’rinvestimento in quest’area del Paese, riducendo i differenziali di redditività. Non si tratta di introdurre attraverso l’alleggerimento fiscale nuove forme di assistenzialismo che mantengano in vita imprese inefficienti altrimenti destinate al fallimento. Si tratta piuttosto di compensare i costi indiretti che le imprese del Sud sopportano per il solo fatto di operare in quest’area del Paese, attraverso misure collegate alle politiche strutturali di riequilibrio, dall’orizzonte temporale ragionevolmente limitato e adeguatamente graduate nel tempo. Affinché tutto ciò possa essere praticabile, la fiscalità di vantaggio potrebbe essere finanziata anche utilizzando parte delle risorse destinate a vario titolo al finanziamento delle iniziative imprenditoriali meridionali. Spostando il baricentro dell’intervento dall’incentivo diretto al beneficio fiscale si otterrebbe un enorme vantaggio in termini di efficacia e di tempestività.
E ancora. A penalizzare il Sud è anche la rigidità del nostro mercato del lavoro. È dunque urgente una politica salariale più moderna e flessibile, e soprattutto più attenta alle necessità di crescita produttiva del Sud. Non si tratta di attardarsi sull’ipotesi di un ritorno alle «gabbie salariali», istituto arcaico e proprio di un sistema economico superato; si tratta, piuttosto, di valorizzare l’autonomia, le capacità e la responsabilità dei diversi soggetti che operano sul territorio. Per incentivare nuovi investimenti produttivi nel Mezzogiorno, ad esempio, sarebbe importante riconoscere alle imprese meridionali la possibilità di concordare con le rappresentanze sindacali aziendali condizioni contrattuali differenti rispetto a quelle previste dal contratto collettivo nazionale, magari riservando tale facoltà alle nuove imprese e per un limitato periodo di tempo.
A ciascuno il suo
Occorre, insomma, superare tanto le antiche pretese assistenziali quanto il meridionalismo di tipo dirigista. Per rilanciare il Mezzogiorno è necessario che ognuno svolga la funzione che gli è propria: che le imprese cerchino di sfruttare le potenzialità produttive, e lo Stato garantisca loro la possibilità di operare in modo equo, sicuro ed efficiente. Lo Stato anziché intromettersi nelle scelte imprenditoriali, secondo un sano principio di sussidiarietà orizzontale, deve farsi carico di fornire alcuni beni «complementari» a quelli privati. Ciascuno deve poter svolgere il suo mestiere: lo Stato e le pubbliche amministrazioni devono garantire quei beni pubblici necessari per la crescita e il funzionamento del mercato; le imprese devono essere libere e adeguatamente incentivate a effettuare gli investimenti che appaiono più redditizi; gli individui devono essere tutelati nelle loro esigenze di crescita personale e messi nelle condizioni di contribuire al bene dei luoghi in cui affondano le loro radici. Solo con un approccio innovativo è possibile aggredire i problemi del Sud. La questione meridionale è sempre più questione nazionale, perché il mancato decollo di un’area così vasta dell’Italia è la prima causa della ridotta competitività internazionale del Paese. Pensare di risolvere ì problemi italiani senza affrontare la questione meridionale è un’ingenua utopia. Pensare di affrontare i problemi meridionali senza un solido ancoraggio alla politica nazionale è una tragica illusione.