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A volte ritornano. E la cittadinanza è tornata di moda. Fa “trendy”. Ma l’impressione è che le diverse posizioni siano frutto della particolare evoluzione semantica che il termine ha subito.
La nostra tradizione intendeva con il termine cittadinanza l’appartenenza a un determinato popolo, a una specifica nazione. E’ storia antica, che affonda le radici nella rivoluzione francese e nella distinzione fra homme e citoyen sancita nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. Oggi, invece, troppo spesso parlando di cittadinanza si fa sociologia, correndo il rischio di caricare il termine di significati impropri, quasi che si sia affermata una inedita cittadinanza nel mondo.
Se si vuole evitare un dibattito ideologico e astratto, una domanda è dunque preliminare: di fronte alla sfida della globalizzazione, ha ancora senso riferirsi alla nazione e allo Stato nazionale? Molte cose con il nuovo secolo sono cambiate. La nazione fronteggia oggi le fedeltà deboli a organismi sovranazionali e quelle più resistenti alle piccole patrie. Ma resta come riferimento culturale e psicologico, e come entità politica. Lo Stato, dal canto suo, ha rivisto i suoi compiti e perduto tanti ambiti di sovranità, ma ha acquisito inedite funzioni di controllo e di regolazione.
Se questo è vero, il rapporto tra la cittadinanza e l’idea di nazione di cui ci parla Chabod resta ineludibile. Ciò implica che nel considerare i criteri di concessione della cittadinanza non ci si riferisca ad assoluti astratti ma si continui a tener conto dell’interesse nazionale, per sua natura contingente e variabile. Non è per caso o per fumosa teoria, insomma, se la Francia ha concesso la cittadinanza agli algerini quando questi, nella Grande Guerra, morirono in nome di Madame. E se proprio si vuol far sociologia, non è un caso neppure che in Italia i cattolici siano stati considerati fino in fondo “cittadini” quando hanno metabolizzato le ricadute storiche e politiche della nascita della nazione.
Quel che invece non può considerarsi né variabile né contingente sono i diritti delle persone, e in particolare di chi soggiorna regolarmente in Italia. Che si sia cittadini o meno, non si può tollerare l’infibulazione così come ogni menomazione del corpo; che un ragazzo cinese lavori dieci ore al giorno e più; che una donna viva segregata e sottomessa, spesso peggio che nella sua terra d’origine.
Questa distinzione tra il contingente (la cittadinanza) e l’universale (i diritti della persona) è essenziale per sfatare un equivoco assai in voga: l’idea che modificando la disciplina sulla cittadinanza si possa migliorare il governo del fenomeno migratorio.
Con buona pace di monsignor Marchetto, si tratta di due questioni differenti: la legge sulla cittadinanza regola l’ammissione di uno straniero nella comunità nazionale; la disciplina dell’immigrazione fissa le norme in base alle quali un cittadino straniero può regolarmente soggiornare in Italia. Confondere i due aspetti è deleterio. Al punto che sbracare sui criteri e sui tempi per la concessione della cittadinanza – non me ne vogliano Granata e Sarubbi – oltre a non risolvere il problema finirebbe con l’aggravarlo.
Anche perché oggi l’immigrazione non è più quella del Novecento. Gli stranieri che arrivano in Italia assai di rado lo fanno per entrare a far parte del popolo italiano. Il loro approdo è sovente casuale, e non di rado è solo la prima tappa di un viaggio esistenziale dalle mete imprevedibili. Ancor più spesso i migranti mossi da ragioni economiche programmano di far ritorno, dopo qualche tempo, nel Paese di origine. Come ha ben detto Ennio Codini, che certo non la pensa come me, “non vi è stato nell’immigrazione in Italia quell’epos del nuovo mondo che ha contraddistinto almeno in alcuni periodi l’immigrazione negli Stati Uniti o in Francia o in Olanda, quel desiderio di andare a far parte di una grande nazione nella quale si vedevano racchiusi valori e speranze”.
Vi è poi un altro equivoco di cui liberarsi: che la concessione della cittadinanza sia l’unica strada per conferire agli stranieri regolari un’adeguata tutela sociale. E’ la vecchia tesi del sociologo inglese Marshall, che per la disciplina della cittadinanza aveva preconizzato tre tappe successive relative ad altrettante sfere di diritti: quelli civili, quelli politici e da ultimo quei diritti sociali che solo attraverso il riconoscimento dei diritti politici il lavoratore straniero avrebbe potuto vedere tutelati. Oggi non è più così. Nel nostro ordinamento, come in molti altri, allo straniero regolare sono riconosciuti diritti sociali sostanzialmente equivalenti a quelli dei cittadini. L’unica differenza riguarda il diritto di voto attivo e passivo. Ed è ciò che fa della cittadinanza materia sostanzialmente costituzionale.
D’altra parte, se si va appena oltre la superficie, ci si rende conto di come l’interesse dell’immigrato ad acquisire lo status di cittadino sia sostanzialmente finalizzato a superare le pastoie burocratiche del rinnovo del permesso di soggiorno. Ma se le cose stanno così, non è sulla cittadinanza che si deve agire. Semmai, occorre semplificare la vita agli stranieri regolari complicandola, invece, ai clandestini.
Insomma, non possiamo svendere l’idea di nazione per sveltire una pratica burocratica. Implicitamente, lo ammettono anche Granata e Sarubbi quando propongono che sulla cittadinanza si abbandoni il criterio burocratico-quantitativo a vantaggio di un approccio valutativo-qualitativo. Non è questo che ci divide, quanto piuttosto l’idea che il tempo di concessione possa essere solo accorciato, quando invece, nel contesto attuale, curve demografiche e senso di responsabilità suggerirebbero l’opposto.
L’idea che l’aspirante cittadino debba dar prova di essere idoneo al nuovo status merita comunque di essere valorizzata. Il tema della cittadinanza va infatti affrontato non tanto in termini astratti di diritto naturale e di jus gentium, quanto piuttosto tenendo a mente l’interesse nazionale. E non dimenticando che una nazione, fondata su radici etno-culturali ben definite, può cessare di esserlo quando si intaccano i vincoli stessi che tengono unita la sua struttura sociale e quando viene meno il senso di reciproca appartenenza storica.
Secondo la legge vigente, del 1992, per diventare cittadini italiani è sufficiente aver soggiornato regolarmente sul territorio dello Stato per un periodo minimo di tempo. Tale impostazione meccanicistica è inadeguata di fronte a un fenomeno migratorio complesso, massiccio, estremamente eterogeneo. Dieci anni come termine minimo per integrarsi potrebbero essere troppi per un immigrato e pochi per un altro. Fissare dunque dei criteri in base a fattori sintomatici (paese di provenienza, istruzione, reddito ecc.), e prevedere requisiti per attestare la volontà di appartenenza che, eventualmente, possano abbreviare il termine, è utile e opportuno.
Ricordiamoci del vecchio Renan. Se la nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno, si evitino fughe in avanti dai risultati imprevedibili. E si faccia in modo che il plebiscito non avvenga unicamente fra le mura di un ufficio che burocraticamente attesta il trascorrere del tempo.