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Provo spesso disagio quando partecipo ad iniziative sull’immigrazione e sulla cittadinanza, non oggi devo dire, ma in genere, perché sono basate su una totale e assoluta mancanza di legame con la realtà. Tutto il dibattito che si sta sviluppando sulla cittadinanza in Italia, incarnato nella proposta di legge Granata-Sarubbi, parte, infatti, da due presupposti falsi, e cioè che noi abbiamo circa quattro milioni e mezzo di immigrati che sono destinati a rimanere in Italia per sempre e che, quindi, vogliono diventare cittadini italiani. Se non si parte da questi dati falsi, tutto diventa esercitazione accademica, si parla astrattamente di diritti riconosciuti o denegati, senza alcun rapporto con la realtà.
Ecco, dunque, alcune cifre sui dati soggettivi, a partire dalla domanda centrale: i quattro milioni e mezzo di immigrati oggi in Italia, intendono restarvi per tutta la loro vita? No, non lo vogliono affatto. Il 69 per cento degli immigrati in Italia progetta, infatti, la sua vita pensando di tornare in patria, mentre solo il 31 per cento degli immigrati vuole restare in Italia tutta la vita. Ancora, solo 19,7 per cento degli immigrati auspica che il Governo italiano attui un maggiore inserimento degli immigrati nel Paese. Solo il 20 per cento degli immigrati, dunque, chiede misure di integrazione. Il 58,5 per cento auspica, invece, che il governo operi per una convivenza pacifica, mantenendo le rispettive culture. Cioè, non integrazione, ma separazione culturale. Questo dato si può sommare al 22 per cento degli immigrati che auspica che il Governo faccia in modo che gli italiani apprezzino gli immigrati. Insomma abbiamo due sondaggi che danno un ordine di grandezza simili. Sondaggi commissionati dal Ministero degli Interni, nel 2007 guidato da Amato, alla Makno e da questa pubblicizzati nel 2008. Quindi, l’impostazione del panel delle domande, è assolutamente non sospetta di una partigianeria di tipo leghista.
C’è una ragione, e qui veniamo ai dati oggettivi, che spiega questa volontà di non integrazione definitiva in Italia e questa maggioritaria tensione verso il ritorno in patria. Il 50 per cento degli immigrati presenti in Italia proviene, infatti, dai paesi dell’Est europeo. Paesi, notate bene, che hanno un dislivello negativo di sviluppo economico solo e unicamente perché sono stati soggetti all’imperialismo sovietico, e, quindi, al modo di produzione collettivista, comunista o sovietista. Paesi che se non avessero subito questo handicap, sarebbero oggi assolutamente nello stesso grado di sviluppo economico dell’Italia, o quanto meno del Centro Italia. Paesi che sicuramente hanno, e lo vediamo a vent’anni dalla caduta del Muro, la capacità e la possibilità di recuperare il dislivello di sviluppo economico che produce emigrazione, perché hanno tutte le condizioni, storiche e soggettive, per farlo. Ricordate, la minaccia del “plombier polonais”, l’invasione dell’idraulico polacco che “ruba” il lavoro ai francesi, e tutta la campagna referendaria in Francia contro l’approvazione della Costituzione europea, imperniata appunto sul pericolo del dilagare degli immigrati polacchi? Ebbene, oggi la Polonia, membro dell’Unione Europea, che è il più antico Stato europeo di emigrazione, a partire dal 1600-1700 (molto prima dell’Italia e della Germania), sta diventando un paese di immigrazione, tanto che vi sono settantacinquemila emigranti polacchi che negli ultimi anni sono rientrati a lavorare in Polonia. E, per quanto riguarda il dibattito sulla cittadinanza, è importante rilevare che di questi settantacinquemila emigranti polacchi rientrati in patria, ben venticinquemila hanno la doppia nazionalità. Ci sono, dunque, molti polacchi, che hanno conseguito la cittadinanza italiana, ma che non hanno nessuna intenzione di morire in Italia, e che – cittadini italiani – hanno tutte le intenzioni invece di andare per poi tornare a vivere in Polonia, a casa loro.
Procediamo a leggere i dati oggettivi del mercato del lavoro e guardiamo a quello che succede, ed è successo, in Europa e in particolar modo in Germania. Noi abbiamo un meccanismo, in tutto e per tutto simile, se non identico, a quello dell’immigrazione tedesca. Un dato fondamentale che ci differenzia non soltanto dalla America, dall’Australia, dal Canada, dall’Argentina, paesi che sono popolati solo ed esclusivamente da immigrati, che non hanno nativi, perché i nativi purtroppo sono stati sterminati o sono rinchiusi nelle riserve indiane. Peraltro, non possiamo paragonare i nostri flussi migratori neanche con la Francia o l’Inghilterra, perché in questi paesi l’immigrazione è indissolubilmente legata al loro passato coloniale, e soprattutto perché sono stati fino a pochi anni fa paesi caratterizzati da deficit demografico cronico. Francia e l’Inghilterra sono paesi che hanno sempre avuto deficit demografico sul loro territorio nazionale, a differenza dell’Italia, che, assieme alla Germania ha sempre avuto invece un surplus di sviluppo demografico. Quindi, noi possiamo riferirci ad un complesso numero di statistiche sul funzionamento del mercato del lavoro tedesco, molto simile a quello italiano (resi noti dalla Fondazione Ebert), che ci fornisce dati interessantissimi anche perché sono registrati nel corso di ben cinquantacinque anni, dal 1952 al 2007 e riguardano la bellezza di 36,5 milioni di immigrati. Guardando questo immenso lavoro statistico, che cosa scopriamo?
La prima cosa, la più clamorosa, è che nel cinquantacinquennio 1952-2007, sono entrati in Germania 36 milioni e mezzo di immigrati, ma ne sono usciti 26 milioni e mezzo. Cioè, il mercato del lavoro dell’immigrazione tedesca (ma è esattamente così anche in Svizzera) è basato innanzitutto sulla rotazione degli immigrati. A proposito di questa rotazione, la fondazione Ebert (molto attendibile, perché utilizza rilevazioni del Bundesanstalt fur Arbeit di Norimberga), ci fornisce un altro dato fondamentale per tutti i nostri ragionamenti. Qual è la permanenza media in Germania degli immigrati nell’arco di cinquantacinque anni? La risposta è sconcertante: diciassette anni. Parliamo di un’osservazione, lo ricordiamo, che riguarda 36 milioni e mezzo di immigrati, quindi, veramente un campionario “macro” macro. Questa indicazione è preziosissima, perché ci dà un indicatore, un valore del periodo dell’accumulo di risparmi che permette all’immigrato di tornare in patria.
Vi faccio notare che questa permanenza media degli immigrati in Germania (italiani inclusi) è inferiore di tre anni al minimo pensionistico. Cioè l’immigrato rinuncia alla sua pensione (e ce la “regala”, o, meglio, noi gliela “rubiamo”), pur di poter tornare in patria e aprire il negozio di riparazioni, l’autofficina, la pizzeria, la piccola azienda, la piccola impresa edile.
Noi abbiamo, quindi, non il problema di far diventare italiani, da qui a vent’anni, quattro milioni e mezzo di immigrati, ma abbiamo il problema, come sistema Italia in tutte le sue componenti, di imparare a governare un meccanismo del mercato del lavoro che funziona su due pilastri: il pilastro della rotazione degli immigrati, dopo una lunga permanenza nel nostro Paese, e il pilastro dell’integrazione definitiva. E’ ovvio infatti – e sarebbe da stolti negarlo – che c’è una minoranza di immigrati che vuole diventare cittadino italiano. Si tratta della stessa minoranza che governa ed egemonizza le organizzazioni degli immigrati. Basta conoscere il processo di formazione delle élite ed è evidente che chi diventa dirigente di un’organizzazione di immigrati è il prodotto di una selezione sociale, culturale e politica che gli fa dire “io voglio diventare cittadino italiano”.
Torniamo, dunque, ai due pilastri – soggettivi e oggettivi, di mercato – che caratterizzano l’immigrazione, tenendo conto di un dato di fatto importante: gli immigrati in Italia secondo le statistiche del Ministero degli Interni, hanno ad oggi una permanenza media di 5 anni (non di 17 anni come in Germania). Per di più, se andassimo a visionare le statistiche degli ingressi e delle uscite noi avremmo un’altra differenza con la Germania, perché entrano quattro-cinquecentomila immigrati l’anno, ma ne escono solo trentottomila l’anno. Ma qui si capisce perché ragioniamo astrattamente e non sulla realtà: questa statistica che rivela uscite dall’Italia così contenute, è sbagliata, è inaffidabile a causa del mancato funzionamento delle fonti statistiche stesse. In Italia, infatti, non abbiamo un sistema statistico di rilevazione dell’immigrazione affidabile. Noi abbiamo l’Istat che fa delle valutazioni sulla base dei dati forniti dai comuni (che dimenticano spesso di cancellare gli immigrati dalle liste dei residenti, o ritardano di anni, come testimonia la stessa Caritas), ma non abbiamo il sistema di rilevamento statistico che la Germania dagli anni Sessanta mise in piedi, incrociando i dati dei comuni (che lì sono puntuali), della polizia di frontiera e dei vari enti previdenziali e assicurativi. La ragione della fotografia, sbagliata, di un’immigrazione tendenzialmente stanziale su cui noi ragioniamo è dovuta al fatto tragicomico che l’Istat non registra il fenomeno della rotazione, lo ignora.
Ma c’è un’altra ragione che motiva la media di cinque anni di permanenza degli immigrati (rispetto ai 17 anni della Germania). Noi siamo nella stessa fase in cui era la Germania negli anni Sessanta, cioè siamo nella fase di rigonfiamento del mercato del lavoro, che arriverà, questa è la media europea, alla sua completezza, al raggiungimento della sua massa critica fisiologica, quando avremo intorno al 7-8 per cento di immigrati sul territorio nazionale. Da questa “acerbità” del nostro fenomeno migratorio rispetto alla “maturità” del fenomeno tedesco, deriva una rotazione degli immigrati che è ancora molto lenta.
Quando parliamo di immigrazione e ancor più di cittadinanza, dobbiamo dunque partire dalla realtà soggettiva, da quanto vogliono gli immigrati, e dalla realtà oggettiva, da quello che è il mercato del lavoro degli immigrati, tenuto conto che l’elemento più importante, predominante non è quello della integrazione ma è quello della rotazione.
Ma anche se andassimo a vedere come funzionano le domande di cittadinanza noi riscontreremmo delle cifre che veramente mi fanno domandare perché mai noi oggi dovremmo stare qui a ragionare di questo. Nel 2008 solo lo 0,8 per cento degli immigrati in Italia ha chiesto la cittadinanza per “residenza”, che va comparato con lo 0,65 per cento di immigrati che l’hanno chiesta “per matrimonio”. Se andassimo a vedere però le domande ammesse, verificheremmo che il 65 per cento delle domande ammesse è “per matrimonio”, e soltanto il 35 per cento per residenza. Stiamo parlando di numeri di rilevanza statistica microscopica. Teniamo, dunque, bloccato il Parlamento a fronte di problemi assolutamente bagatellari, sbagliando completamente l’ipotesi politica. Però Granata, Fini, il Pdl, la Caritas ci dicono: “Con la semplificazione della concessione della cittadinanza intendiamo dare un segnale di volontà di integrazione”. Bella mossa. Peccato però che così facendo diamo un segnale a persone che non lo vogliono accogliere, perché vogliono esattamente l’opposto, non intendono integrarsi ma più che legittimamente intendono tornare a casa loro, dopo aver accumulato i necessari risparmi.
Chiudo con un appello a tornare a rivederci con una proposta: lavoriamo a definire un modello di “cittadinanza ospite”. Questo non è uno slogan che mi sono inventato, ma è l’evoluzione del nome che hanno dato i tedeschi agli immigrati. Nel dopoguerra non potevano più chiamarli “Fremdarbeiter”, come si sono sempre chiamati e come si dovrebbero chiamare, per la semplice ragione che questa era la denominazione dei prigionieri rinchiusi nei campi di concentramento. Fecero così un concorso giornalistico a cavallo tra gli Cinquanta e Sessanta, e vinse il neologismo “lavoratore ospite”, “Gastarbeiter”, e così si chiama l’immigrato in Germania tutt’ora. Vi ricordo che nel 1975, a seguito della recessione provocata dalla crisi del petrolio, essendo solo “Arbeiter”, vennero espulsi dalla Germania, nell’arco di tre mesi, con la polizia, cinquecentomila immigrati. Un esempio che fa comprendere quanto il controllo dei flussi migratori sia uno dei fondamentali elementi di governo del ciclo economico. Dunque, l’immigrazione alla tedesca, o all’italiana, è – anche – una possibilità di governo del ciclo economico.
A differenza dalla Germania degli anni Settanta, noi oggi abbiamo imparato a rispettare i diritti umani, non espelliamo immigrati (anche se, con la crisi, abbiamo comunque dei ritorni a casa spaventosi, si parla di cinquecentomila dall’Inghilterra, di trecentomila dalla Spagna) e però dobbiamo definire un modello di immigrazione.
La mia proposta è di fare un passo successivo, e mi rendo conto che il modello di “cittadinanza ospite” potrebbe sembrare un ossimoro: i due termini, non a caso, puntano infatti non a completarsi ma quasi ad elidersi. Da una parte, la cittadinanza segnala il progetto politico di riconoscere a tutti, come stiamo facendo, i diritti di assistenza, di lavoro, di welfare, di abitazione e di istruzione degli immigrati. Dall’altra parte, però, il termine “ospite” segnala una temporaneità di questo rapporto, temporaneità che peraltro non è soltanto voluta dagli immigrati, ma che è anche implicita nel mercato del lavoro.
Chiudo questo mio ragionamento ricordando che il tema dell’immigrazione regolare in Italia è stato totalmente delegato, per responsabilità delle forze politiche, alla periferia. I governi di centro-destra e di centro-sinistra si sono, infatti, solo ed esclusivamente occupati del problema fondamentale dei macro flussi e della clandestinità. Ovviamente temi fondamentali, ma che non esauriscono affatto il tema dell’integrazione che è stato gestito in modo disorganico e spesso caotico solo ed esclusivamente dalla amministrazioni locali: comuni e regioni. Oggi, dunque, la Caritas ci informa che l’Anci calcola che gli immigrati in Italia ricevono dai comuni, 54 euro all’anno in più di assistenza sociale di quanto non ricevano gli italiani (cifra che va poi a raddoppiare o forse a quadruplicarsi con i finanziamenti che le Regioni destinano a programmi vari di integrazione). Se volessimo capire il successo del messaggio leghista dovremmo guardare a questa disparità.
Sono finanziamenti che producono una conseguenza importantissima sul piano politico: si è formato un vero e proprio “ceto sociale” di italiani che vivono col reddito prodotto dai programmi destinati all’immigrazione. Vivono al di fuori di ogni progettualità, di ogni modello di riferimento, perché questi 54 euro pro capite per immigrato in larga parte vanno a mediatori, vanno a tutte le attività di assistenza – a volte demenziali – messe in atto per gli immigrati.
Ovviamente sono favorevole a spendere non solo 54 euro pro capite per immigrato, ma anche il triplo, a patto, tuttavia, che siano parte di un progetto – non di un caotico “non progetto” -, a patto che si abbia chiaro che vanno spesi per l’integrazione, ma anche per favorire il legittimo desiderio degli immigrati di tornare in patria una volta accumulati sufficienti risparmi.
Spendere questi soldi caoticamente, come viene fatto oggi, senza alcuna regia – che ovviamente deve rispettare i criteri della sussidiarietà – produce un solo risultato: i cittadini italiani si accorgono di questa follia e questo produce rabbia e, spesso, xenofobia.