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C’è a mio avviso un nesso molto stretto tra l’indifferenza e addirittura l’ostilità che una certa cultura dominante ha manifestato in questi anni nei confronti del tema dell’identità dei popoli e delle nazioni e la disinvoltura con la quale quella stessa cultura tende oggi ad usare l’idea della cittadinanza come strumento d’integrazione interculturale. In entrambi i casi emerge una fondamentale mancanza di comprensione di uno dei problemi più seri indotti dalla globalizzazione e dagli attuali processi migratori: il problema dell’integrazione di persone provenienti da culture assai differenti tra loro.
Così come in passato molti sostenevano la necessità di preparare il terreno ad un’epoca nuova, un’epoca di post-identità, visto che l’identità, secondo costoro, poteva essere soltanto motivo di conflitti irriducibili, allo stesso modo si sostiene oggi che per integrare persone di diversa provenienza culturale si debba utilizzare la concessione della cittadinanza. E questo senza nemmeno fare troppa attenzione al fatto che, mentre noi occidentali abbiamo depotenziato il tema dell’identità culturale, fin quasi a diventare nessuno, altri popoli, vedi un certo mondo islamico, tendono addirittura ad esasperalo in modo fanatico.
Sulla scorta di autori come Jürgen Habermas o Ulrich Beck, è entrata nel linguaggio comune l’espressione “cittadinanza cosmopolita”. Con disinvoltura si parla di diritti di cittadinanza, al plurale, senza tenere nel debito conto il fatto che il cosiddetto diritto di cittadinanza, come dice bene il documento della fondazione Magna Carta, “riguarda l’identità politico-giuridica del cittadino”, il diritto in virtù del quale un individuo diventa “parte integrante di una comunità nazionale”, non i cosiddetti diritti sociali ed economici, i quali, invece, spettano a tutti gli stranieri che vivono e lavorano regolarmente sul nostro territorio nazionale. So di fare un’affermazione politicamente molto scorretta, ma credo che sia di questi ultimi diritti che dovremmo soprattutto occuparci e preoccuparci. Il diritto a essere curati, a mandare i figli a scuola, ad avere un alloggio e un lavoro legalmente retribuito: questi sono i diritti che, senza se e senza ma, dobbiamo assicurare agli stranieri ospiti sul nostro territorio, non certo il diritto di voto. Oltretutto mi domando: siamo proprio sicuri che gli stranieri siano più interessati a quest’ultimo che ai primi? Non dispongo di dati certi, ma non direi.
Quanto a noi, ho la sensazione che, accendendo i riflettori sulla necessità di rendere più breve il tempo per concedere la cittadinanza, compiamo semplicemente un balzo in avanti, che sembra più ideologico che altro. Molto meglio sarebbe, invece, parlare dell’oggettiva arretratezza che ci contraddistingue sul fronte dei diritti sociali ed economici.
A scanso d’equivoci, dico subito che, in linea di principio, non ho nulla contro la concessione della cittadinanza agli stranieri; sono anche d’accordo sul fatto che si possa discutere su un’eventuale riduzione degli anni di regolare permanenza sul nostro territorio per ottenerla. Considerata però l’estrema delicatezza del tema, specialmente quando le differenze culturali si fanno estremamente profonde, credo che occorra quanto meno procedere con realismo, evitando sia la Scilla delle chiusure nazionaliste e localiste, sia la Cariddi del cosmopolitimo multiculturalista.
Già nel 1862, un grande pensatore cattolico e liberale, Lord Acton, in una saggio intitolato Nationality, pur riconoscendo l’importanza dell’appartenenza nazionale come elemento d’integrazione socio-politica, metteva in guardia dal rischio nazionalistico. La funzione integrativa da parte della nazione non può essere svolta in modo rispettoso della libertà, se si intende la nazione come semplice “destino”, come semplice comunione di elementi, diciamo così, “naturali” (uno stesso luogo, una stessa lingua, uno stesso sangue), dei quali l’Europa avrebbe sperimentato più tardi le degenerazioni “nazionaliste”, fino alle più spaventose “pulizie etniche”.
Affinché l’idea di nazione possa svolgere “civilmente” la sua funzione integrativa e direi anche addomesticante rispetto a ogni fanatico nazionalismo, è necessario che sia anche “nazione politica”, cioè nazione collegata alla volontà e alla consapevolezza di liberi cittadini che vogliono vivere in un libero ordinamento politico, nel rispetto della propria e dell’altrui identità etnica e culturale. L’idea cristiana di libertà, scrive Acton in un passo ormai celebre, “accolse razze differenti entro uno stesso Stato. Una nazione non fu più, come nel mondo antico, la progenie di un comune antenato o il prodotto aborigeno di una particolare regione, cioè il risultato di cause puramente fisiche e materiali, ma divenne un organismo morale e politico; non fu più il prodotto di un’unità geografica o fisiologica, ma si sviluppò nel corso della storia sotto l’azione dello Stato”. Su questa linea Acton arrivava persino a sostenere che la “combinazione di diverse nazioni in un unico Stato è una condizione di civiltà tanto necessaria quanto la combinazione degli uomini nella società”. Se, infatti, “pensiamo che la libertà, come mezzo della realizzazione dei doveri morali, sia la meta della società civile, dobbiamo concludere che gli stati sostanzialmente più perfetti includono varie nazionalità distinte senza opprimerle. Imperfetti sono invece quegli Stati nei quali non si ha miscuglio di razze; e decrepiti quelli che non ne risentono più gli effetti”.
Siccome condivido questi pensieri di Acton, spero che sia chiaro quanto poco mi piacciano le posizioni di chi usa l’identità nazionale o locale come una bandiera da sventolare contro lo straniero o per innescare “conflitti di civiltà”. Se però è vero – e io ne sono convinto – che oggi il vero tratto d’appartenenza alla “nazione politica” non sia più determinato soltanto dalla nascita, dalla lingua o dal sangue, bensì dalla volontà e dalla consapevolezza di cittadini che vogliono vivere in un libero ordinamento politico, nel rispetto della propria e dell’altrui identità etnica e culturale, allora non possiamo prendere troppo alla leggera il problema dell’accertamento di questa volontà e consapevolezza da parte di coloro che, appartenendo a culture differenti, talvolta molto differenti dalla nostra, chiedono di entrare a far parte a tutti gli effetti della nostra comunità politica. Chi dovrebbe accertare questa volontà? Secondo quali criteri? Poiché non credo ci sia bisogno di spiegare quanto queste domande siano oggi cruciali, ma anche difficili, proprio per questo non sarei troppo disinvolto con la cosiddetta “cittadinanza breve”.
Meno che mai possiamo appiattirci sull’idea della cittadinanza politica come uno dei tanti diritti che possono essere rivendicati da chiunque e in qualsiasi posto. I diritti, lo sappiamo, vanno presi sul serio; quando si parla di cittadinanza è bene considerare che si tratta di un tema da prendere addirittura serissimamente. Farne un diritto significa non capirne la particolare natura. Un po’ come quando, per il semplice fatto che le nostre costituzioni liberaldemocratiche prevedano il sacrosanto diritto all’emigrazione, si ritiene che esista un altrettanto sacrosanto diritto all’immigrazione. L’idea di cittadinanza cosmopolitica, tanto cara ad autori come Habermas e Beck, si configura pertanto come una pura astrazione e, dal mio punto di vista, nemmeno un’astrazione piacevole, un sogno che sarebbe bello vedere realizzato. Solo uno stato mondiale, infatti, potrebbe consentire una cittadinanza mondiale. Ma questo a me proprio non piace per gli stessi motivi per cui non piaceva a Kant: perché ci toglierebbe la possibilità di emigrare (questo sì un diritto fondamentale).
Per concludere, non mi sembra proprio il caso di prendere sottogamba il problema dell’identità dei popoli e delle nazioni, ripiegando magari su concetti ideologici come quello di “cosmopolitismo”, pensato soprattutto in prospettiva post-identitaria. Semmai avremmo bisogno di identità forti e cosmopolite, capaci proprio per questo di essere “attive e prospettive”, nonché capaci di gettare ponti verso coloro che appartengono ad altre culture e, soprattutto, di meritare il loro rispetto: se ci pensiamo bene, la condizione più importante per richiedere e concedere la cittadinanza.