Dice Francesco Gavazzi, nell’articolo sul Corriere di ieri, che la ricetta del Presidente Obama, di vietare alle banche di esporsi ai rischi tipici di un fondo speculativo, è una soluzione tecnicamente possibile – contrariamente ai dinieghi avanzati dalle banche – ma che in passato non ha evitato i disastri delle crisi bancarie.
Giavazzi ha ragione. Basti ricordare che una delle più gravi crisi del sistema bancario americano colpì negli anni ottanta il sistema delle Savings & Loans Associations, istituti di credito molto semplici, autorizzati esclusivamente alla raccolta di depositi e alla concessione di mutui e prestiti personali agli associati. Ebbene, anche allora i rischi eccessivi assunti dalle tranquillissime S & L costarono ai contribuenti/risparmiatori americani oltre 160 miliardi di dollari.
Il problema quindi non è separare, dividere, vietare, limitare le “funzioni” che possono svolgere le banche. Il problema reale – da sempre presente nell’attività fiduciaria, quale quella finanziaria – è di evitare comportamenti irresponsabili da parte dei mandatari (banchieri, managers), ai quali i mandanti (risparmiatori, investitori) affidano i loro risparmi. E’ in buona sostanza un problema di agenzia: come assicurarsi, che a fronte di informazioni asimmetriche, di cui dispongono mandante e mandatario, il primo possa assicurarsi che il secondo rispetti il mandato affidatogli?
Dire allora, come fa il Presidente Obama, che separando le funzioni svolte dalle banche, i contribuenti non saranno più chiamati a pagare il conto dell’irresponsabilità dei banchieri arroganti, è perlomeno illusorio.
Occorrerebbero invece iniziative volte a rinforzare gli incentivi, affinché i mandatari del rapporto fiduciario si comportino in maniera virtuosa e siano così meglio tutelati gli interessi dei risparmiatori. Certamente alcune tipologie di remunerazione sono altamente distorsive, poiché i compensi si basano su risultati di breve e non di lungo termine ed andrebbero quindi scoraggiate con un’adeguata imposizione fiscale.
Inoltre, bisognerebbe ripristinare la consapevolezza, o ragionevole certezza, che le banche possono fallire e gli azionisti sono chiamati a “pagare il conto” della mancata vigilanza sui loro managers. Il “moral hazard”, indotto nel sistema dai salvataggi di tante banche e istituzioni finanziarie nel corso della recente crisi, purtroppo non aiuta a questo riguardo. Andrebbe chiaramente indicato che il bene pubblico da salvaguardare non sono le banche, o i singoli operatori, bensì le infrastrutture essenziali del sistema finanziario: il mercato monetario e interbancario, i sistemi di compensazione e regolazione dei pagamenti, ecc. Per questi la vigilanza imposta ed esercitata sui partecipanti dai partecipanti stessi è la forma più efficace di regolamentazione, come ha dimostrato nel corso della recente crisi l’esperienza delle “clearing house”.
Sarebbe bene anche, che gli operatori della comunicazione accentuino la capacità di analisi e di scrutinio, per informare con indipendenza e autorevolezza i risparmiatori. Una pubblicistica scevra da conflitti di interesse potrebbe rafforzare gli incentivi di cui sopra.
Per finire, è importante ribadire la lezione fondamentale, e cioè, che gli investitori devono guardarsi dall’illusione di facili guadagni: in finanza, come in altri settori di attività, la promessa di un rendimento elevato si accompagna sempre con alti rischi.
02/02/2010