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Alcuni giorni or sono il presidente e i ministri delle Isole Maldive, indossate mute da sub e maschere, hanno tenuto una riunione immersi in una laguna alla profondità di quattro metri. Al termine dell’incontro, su una lavagna di plastica hanno scritto con colori a prova d’acqua: “Dobbiamo unirci in uno sforzo da guerra mondiale per bloccare ulteriori aumenti delle temperature. Il cambiamento climatico è in corso e minaccia i diritti e la sicurezza di tutti sulla Terra”. L’insolita iniziativa aveva lo scopo di attirare l’attenzione internazionale sul fatto che se il global warming non verrà fermato, e se le previsioni delle Nazioni Unite sono corrette, l’arcipelago verrà sommerso entro il 2100 a causa del conseguente innalzamento del livello delle acque marine.

Si tratta in realtà di due “se” sempre più ipotetici. Quelle dell’ONU non sono previsioni, ma proiezioni: il global warming è un fenomeno tutto da verificare come pure la sua origine antropica e la sua ricaduta catastrofica sul pianeta. Ogni giorno nuove ricerche e rilevazioni ribadiscono quanto da anni sostengono tanti scienziati: se l’attività solare non aumenta, ci aspetta piuttosto un raffreddamento globale; comunque sia, le attività umane incidono in misura del tutto marginale, forse irrilevante, almeno finora, sulla temperatura della Terra; e un clima più caldo, come dimostrano le evidenze storiche, nel complesso migliora le condizioni di vita, moltiplicando le risorse e riducendo la mortalità elevatissima provocata dal freddo intenso.

Imperterrita, l’ONU continua a organizzare summit in vista della conferenza internazionale che si terrà dal 7 al 18 dicembre a Copenhagen, per decidere il dopo Kyoto, e che, come già altre iniziative ONU, sembra avviata, più che ad affrontare un problema, a trasformarsi in un ulteriore attacco all’immagine e agli interessi dell’Occidente: alla sua immagine, imputandogli un ennesimo misfatto, a sostegno di chi giudica quella occidentale la peggiore delle civiltà mai comparse sul pianeta, e ai suoi interessi, chiedendo ai suoi popoli risarcimenti insostenibili e onerosissime riduzioni delle emissioni dei gas ritenuti responsabili del riscaldamento globale.

Durante i lavori del vertice straordinario sul clima organizzato al Palazzo di Vetro di New York il mese scorso, il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon ha infatti ammonito: “abbiamo 10 anni di tempo per evitare gli scenari peggiori. Un fallimento della conferenza sarebbe moralmente ingiustificabile, economicamente miope e politicamente avventato”. Convinto che a determinare il global warming siano fattori antropici, si è fatto portavoce di centinaia di organizzazioni non governative puntando quindi l’indice contro i paesi occidentali, i più industrializzati e da maggior tempo, denunciandoli di essere “storicamente responsabili dei cambiamenti climatici” e presentando un salatissimo conto: oltre a ridurre le emissioni del 40-45% rispetto ai livelli degli anni 90, i colpevoli senza appello devono fornire ai paesi in via di sviluppo, ritenuti le vittime principali benché innocenti del fenomeno, i mezzi finanziari per dotarsi di tecnologie non inquinanti e inoltre devono risarcirli dei danni causati finora e impegnarsi per il futuro a mettere a disposizione dei loro governi circa 500-600 miliardi di dollari all’anno.

Allineata senza incertezze sulle posizioni dell’ONU, l’Unione Africana non solo esige dai “grandi inquinatori” risarcimenti e contributi per i problemi già derivanti all’Africa dal global warming, ma chissà come è riuscita a calcolare quelli futuri valutandoli in un importo di base di 65 miliardi di dollari all’anno.

A quanto pare, in 17 stati sono stati inoltre allestiti dei “tribunali speciali” per raccogliere testimonianze dirette delle vittime del riscaldamento globale da presentare a Copenhagen. Eccone un esempio: “Non siamo ricchi e dipendiamo dall’agricoltura per sopravvivere – ha raccontato un contadino ugandese, Constance Okollet – prima riuscivamo a fare anche più di due raccolti all’anno, ma ora si alternano periodi di siccità e gravi inondazioni, i campi sono spesso incoltivabili e non abbiamo niente da mangiare”. Due punti fondamentali andrebbero chiariti, se davvero quello descritto è lo scenario tipico dei paesi africani colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici di origine antropica di cui si accusa l’Occidente. Il primo: servivano realmente tanti aiuti umanitari in Africa se prima si ottenevano di norma anche più di due raccolti all’anno? Il secondo: come mai, allora, la memoria storica di centinaia di etnie si organizzava in un susseguirsi interminabile di carestie dovute a siccità o a piogge eccessive, il ricordo delle quali, insieme a quello degli altrettanto frequenti conflitti armati a scopo di conquista e di razzia, serviva a scandire il tempo quando ancora non si contavano anni, decenni e secoli?

 

l’Occidentale.it

19 Ottobre 2009