E’ scoppiato il caso “collegato lavoro”, dopo che il Presidente della Repubblica si è rifiutato di promulgare la legge (approvata in quarta lettura dal Senato) e ha rinviato il provvedimento alle Camere per un riesame.
Le osservazioni del Quirinale si sono concentrate in particolare sull’articolo 31 recante norme in materia di conciliazione e di arbitrato. La norma prevedeva questo: che le parti contrattuali possono pattuire clausole compromissorie che rinviino alle modalità di esecuzione dell’arbitrato purchè ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva o sia certificato, a pena di nullità, da una commissione di certificazione dei contratti di lavoro chiamata ad accertare la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie che dovessero eventualmente insorgere tra di loro.
A dire dei “pifferai” vicini alla Cgil, la norma avrebbe aggirato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Tutto ciò, nonostante che il ministro Sacconi avesse voluto fugare ogni possibile dubbio promovendo un avviso comune, sottoscritto da tutte le parti sociali (Cgil, al solito, autoesclusa) con il quale le stesse si erano impegnate a stipulare, in materia, un accordo interconfederale che non includesse il licenziamento tra le questioni da devolvere all’arbitrato.
Dopo la presa di posizione del Quirinale la norma dovrà essere ampiamente rivisitata. Di questi aspetti si è lungamente parlato negli ultimi giorni.
E’ forse più utile andare alla riscoperta dei motivi ispiratori del provvedimento. Basta andare a rileggere quanto era scritto in tema di giustizia del lavoro nel Libro bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001, della cui stesura fu responsabile Marco Biagi.
“In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro anche la prevenzione e la composizione delle controversie individuali di lavoro – vi era scritto – deve ispirarsi a criteri di equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale. La crisi della giustizia del lavoro è, infatti, tale, sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronunce, da risolversi in un diniego della medesima, con un danno complessivo per entrambe le parti titolari del rapporto di lavoro. E’ necessario – proseguiva il testo – anche in proposito guardare alle esperienze straniere più consolidate (dai tribunali industriali britannici ai probiviri francesi) per trarne motivo di riflessione e di approfondimento. La situazione, specialmente in alcune sedi giudiziarie, è davvero grave e deve essere affrontata con assoluta urgenza. A tal proposito il Governo considera assai interessante la proposta, da più parti avanzata, di sperimentare interventi di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi. Tutte le controversie di lavoro potrebbero essere amministrate con maggiore equità ed efficienza per mezzo di collegi arbitrali.
Con particolare riferimento al regime estintivo del rapporto di lavoro indeterminato (il licenziamento, ndr), si potrebbe anche considerare a riguardo la possibilità di conferire allo stesso collegio arbitrale di optare per la reintegrazione o per il risarcimento, avuto riguardo alle ragioni stesse del licenziamento ingiustificato, al comportamento delle parti in causa, alle caratteristiche del mercato del lavoro locale (……). Pure nel rispetto dei limiti di natura costituzionale che impediscono di dichiarare il lodo non impugnabile – concludeva il Libro bianco – l’istituto arbitrale sarebbe assai incentivato nel ricorso volontario delle parti se la decisione venisse resa su base equitativa – unica garanzia per tempi certi – e l’impugnabilità potesse essere proposta solo per vizi di procedura. Il Governo auspica che su questo punto si apra un confronto capace di produrre una proposta capace di modernizzare la gestione della giustizia del lavoro”.
Purtroppo, anche questa volta il cambiamento auspicato non è stato possibile.