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Il mio primo pensiero, sentendo della tragedia polacca, è stato che la Storia può essere incredibilmente crudele. La classe dirigente della Polonia è stata decapitata per due volte in uno stesso, maledetto posto: Katyn. Il secondo è stato quello di chiamare il mio vecchio amico Adam Michnik, a Varsavia. 

Michnik, un intellettuale finito in galera per ben sei volte ad opera del regime fantoccio dei sovietici, una volta mi disse: “Chiunque abbia vissuto quella umiliazione, a un certo punto, vuole vendetta. Conosco tutte le bugie. Ho visto persone venire uccise. Ma so anche che il revanscismo non ha mai fine. E la mia ossessione è sempre stata quella che dovremmo fare la rivoluzione, ma non come quella francese, o russa; piuttosto come quella americana, nel senso che dovrebbe essere ‘per’ qualcosa, non ‘contro’ qualcosa. Una rivoluzione contro l’utopia. Perché le utopie hanno portato alla ghigliottina e ai gulag”.

L’ossessione di Michnik ha dato i suoi frutti. Il presidente Lech Kaczynski è morto. Slawomir Skrzypek, presidente della Banca nazionale, è morto. Un’esplosione nel mezzo di una nebbiosa foresta sulla via di Katyn si è portata via entrambi, assieme ad altre 94 persone. Ma la democrazia polacca non ne ha praticamente risentito. Il presidente della camera bassa del Parlamento è diventato presidente facente funzioni, in attesa delle elezioni. Il primo vicepresidente della Banca nazionale ha assunto gli incarichi del presidente. La Polonia, spesso smembrata, a volte cancellata dalla cartina geografica, è calma e in pace.

“Katyn è il luogo in cui è morta l’intelligentsia polacca” mi ha detto Michnik – attualmente anima del popolarissimo quotidiano Gazeta Wyborcza – quando l’ho contattato al telefono. “E’ una tremenda tragedia nazionale. Ma nella mia tristezza sono ottimista, perché le parole dette da Putin, forti e sagge, hanno aperto una nuova fase nelle relazioni russo-polacche. E perché noi polacchi stiamo mostrando che possiamo essere responsabili, e che possiamo avere un paese stabile”.

Michnik si riferiva alle parole del primo ministro Vladimir Putin, dopo la sua decisione di unirsi, per la prima volta nella storia, ai dignitari polacchi nella commemorazione dell’uccisione di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn, avvenuta durante le primissime fasi della Seconda guerra mondiale. Putin, pur difendendo il popolo russo, ha denunciato le “ciniche bugie” che hanno a lungo celato la verità su quell’episodio, affermando che “non c’è giustificazione per questi crimini” compiuti da un “regime totalitario”; ha quindi dichiarato: “Dobbiamo incontrarci a metà della strada, capendo che non si può vivere solo nel passato”.

La dichiarazione di Putin, condannata dai dinosauri del Partito comunista russo, ha importanza decisamente minore della sua presenza quel giorno, e del suo inchinarsi in quella foresta della vergogna. Vederlo a fianco del primo ministro polacco, Donald Tusk, mi ha fatto tornare col pensiero a Francois Mitterrand e Helmut Kohl che si stringevano la mano a Verdun, nel 1984: è da tali, solenni momenti di riconciliazione che è sorto il miracolo di un’Europa unita e libera. Un’Europa che adesso si estende fino agli Urali.

Penso anche a Willy Brandt inginocchiato nel ghetto di Varsavia, nel 1970, gesto che fu il punto di svolta di una riconciliazione tedesco-polacca ancor più miracolosa della nascita, dopo la guerra, dell’alleanza tra Germania e Francia. E adesso arriva forse la più meravigliosa delle riconciliazioni, quella russo-polacca.

E’ troppo presto per dire come evolveranno le relazioni tra Varsavia e Mosca, ma non è certo troppo presto per dire che 96 vite perdute sarebbero disonorate se i capi polacchi e russi non traessero da questa tragedia un impegno solenne. Per citare le parole che Tusk ha detto a Putin, “una parola di verità può mobilitare due popoli nel cercare la via della riconciliazione. Saremo capaci di trasformare una bugia in riconciliazione? E’ nostro dovere credere di sì”.

La Polonia dovrebbe biasimare ogni nazione che crede che pace e riconciliazione siano impossibili, ogni stato che crede che c’è bisogno del sacrificio delle nuove generazioni per vendicare antichi torti. Il problema del vittimismo “competitivo”, fattore intramontabile nelle vicende mediorientali, è che condanna i bambini di oggi a ingrossare la lunga lista dei caduti.

Nessun’altra nazione ha sofferto quanto la Polonia, spezzata in due nel 1939 in forza del patto di non aggressione tra Hitler e Stalin, trasformata dai nazisti nell’epicentro del loro programma di eliminazione dell’ebraismo europeo, luogo scelto per erigere Auschwitz e Majdanek, campo della morte per milioni di cristiani polacchi e di ebrei polacchi, patria dell’audace Rivolta del ghetto di Varsavia, quindi pedina sovietica e poi unica protagonista, con Solidarnosc, della lotta europea post-Yalta per la libertà; come ha scritto uno dei suoi grandi poeti, Wislawa Szymborska: “La storia, qui, conta gli scheletri con numeri tondi”. Ventimila di quegli scheletri giacciono a Katyn.

E’ questa Polonia che adesso è in pace con i suoi vicini, e stabile. E’ questa Polonia che si è unita con la Germania nella Comunità europea. E’ questa Polonia che ha visto gli autentici simboli della propria tumultuosa storia (tra loro anche la portuale Anna Walentynowicz e l’ex presidente in esilio Ryszard Kaczorowski) precipitare in un aereo di costruzione sovietica e rispondere con dignità, secondo il dettato della legge.

E allora non venite a dirmi che una storia crudele non può essere messa da parte. Non venite a dirmi che israeliani e palestinesi non potranno mai fare la pace. Non venite a dirmi che la gente per le strade di Bangkok e Bishkek e Teheran sogna invano libertà e democrazia. Non venite a dirmi che le bugie possono durare in eterno. Chiedetelo ai polacchi. Loro lo sanno. 

Traduzione di Enrico De Simone

Tratto da New York Times