Un’analisi per quanto possibile serena delle polemiche sorte e dilagate a proposito di quella che, senza tanti tecnicismi, passa ormai per la cosiddetta, o ‘famigerata’, legge sulle intercettazioni, implica tre premesse di carattere diverso le quali, a loro volta, devono essere distinte dal fatto che, come tutte le cose umane, e quindi anche le leggi, si potrebbe fare tecnicamente di meglio. Ma, essendo questa una questione di competenza dei tecnici del diritto, chi scrive non si azzarda in giudizi.
La prima premessa, di carattere contingente, è che, pure in questo caso, la maggioranza, su dibattito che ha evidenti implicazioni di carattere filosofico-politico, si trova priva di un ‘padre nobile’ il quale, quantunque non ‘organico’ alla maggioranza, avrebbe potuto essere un punto di riferimento in grado di ‘illuminare’ per scienza e prestigio intellettuale la maggioranza, esprimendo una posizione che riscuotesse se non altro il rispetto dell’opposizione. Non è che (ed evito di fare nomi) nell’area culturale attigua alla maggioranza manchino personalità intellettuali di questo calibro. Ma essendo la maggioranza a dir poco carente di una ‘politica culturale’ in grado di valorizzare tali risorse, nessuno (per dirla con un’espressione forse truculenta) è mai stato ‘pompato’ abbastanza da essere innalzato a quel ruolo. Purtroppo, in un mondo dominato da media se ne ha bisogno. E quando tale bisogno si presenta, la mancanza si avverte e finisce per pesare.
La seconda, in qualche modo connessa alla prima, è che, priva di una ‘filosofia politica’ di riferimento, la maggioranza finisce ogni volta per ingarbugliarsi su questioni che in realtà sono interpretazioni del dettato costituzionale. In altre parole, accettando che l’attuale Costituzione sia in realtà il nostro testo di filosofia politica di riferimento, si finisce per disquisire sugli articoli che possono legittimare le varie e contrapposte posizioni. Il che significa rimettersi, cercando di razionalizzarle e di dar loro sistematicità, e anche per una questione come quella del diritto alla riservatezza che ha anzitutto una valenza filosofica, alle interpretazioni di un testo giuridico così come sviluppate dal ceto dei costituzionalisti. Ciò che, dal punto di vista politico, è un po’ come evirarsi.
La terza è che molti si meravigliano per il fatto che tante persone che si dichiarano liberali (anche se in realtà si tratta di Liberals) siano così fermamente avverse non soltanto alla proposta di legge, ma alla stessa idea di porre dei limiti a quello che viene spacciato come un diritto all’informazione. In realtà non c’è niente di cui meravigliarsi perché quell’atteggiamento è coerente col fatto che i Liberals di qualsiasi specie e gradazione, pur riconoscendo i diritti individuali, compreso anche quello alla riservatezza, li subordinano, in maniera analoga a quanto avviene nel campo dell’economia, alla categoria dell’’utilità generale’. Dunque, il diritto individuale alla riservatezza vale fin quando non entra in contrasto con quello all’informazione. Che poi quegli stessi Liberals si ritengano così puri ed etici da non aver paura di nulla, è altra questione che appartiene alla psicologia individuale o sociale. E si potrebbe dire anche che la loro opposizione è coerente con la credenza che l’etica pubblica –sovente detta anche ‘bene comune’– debba prevalere sui diritti individuali e sulla politica.
Esaurite le premesse è bene ricordare che per il liberalismo classico il godimento dei diritti naturali alla Locke, o individuali, non è subordinato al bene comune o all’utilità generale, ma è ciò che la produce. Essi, di conseguenza, non possono essere limitati da quelle, ma, e soltanto in casi particolarmente gravi, dalla politica. E questo perché, per il principio della Rule of Law, ciò che è proibito ai privati non può essere consentito allo stato. Da questo punto di vista le intercettazioni e la loro divulgazione dovrebbero essere tollerate soltanto nel caso in cui certi comportamenti rappresentassero pericolo per la sicurezza e la immediata sopravvivenza dello stato. Tant’è che, anche se chiudendo talora più di un occhio, venivano un tempo fatte dai servizi segreti; e che quando le si scopriva il detentore del potere politico pagava un conto, sempre ‘politico’, salato.
Sembrerebbe un’ipocrita incongruenza se non fosse che non essendo mai nessuno riuscito a dimostrare che si possa fare a meno della politica, ed essendo questa un’attività che non può fare a meno della coercizione, se si vuole la politica bisogna rassegnarsi al fatto che la usi. Anche se in alcuni casi può manifestarsi facendo violenza al diritto di riservatezza.
La fantomatica categoria del ‘vero liberale, riassumendo, non vorrebbe nessuna intercettazione in quanto limitazione dei suoi diritti naturali. Tuttavia, non essendo talmente ingenuo da pensare che se ne possa fare a meno, l’affida a delle persone che sceglie tramite le elezioni ed è ben determinato a vendicarsi degli abusi che di quella licenza vengono fatti.
Purtroppo, come ha dimostrato Piergiuseppe Monateri in un articolo, Verso un capitalismo non liberale? (apparso su “Biblioteca della libertà”, XLIV (2009), gennaio-aprile, n. 194 online), le esigenze della lotta al terrorismo internazionale hanno progressivamente eroso le fondamenta teoriche di tale impostazione. Vale la pena di riportarne dei passi: “uno dei principali strumenti giuridici del liberalismo classico si è sviluppato nel common law come diritto al controllo giudiziario contro l’arresto da parte delle autorità statali: il writ of habeas corpus.
Questo quadro – per secoli il punto di riferimento essenziale per definire cosa corrisponde a un sistema liberale di rule of law – è oggi entrato in crisi, a partire dalla ‘guerra al terrore’ fino agli stessi sviluppi della tecnologia, che permettono oggi un controllo estensivo e praticamente illimitato delle attività private;un controllo determinato in larga misura da ragioni di sicurezza e prevenzione”. Ma anche se la conclusione di Monateri è che “mentre nel Novecento si contemplava il trionfo di una società libera di mercato o l’affermarsi di una società politicamente oppressiva basata su stretti controlli individuali, oggi vi è invece un diverso possibile scenario: quello di una società post-politica ma oppressiva. Sicuramente, una società non più liberale in senso classico”, ciò non significa che quella tradizione possa essere data in pasto ai porci per facilitare le indagini degli inquirenti, per incentivare la vendita dei giornali e per consentire all’opinione pubblica di celebrare i fasti della propria presunta eticità pasteggiando a base di pettegolezzi e di miserie umane.
Che esistano lo sappiamo da tempo, da sempre. Ma se non accettassimo che le ‘miserie umane’ vanno compatite, e punite soltanto quando penalmente rilevanti, e non includessimo tra queste miserie anche la curiosità morbosa e la vanità di essere migliori, ovvero se accettassimo l’idea di usufruire dei mezzi oggi messi a disposizione dalla tecnologia per un progetto etico di criminalizzazione prima di un giudizio penale, avremmo fatto il passo più consistente nella direzione di una “via della schiavitù” decisa e gestita da persone alle quali non abbiamo dato neanche il nostro voto e, pertanto, politicamente ‘irresponsabili’.
Un limite, quindi, bisogna porlo. Ed è piuttosto curioso che l’idea che il mercato dell’informazione possa autoregolarsi venga da quelle stesse persone che non ritengono che tale autoregolamentazione valga per il mercato dei beni e per la distribuzione dei medesimi.
Leggi il dossier, clicca qui