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Il Presidente Obama ha rinverdito le teorie sul “soft power” del politologo Joseph Nye, ma adesso l’America è più debole. In un saggio della rivista Commentary si comprende perché al mondo ci sono Paesi alleati o disposti ad assecondare la superpotenza Usa, ed altri che invece sono pronti ad opporsi, combattendola e sognando di distruggerla.

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Lo scorso maggio, Barack Obama ha tenuto il discorso di apertura alla cerimonia per il conferimento delle lauree presso l’accademia di West Point e, in quell’occasione, ha fortemente elogiato il valore delle forze armate statunitensi – esprimendo il più sincero apprezzamento per i risultati della campagna militare USA in Iraq, come mai aveva fatto prima. “Questo è quel che si può definire un successo”, ha affermato, “un Iraq che non fornisce paradisi in cui ripararsi ai terroristi, un Iraq democratico, autonomo, stabile e che ha fiducia in sé stesso.” Tuttavia, prima del discorso, davanti a un pubblico di alcune migliaia di uomini e donne in uniforme, il comandante in capo ha deciso di concentrarsi sulla dimensione non militare degli interessi futuri del paese.

“Non possiamo lasciare la sicurezza di questa nazione nelle mani di uomini in divisa”, ha spiegato. “Dobbiamo assicurarci che l’America cresca con le proprie forze”. Prima di tutto, ciò esigerà dei “progressi in casa”. Questi passi in avanti includono una maggiore concentrazione sull’istruzione, sullo sviluppo di nuove fonti di energia pulita e sulla ricerca per riuscire a svelare i misteri della scienza. All’estero, un energico impegno ci aiuterà a “non essere tagliati fuori dalle correnti della cooperazione.”

Per come è stato letto dal giornalista del New York Times, Peter Baker, il discorso di Obama “essenzialmente ha ripudiato l’enfasi che il suo predecessore aveva messo sulla forza unilaterale americana e sul diritto a lanciare la pre-emptive war”. E quando l’amministrazione, pochi giorni dopo, ha reso noto quale fosse la sua principale strategia per la sicurezza nazionale, si è scoperto che essa consisteva in una versione poco più approfondita del discorso di West Point. Così, mentre la strategia per la sicurezza nazionale ha rispecchiato una certa continuità con la presidenza di George W. Bush e con le altre amministrazioni precedenti, le ridondanti proposte sulle questioni non militari che Obama ha esposto a West Point hanno posto un accento senza precedenti sulla dottrina del “soft power”.

“Il peso del nuovo secolo non può ricadere esclusivamente sulle spalle dell’America – di certo ai nostri avversari piacerebbe vedere gli Stati Uniti indebolirsi, per aver utilizzato oltre misura il proprio potere”, ha scritto Obama nell’introduzione al discorso. Il Presidente prosegue (sottolineandolo più volte nel corso delle 52 pagine) sostenendo la necessità di incrementare la cooperazione con le istituzioni internazionali, di porre un modello positivo dell’America come un esempio da seguire nel mondo, di ridurre il deficit ed instaurare rapporti sempre più saldi con gli altri governi. Sebbene la strategia riconosca i risultati conseguiti dall’impegno dei militari americani in Iraq e in Afghanistan, al tempo stesso delinea un approccio al mondo che guarda oltre il disimpegno americano dai conflitti e dalla guerra che è iniziato prima che Obama venisse eletto presidente. Mentre il disimpegno va avanti e la strategia procede secondo i piani, il soft power riempirà lo spazio lasciato libero dalla ritirata della forza militare.

In verità, nell’anno e mezzo di presidenza Obama, tutto questo è già cominciato. I risultati di questa enfasi sul soft power non sono stati incoraggianti.

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Il concetto di soft power è stato inizialmente teorizzato dal  politologo di Harvard Joseph Nye nel suo libro del 1990, Bound to lead: The Changing Nature of American Power. Secondo Nye, il soft power viene esercitato “quando un Paese ne spinge altri a volere la stessa cosa”. Questo risultato può essere ottenuto con “gli intangibili strumenti del potere”, come il dare un buon esempio, l’esportazione di una cultura popolare positiva e un raddoppiarsi della disponibilità ad affrontare i problemi attraverso corpi internazionali e coalizioni. Tutto questo si oppone “all’hard o command power, che si fonda sull’idea di ordinare agli altri di fare ciò che si vuole”. Barack Obama ha accettato questo contrasto con alcune riserve. “Troppo spesso”, ha affermato nella prima intervista come Presidente, “gli Stati Uniti iniziano dettando le proprie condizioni.” Da allora ha frequentemente approfondito quali devono essere, secondo lui, gli obiettivi della “comunità internazionale”.

Le somiglianze con Nye sono più che casuali. Nye scrisse immediatamente dopo la fine della Guerra Fredda:

Sempre di più, oggi, le questioni internazionali non oppongono uno Stato ad un altro; si tratta, piuttosto, di casi in cui tutti gli stati cercano di controllare attori non statuali transnazionali. Le soluzioni a molte problematiche attuali di interdipendenza transnazionale richiederanno azioni collettive e cooperazione internazionale.

Nel settembre 2009, Obama ha dichiarato davanti l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite:

In un Era in cui i nostri destini finiscono inevitabilmente per incrociarsi, il potere non è che un gioco a somma zero. Nessuna nazione può o dovrebbe tentare di dominare un’altra nazione. Nessun ordine mondiale che eleva una stato o un popolo su altri potrà avere successo. Non ci saranno più nazioni dalle quali dipenderanno le sorti del mondo. La tradizionale divisione tra i paesi del nord e del sud non ha senso in un mondo collegato, così come gli allineamenti di nazioni radicate nelle fratture della Guerra Fredda. Un conflitto finito ormai da tempo.

Nye asserisce che se una nazione “riesce a stabilire norme internazionali coerenti con la sua società, sarà meno probabile che essa debba cambiarle”. La strategia per la sicurezza nazionale di Obama si riferisce al “rafforzamento”, al “rispetto”, e “all’applicazione” delle “norme internazionali” non meno di 14 volte.

Il supposto vantaggio del soft power si fonda sull’idea di Nye che “le grandi potenze di oggi non sono più in grado di utilizzare il loro potere tradizionale per raggiungere i loro propositi.” Per le grandi potenze, l’uso della forza è diventato semplicemente costoso. Inoltre, il mondo ha conosciuto – o aveva conosciuto, quando Nye scriveva nel 1990 – una “diffusione del potere” legato all’interdipendenza economica, agli attori transnazionali, ad un incremento del nazionalismo negli stati più deboli, alla espansione della tecnologia e a “questioni politiche mutevoli.”

Per esempio, i giapponesi, che avevano avuto un ruolo importante nell’originale studio di Nye sulle relazioni tra i poteri mondiali, negli anni Ottanta decisero di non ricostituire il loro apparato militare perché “il costo politico sia in casa, che all’estero (considerando la reazione degli altri paesi), sarebbe stato considerevole. La militarizzazione avrebbe poi potuto ridurre, anziché incrementare, la capacità giapponese di raggiungere i fini stabiliti”. Questo, per Nye, era un modello da prendere sul serio. Vent’anni dopo, nella sua strategia per la sicurezza nazionale, Obama avverte, “Quando abusiamo dei nostri militari c’è il rischio di non riuscire a mettere in campo investimenti in strumenti complementari. Potremmo trovarci ad agire senza alleati, allora i nostri soldati finirebbero per essere sfruttati oltre misura (overstretched, ndr), gli americani sarebbero chiamati a portare un fardello troppo grande sulle loro spalle e la nostra leadership mondiale sembrerebbe troppo legata alle forze militari.”

I ripetuti riferimenti all’ascesa del Giappone non sono altro che una delle tante informazioni contenute nell’opera di Nye, buoni propositi sul post-Guerra Fredda,  un mezzo con cui riscattare il tanto discusso “dividendo di pace” lasciato in eredità agli USA dal collasso sovietico con la diminuzione degli impegni militari americani.

Come sostiene Francis Fukuyama nel suo saggio La Fine della Storia, la teoria del soft power è stato un tentativo creativo e interessante di dare un senso ai progetti americani su scala globale. Tuttavia, diversamente dalla teoria di Fukuyama, secondo cui il nuovo ordine mondiale sarebbe sopravvissuto per quasi un decennio, quella di Nye è stata decisamente sconfessata dagli eventi internazionali già nel suo primo anno di vita.

Nell’estate del 1990, un massiccio contingente dell’esercito di Saddam Hussein invase il Kuwait, di fatto annettendolo come provincia. Sebbene mesi prima Nye avesse asserito che per “geografia, popolazione e materie prime stavano diventando meno rilevanti,” Saddam invase il Kuwait per la sua prossimità geografica, la sua inconsistenza militare e l’abbondanza di riserve petrolifere. Nonostante le osservazioni di Nye sul fatto che “la definizione di potere sta perdendo la sua connotazione strettamente legata alle forze armate”, mesi di pressioni internazionali, compresa l’approvazione di una risoluzione ONU, non riuscirono a persuadere Saddam a ritirarsi. Alla fine, solo la travolgente macchina militare americana riuscì a liberare il Kuwait. Questa dimostrazione di forza avrebbe condotto gli Stati Uniti ad essere riconosciuti come la sola ed impareggiabile superpotenza sopravvissuta alla Guerra Fredda.

Dopo la Prima Guerra del Golfo, gli anni Novanta conobbero brutali atti di ostilità nei Balcani: la guerra in Bosnia nel 1992 e quella in Kosovo iniziata nel 1998. Questi conflitti infuriarono nonostante i negoziati internazionali e si attenuarono solo dopo che gli USA presero il comando delle operazioni. Vale anche la pena notare che i tentativi di internazionalizzare questi sforzi, li resero ancora più costosi in termini di tempo, efficienza e manodopera, di quanto sarebbero costati agli Stati Uniti se avessero agito da soli.

Inoltre, gli anni ’90 lasciarono un piccolo mistero su come potessero realizzarsi dei veri e propri eventi cataclismatici non appena gli USA si rifiutavano di utilizzare i loro tradizionali strumenti di potenza oltremare. Nell’aprile del 1994, i ribelli Hutu iniziarono ad uccidere indiscriminatamente i Tutsi in Ruanda. Mentre la violenza cresceva, le forze di peacekeeping delle Nazioni Unite si ritiravano per non violare il mandato che proibiva l’intervento negli affari interni di un paese. Washington fece lo stesso, rifiutandosi perfino di dispiegare i propri soldati nell’Africa centro-orientale. Intanto, le stragi continuavano e, nel luglio dello stesso anno, gli Hutu arrivarono a trucidare circa un milione di Tutsi.

Poi negli anni Novanta iniziò il lungo declino dell’economia giapponese, rendendo quel modello, basato sulla riduzione delle forze armate, sempre meno convincente.

Tutto questo per dire che durante la presidenza Clinton, “gli intangibili strumenti di potere” di Nye mostrarono di avere poca influenza sugli affari di Stato, mentre i più tradizionali metodi di azione continuavano ad essere criticati perché incentrati sulla coercizione di altre nazioni e sull’affermazione del ruolo dell’America come garante unico dell’ordine mondiale.

Se gli anni di Clinton sfidarono l’efficacia del soft power, l’epoca dopo l’11 Settembre ha rivelato come la teoria di Nye fosse in realtà un’eccentricità accademica. Nel suo libro, l’autore faceva riferimento a “correnti questioni di interdipendenza transnazionale” che richiedevano “azioni collettive e cooperazione internazionale.” Tra queste si annoveravano “i cambiamenti ambientali (piogge acide e riscaldamento globale), epidemie come l’AIDS, traffico di droga e terrorismo”. Sicuramente un paradigma che pone il terrorismo agli ultimi posti nella lista delle minacce alla nostra nazione, riservando i primi alle piogge acide, necessita una revisione.

Quale altra potrebbe essere la più forte negazione della tesi sul soft power se non quella di un attacco all’America largamente ispirato da ciò che Nye chiama “la risorsa del soft power”: vale a dire, “i valori della democrazia americana e i diritti umani”? Eppure Ayman al-Zawahiri, il numero due di al-Qaeda, ha espresso un inequivocabile parere sulle questioni relative alla democrazia occidentale: “Chiunque afferma di essere un musulmano democratico, o un musulmano che aspira alla democrazia, è come un uomo che dice di sé stesso ‘Io sono un ebreo musulmano, o un cristiano musulmano’ – uno peggiore dell’altro. Questi è un apostata infedele”.

Con etestabile chiarezza, le affermazioni di Zawahiri rivelano l’inconsistenza della teoria del soft power. Il soft power è una buona politica complementare se si ha a che fare con delle parti che approvano gli ideali americani e il dominio americano. Ma applicata a coloro che non la pensano in questo modo, le caratteristiche del soft power diventano dannose. Per i nemici degli Stati Uniti, l’esportazione della cultura americana è una provocazione, non un invito; porsi come un “esempio da seguire” in contesti come quello della “non proliferazione” è indice di debolezza, non di leadership; il rispetto dei corpi internazionali è un mezzo per esercitare un veto sull’azione americana, non un modo per avviare cooperazioni multilaterali.

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È istruttivo ricordare che quando la diplomazia professionale venne creata nelle città-stato italiane del primo Rinascimento sia i diplomatici che le terre che essi rappresentavano appartenevano a un ordine relativamente semplice. Non solo queste città-stato si spartivano la stessa area del pianeta ma, cooperando, i diplomatici condividevano qualcosa di più importante. Come ha sottolineato Harold Nicolson: “Questi ufficiali che rappresentavano i loro governi nelle capitali straniere possedevano lo stesso tipo di istruzione, la stessa esperienza e uno stesso obiettivo. Desideravano la stessa sorte del mondo”.

Questo tipo di diplomazia privilegiata, sviluppandosi tra persone con mentalità simili continua a dare risultati. Soft power è ed è sempre stato un aspetto organico delle relazioni americane con regimi che ancora “desiderano la stessa sorte del mondo”. Washington potrebbe cavillare su dettagli di politica energetica o commerciale con altre democrazie. Tuttavia, è possibile giungere ad un reciproco accordo, poiché le parti hanno preso parte ai negoziati con in mente lo stesso tipo di risultato. Per esempio, nel marzo scorso, India e Stati Uniti hanno raggiunto un’intesa attraverso la quale gli USA si impegneranno a vendere materiali nucleari all’India e l’India si impegnerà a porre sotto la supervisione internazionale i suoi reattori civili e militari. Questo tipo di accordo bilaterale deriva dalla volontà indiana di essere una democrazia libera, prospera e pluralistica. L’uso del soft power da parte dell’America, in questo contesto, è un dato di fatto.

In alternativa, i limiti del soft power sono riscontrabili nelle trattative stabilite dalla un’amministrazione Obama con regimi ostili al modello americano. Gli esempi più efficaci sono l’Iran e la Russia. Consideriamo il tentativo dell’amministrazione Obama di utilizzare il soft power per arrestare il programma nucleare iraniano. Il 19 marzo del 2009, durante le celebrazioni del capodanno persiano, il presidente Obama registrò un video diretto all’Iran, in modo particolare alla sua leadership. Espose, in modo trasparente, la visione di una rinascita diplomatica:

Così, in questa nuova stagione, vorrei parlare chiaramente ai leader iraniani. Abbiamo enormi differenze che si sono accresciute nel tempo. La mia amministrazione si impegna da ora a confrontarsi su tutte le questioni che ci hanno preceduto, per instaurare legami costruttivi tra Stati Uniti, Iran e comunità internazionale. Questo processo non sarà oscurato dalle minacce. Cerchiamo, invece, un rapporto che sia onesto e fondato sul rispetto reciproco.

A questo gesto iniziale di soft power ha subito fatto seguito il mettersi in moto di un negoziato. Nonostante l’evidente assenza di un ambasciata americana a Teheran, è stato avviato un ambizioso sforzo diplomatico per fermare lo sviluppo nucleare iraniano. Mettendo da parte ogni minaccia, Obama aveva proposto un anno di tempo entro il quale l’Iran avrebbe dovuto risolvere il problema del nucleare. “La cosa importante è essere sicuri che ci sia un termine preciso, alla fine del quale potremmo dire che non ci sono stati progressi significativi,” disse il presidente. I delegati americani iniziarono a muoversi oltreoceano per incontrare i rappresentanti iraniani. Ma la leadership iraniana ha bocciato questa proposta, insieme a tutte le altre.  Alla scadenza dell’accordo, lo scorso dicembre, il presidente iraniano Ahmadinejad ha tenuto una conferenza a Shiraz, “L’Occidente può imporre all’Iran quanti ultimatum vuole, a noi non importa”. La fiducia nel soft power come base sufficiente per un negoziato si era tramuta in un ridimensionamento dei tradizionali strumenti diplomatici, come minacce credibili, o alleanze sicure.

Contrariamente alle speranze del presidente Obama, dal momento del suo insediamento l’Iran ha intrapreso una massiccia espansione del programma nucleare. Se teniamo conto delle rivelazioni sull’arricchimento dell’uranio, delle dichiarazioni intrise di integralismo, o delle rinnovate minacce di distruggere Israele, il comportamento dell’Iran non può essere certo chiamato diplomatico.

L’Iran resta indifferente al soft power americano perché il regime islamico si fonda su una netta opposizione agli ideali e ai piani americani. La rivoluzione Khomeinista predica un odio dottrinale contro gli USA. Sia per Ahmadinejad, sia per il Grande Ayatollah Ali Khamenei “volere ciò che l’Amercia vuole” significherebbe sovvertire la Repubblica Islamica dalle fondamenta.

Eppure nel suo sforzo di guidare Teheran verso un accordo l’amministrazione Obama ha perso un’opportunità con i soli iraniani che non desiderano altro: i contestatori democratici. Il 12 giugno del 2009, grazie ad evidenti brogli elettorali, Ahmadinejad è tornato alla presidenza. Per settimane, migliaia di contestatori iraniani sono scesi in piazza. Il regime ha risposto al “Movimento verde”, il nome dato ai dimostranti, con arresti di massa, abusi, torture e assassinii. Alle urla democratiche si unirono esplicite suppliche a Washington. “Sei con noi o con il regime?” chiesero i manifestanti al presidente Obama.

La Casa Bianca si è dimostrata lenta nel condannare l’abuso sui diritti umani, preferendo “essere testimone”, se stiamo alle parole di Obama, per timore che le critiche americane si rivelassero una “patata bollente” all’interno dell’Iran. Non c’è altro da dire. La condanna americana non sarebbe stata un problema per Washington. L’opinione pubblica statunitense è forgiata da ideali saldi e ha una dimensione morale ben collaudata. I democratici iraniani hanno fatto bene a non appellarsi direttamente al presidente della Cina Hu Jintao, o al sovrano dell’Arabia Saudita Abdullah, per condannare Ahmadinejad. Il soft power funziona solo grazie al carattere democratico delle controparti, come l’onda verde iraniana. L’amministrazione lo ha barattato, con l’intento di persuadere un regime dittatoriale e teocratico che l’America è disposta a mettere in gioco i suoi principi. Ma l’onda verde non è stata zittita da Ahmadinejad.

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Allo stesso modo, un rapporto fallimentare di tipo soft con la Russia ha condotto l’amministrazione a darsi scacco matto e a bruciare i rapporti con degli alleati democratici. È risaputo che George W. Bush utilizzò la sua personale e comprensiva considerazione dell’allora presidente Vladimir Putin per raffreddare le relazioni tra Washington e Mosca. Per quanto Bush possa aver pensato che l’ex uomo del KGB  fosse onesto nei suoi confronti, non assecondò mai il desiderio di Putin di smantellare i missili USA in Polonia e nella Repubblica Ceca. Il 17 settembre scorso, il presidente Obama lo ha fatto.

Questa mossa fa parte della politica di “reset” verso la Russia, una pietra miliare nell’approccio del soft power. Nel marzo 2009, il segretario di stato Hilary Clinton presentò il “bottone del reset” al ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. I due tennero bene in vista il pulsante in una serie di foto ufficiali e il segretario Clinton, il vice presidente Biden e il presidente Obama parlarono tutti della necessità di lavorare con Mosca sulle aree di mutuo interesse. Ma nonostante il circo mediatico e la concessione bellica di Washington sui missili, Mosca oggi non si mostra certo più disponibile ad imporre sanzioni più dure contro il regime iraniano. Nel frattempo, la relazione con i nostri fedeli alleati sono ridotte a brandelli. La ricaduta sulla Repubblica Ceca è stata notevole, per esempio. Il vice capo del dipartimento di sicurezza nazionale polacco ha dichiarato che l’alleanza strategica della sua nazione con Washington di fatto si è rotta. Il legislatore ceco Jan Vidim ha tuonato: “Se l’amministrazione in futuro ci contatterà con qualsiasi richiesta, io sarò fortemente contrario”.

La dottrina del soft power trova il suo più grande oppositore nella persona di Vladimir Putin. Il nazionalismo molto vicino all’hard power del presidente-premier ha permesso alla Russia di accrescere la sua influenza seguendo quelle linee che Nye aveva considerato ormai marginali – l’espansione militare e lo sfruttamento geografico. Nell’estate del 2008, le truppe russe hanno occupato illegalmente la Georgia e Mosca si è assicurata un accordo, garantendosi il controllo russo della base navale in Crimea per i prossimi trent’anni. Se il presidente Dimitri Medvedev sembra più compiacente e più disponibile verso l’Occidente è perché il mondo è poco attento a crisi del genere.

Mosca, sebbene in modo meno netto di Teheran, non vuole “lo stesso tipo di mondo” desiderato dagli Usa. Il soft power americano raggiunge le sponde del Mar Nero con un’imbarcazione che potremmo chiamare la USS Acquiescence. Il Cremlino incarna una psicologia vecchia di secoli che pone la “grande” Russia al di sopra di un riformismo democratico mai sperimentato. Mosca non abbandonerà ciò che ritiene essere la sua “sfera di influenza tradizionale” al fine di migliorare le proprie relazioni con l’Occidente.

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Per descrivere il fallimento degli “intangibili strumenti di potere” di Nye è importante notare che, nonostante l’insistenza dell’autore, la forza militare americana è divenuta sempre più flessibile ed efficiente. Nye aveva predetto che la crescita della spesa avrebbero reso il mantenimento e l’uso di tale forza insostenibile nel lungo periodo. Eppure gli Stati Uniti sono impegnati in due guerre oltreoceano da quasi dieci anni, mentre le spese militari come percentuale del PIL sono più basse di quanto lo fossero nel momento in cui Nye coniò il termine soft power. Il nostro esercito, inoltre, ha avuto meno perdite di qualsiasi altra guerra americana.

In un certo senso, ciò che può essere definito soft power è solo una parte dell’esperimento americano, ed a stento può essere classificato come uno strumento di politica estera. L’America non è solo una nazione; è un’idea, un esempio di cosa si può fare quando al popolo è permesso di esercitare il diritto di governarsi da sé. Anche se le peggiori critiche sulla nostra nazione sono corrette e nonostante gli Stati Uniti abbiano semplicemente distrutto il proprio status di superpotenza, questo Paese potrebbe ancora rispondere agli attacchi, dimostrando di essere il numero uno al mondo per tasso di immigrazione e il più emulato modello politico dalla nascita degli Stati-Nazione.

Il vero punto di forza dell’idea americana, perciò, non è stato solo quello di aver reso gli USA una superpotenza, ma il fatto di permettere che le sue libertà fossero disponibili per una grande quantità di democratici, sia in patria che all’estero.

Di certo durante l’elezione di Barack Obama il mondo ha assistito a una grande prova di democrazia. A questo punto della storia, solo l’America può vantare l’elezione di un nero alla più importante carica del mondo. Forse Barack Obama ha costruito la sua politica estera intorno al soft power, perché è convinto che la sua persona sia sufficiente a trasmettere tutti i messaggi che cui il mondo ha bisogno di sentire riguardo all’America. Alla fine del 2007, l’attuale Presidente dichiarò al New York Times “Io penso che se tu puoi dire alla gente ‘Noi abbiamo un presidente alla Casa Bianca che ha ancora una nonna che vive in una capanna sulle sponde del lago Vittoria e ha una sorella che è mezza indonesiana, sposata a un sino-canadese, allora le persone penseranno che il loro leader abbia la capacità di comprendere meglio ciò che sta accadendo alle nostre vite e al nostro Paese.”

Obama ha sbagliato allora e sbaglia ora. L’interesse del mondo per l’America non sta nella dispersione geografica dei parenti dei suoi leader. Il potere americano – soft o hard – deriva dalla sua eccezionale promessa di opportunità per tutti, a prescindere dalla razza, dalla religione, dalla residenza. Questa promessa è mantenuta con dichiarazioni e sanzioni, ma anche con le armi.

L’idea americana ha permesso al popolo statunitense di costruire una nazione dall’ineguagliabile grandezza militare che sia un Faro per tutti coloro che, lontani, “condividono quello che anche noi vogliamo”. Per coloro che vogliono qualcosa di diverso, quest’idea è un anatema. Questi ultimi non saranno convertiti dal soft power. Anzi, approfitteranno di questa debolezza per perseguire i loro perfidi fini.

Tratto da Commentary

Traduzione di Michele Di Lollo