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Il teatro americano è come una città guidata da un partito unico, una comunità di gente con la stessa mentalità, che è tutto tranne che unanime nella sua rigida aderenza alla linea della sinistra liberal. Nonostante esistano dei dissidenti, quasi mai il pubblico viene a sapere di loro, e per i nuovi lavori teatrali che si discostano dal vangelo sociale del progressismo è altamente improbabile raggiungere il palcoscenico, non importa se a New York o altrove.

Tutto questo spiega perché David Mamet, il drammaturgo americano più famoso e di successo, ha provocato grande imbarazzo quando, due anni fa, ha pubblicato un saggio su “Village Voice” intitolato Why I Am No Longer a ‘Brain-Dead Liberal’ (“Perchè non sono più un Liberal senza cervello”), in cui annunciava di aver “cambiato idea” riguardo l’ideologia a cui aveva aderito in precedenza. Dopo aver studiato i lavori di “una schiera di scrittori conservatori”, fra i quali Milton Friedman, Paul Johnson, Thomas Sowell (definiti “i nostri migliori filosofi contemporanei”), e Shelby Steele, Mamet arriva alla conclusione che “una comprensione dei diversi aspetti del libero mercato si accorda meglio alla mia esperienza rispetto alla visione idealistica che definivo liberal”.

La maggior parte dei membri della comunità del teatro americano hanno risposto alla pubblicazione di Why I Am No Longer a ‘Brain-Dead Liberal’ in due modi. Qualcuno dichiarando che il cambiamento di posizione di Mamet sarebbe stato irrilevante nella comprensione delle piece su cui è basata la sua reputazione. Altri invece hanno sostenuto di aver sospettato da sempre che fosse un cripto-conservatore, argomentando che quel saggio non faceva altro che dimostrare il loro punto di vista.

Ora Mamet ha pubblicato un’altra raccolta di saggi intitolata Theatre (Faber and Faber, 157 pagine) in cui, tra le altre cose, ha cercato di integrare il suo nuovo modo di pensare con la sua visione dell’arte teatrale. Benché Theatre non sia un trattato politico ma piuttosto un’apologia della sua professione, sembra che molti dei suoi colleghi che hanno recensito il lavoro (la maggior parte lo avevano completamente ignorato fino ad oggi) abbiano finito per concentrarsi sul suo aspetto politico, in cui di sicuro avranno cercato di trovare qualcosa di oltraggioso rivolto nei loro confronti. Effettivamente, Mamet offre una definizione del lavoro teatrale che è destinata a suscitare orrore nella grande maggioranza dei suoi colleghi :

Il teatro è un magnifico esempio dei prodotti di quella particolare difesa della democrazia che va sotto il nome di economia di mercato. E’ la più democratica delle arti perché se un’opera messa scena per la prima volta non si appella all’immaginazione o alla comprensione di un pubblico sufficientemente vasto viene sostituita. (…) Questo non è un settore per ideologi (né quelli sul libro paga dello stato e abitualmente definiti commissari, né quelli che ricevono dei sussidi fiscali attraverso il sistema universitario e vengono chiamati intellettuali), ma uno spettacolo popolare fatto di gente che cerca di guadagnarsi da vivere.

Al contrario, Mamet ha rinunciato ai sussidi statali per il teatro perché riceverli non significa nient’altro che sostenere incompetenti “campioni del pensiero corretto” che in alternativa sarebbero incapaci di attirare il pubblico con i loro lavori. Questi autori, sostiene Mamet, forniscono “pseudodrammi” politicamente corretti che “iniziano con una conclusione (capitalismo, America, uomini, e così via, tutte cose che rappresentano qualcosa di sbagliato) e gratificano il pubblico per arrivare a un applauso d’intesa”. Secondo Mamet queste opere sono l’opposto del vero teatro, il cui ‘potere immaginario’ non sta tanto nella sua disponibilità a coccolare i nostri preconcetti quanto nella incomparabile abilità di scioccarci mostrandoci il mondo com’è realmente. “Nel grande teatro”, scrive Mamet, “seguiamo un principio primo che si suppone venga condiviso fino alla sua sbalorditiva e inaspettata conclusione. Siamo felici di scoprire che noi stessi siamo capaci di cambiare idea”.

I lettori di Theatre e di Why I Am No Longer a ‘Brain-Dead Liberal’ che hanno familiarità con il pensiero conservatore si accorgeranno che Mamet non rientra facilmente all’interno di nessuna casella politica. A prima vista appare meno conservatore di un libertario. Come ha spiegato nel saggio Village Voice, si è sentito “in difficoltà di fronte a degli esempi in cui l’intervento del governo ha prodotto qualcosa che va al di là di scelte dolorose” e in nessuna parte di questo saggio o delle pagine di Theatre ha tradito il suo interesse verso quelle questioni sociali che sono al centro del sistema di credenze della maggior parte dei conservatori.

Allo stesso tempo però il rifiuto della cultura liberal da parte di Mamet è radicato in una visione della natura umana che è molto più complicata rispetto a quella della maggior parte dei libertari, e che può facilmente essere collegata alla visione scettica del mondo che anima le sue opere. “Nello stesso modo di un bambino negli anni Sessanta” – ha scritto in Village Voice – “ho accettato come un articolo di fede che generalmente la gente sia di buon cuore”. Questo era il credo che Mamet ha espressamente ripudiato nello stesso saggio:

Non credo che le persone siano fondamentalmente di buon cuore; è questa visione della natura umana che ha spinto e influenzato la mia scrittura negli ultimi quarant’anni. Penso che le persone, in circostanze di stress, possono comportarsi come porci, e che questo, in effetti, non è solo un argomento adatto ma l’unico soggetto della drammaturgia.

L’unica cosa inaspettata rispetto a questa conclusione è il tempo che ci ha messo ad arrivarci l’autore di American Buffalo (1975), Glengarry Glen Ross (1984) e Speed-the-Plow (1988). In queste opere realistiche che fanno di Mamet la maggiore voce del teatro americano, l’autore ritrae  truffatori a tempo perso, agenti immobiliari senza moralità, e ambiziosi dirigenti di Hollywood, impegnati in identiche battaglie selvagge per ottenere potere uno sulla pelle dell’altro. I suoi sboccati personaggi si comportano come scorpioni in un bottiglia determinati a pungere o a essere punti. Non hanno né passato né futuro, solamente un incessante e deprimente presente, con cui riescono a intrattenerci – se questa è la parola adatta – per l’energia maniaca con cui eseguono le loro sfrenate danze di morte.

Le battaglie in cui sono impegnati i personaggi di Mamet, come sottolinea uno di loro in American Buffalo, il più archetipico (e artefatto) dei suoi ritratti sulla vita americana, sono giochi a somma zero nei quali solo un giocatore può uscire vincente: “È un calcio nel sedere o un bacio sul sedere, Don, e mentirei se ti dicessi qualcosa di diverso”. Quando queste opere erano fresche di stampa, furono lette dai critici liberal come altrettante accuse al sogno americano in tutta la sua ripugnante falsità. Ma in se stesse sono tutt’altro che esplicite. Anche se da un punto di vista liberal, Mamet ne ha parlato non in modo prescrittivo ma descrittivo:

La vita economica in America è una lotteria. Ognuno ha le stesse opportunità, ma solo uno raggiungerà l’obbiettivo. “Il massimo che ho è il minimo che hai”. Quindi uno può avere successo solo a costo di portare al fallimento un altro, che è quello di cui parlano molte delle mie opere – American Buffalo e Glangarry Glen Ross.

In questo sta una parte della forza delle più importanti opere di Mamet: rappresentare il comportamento umano piuttosto che cercare di spiegarlo. Nessuno dei suoi personaggi ovviamente è simpatico, nessuno fa un passo avanti a fine serata per rassicurare un pubblico a disagio che sta vedendo il peggio della natura umana, sul fatto che una società ben regolata avrebbe il potere di condurre la gente sulla via della giustizia. Mamet, invece, ritrae la vita umana come una guerra hobbesiana di tutti contro tutti, lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni sul significato ultimo della lotta per il dominio che viene testimoniata sul palcoscenico. L’unica differenza tra il Mamet di allora e quello di adesso è che ha deciso che l’intervento del governo può fare poco e niente per migliorare gli effetti di queste battaglie, e che gli uomini fanno del loro meglio per appianare le divergenze attraverso il funzionamento del libero mercato.

Perché il cuore di Mamet adesso batte per i conservatori? Per chi conosce solo Theatre e il saggio Village Voice potrebbe essere soltanto uno spreco di tempo spiegarlo, ma chiunque abbia familiarità con i suoi lavori precedenti riguardo Israele, il Giudaismo e il Medio Oriente è come individuare una catena di causalità.

Non solo la “gente di teatro” liberal, ma la maggior parte di essa, ebrei inclusi, è incline a stare dalla parte dei palestinesi contro Israele, un’inclinazione che in alcune parti della comunità del teatro inglese è diventata quasi indistinguibile dal puro e semplice antisemitismo. Mamet, al contrario, è uno spudorato Ebreo-Sionista. In Theatre non fa alcun riferimento a questo fatto, mentre ne allude in Why I Am No Longer a ‘Brain-Dead Liberal’ quando cita di sfuggita National Public Radio chiamandola “National Palestinian Radio”. Bisogna dare un’occhiata ai suoi primi scritti, comunque, per avere un’idea più chiara dell’intensità del suo sostegno ad Israele.

Già nel 2002, Mamet pubblicò Forward, un saggio in occasione di una visita a Gerusalemme, che non lascia dubbi sul suo pensiero. Sosteneva che “la stampa occidentale ha imbracciato l’antisemitismo come una nuova oscurità”, raccontando di un netto contrasto fra questo disgusto “trendy” verso gli ebrei e la dura realtà della vita quotidiana in Israele:

Qui, in Israele, ci sono ebrei reali, che si battono per il proprio Paese, contro il terrore e gli erronei giudizi dell’opinione pubblica, che viene al tempo stesso influenzata disgraziatamente e informata in modo fraudolento. Qui ci sono persone che vanno avanti con la loro vita in modo coraggioso, in quello che, purtroppo, se non fosse uno Stato ebraico, avrebbe nella sua costanza, nelle sue riserve e nel suo coraggio, la ragione d’essere l’orgoglio del mondo occidentale.

Nel 2006 Mamet ha pubblicato una raccolta di saggi chiamata The Wicked Son: Anti-Semitism, Jewish Self-Hatred and the Jews che fa il punto senza usare mezzi termini. “Lo stato ebraico – scrive – ha offerto la pace al mondo arabo sin dal 1948; in cambio ha ricevuto guerra e massacri, ed una retorica dell’annientamento”. Mamet prosegue argomentando che la secolarizzazione degli ebrei che “rifiutano il loro diritto di nascita di ‘connessione al Divino’”, nel tempo, tende a soccombere, a causa di un odio degli ebrei verso se stessi che li rende incapaci di opporsi efficacemente all’antisemitismo omicida dei loro nemici – e, per estensione, dei nemici di Israele.

È difficile immaginare un modo meno alla moda di inquadrare il dibattito su Israele, e anche i recensori più comprensivi di The Wicked Son hanno spesso risposto con sgomento alla linea di argomentazione di Mamet. David Margolik ne ha scritto sulla “New York Times Book Review” sintetizzando l’opinione delle elite e criticando la presunta “semplificazione” del libro: “Non tutte le critiche contro Israele sono riconducibili all’odio contro se stessi e non tutte le critiche dei ‘gentili’ sono anti-semite. Gli ebrei che simpatizzano con i palestinesi non sono necessariamente nevrotici e, per inciso, non tutti i crimini di Israele sono ‘immaginari’”.

È possibile che il ripudio del pensiero liberal moderno, nel caso di Mamet, derivi almeno in parte dall’ingenuità con cui i liberal dei giorni nostri come Margolik affrontano le minacce esistenziali che affliggono Israele? Potrebbe essere che questa mancanza di realismo da parte dei suoi colleghi abbia provocato nello scrittore la sensazione che le sue idee politiche fossero altrettanto irreali della fredda disillusione che alberga nelle sue commedie, e che questo abbia fatto sì che i suoi drammi diventassero più reali delle sue opinioni politiche?

Qualunque sia la ragione del suo cambiamento, oggi Mamet è l’unico grande drammaturgo in America che si dichiara apertamente anti-liberal. Ma ahimè, il suo primo dramma dopo la conversione non ha mostrato i frutti artistici di questo nuovo punto di vista. Race, che ha debuttato a Broadway lo scorso dicembre, è uno studio didattico e schematico su due celebri avvocati, uno bianco e un nero, che devono decidere se difendere un milionario bianco accusato di aver stuprato una giovane donna nera. Invece di drammatizzare gli aspetti politici all’interno del plot, Mamet li incorpora in una pesante lezione tenuta dai suoi protagonisti – una tecnica che avrebbe respinto con profondo disprezzo se l’avesse vista in un’opera di uno scrittore liberal. (Il dramma si è rivelato, curiosamente, un grande successo al botteghino).

Potrebbe essere che a 62 anni David Mamet abbia detto quello che aveva da dire come drammaturgo e che quindi sia improbabile – da un punto di vista artistico – che tragga profitto dalla sua tardiva conversione a un conservatorismo dall’aroma libertario. D’altra parte,  come suggeriscono i suoi più duri critici di sinistra, potrebbe essere che abbia già scritto alcune delle opere più conservatrici dell’era moderna – drammi che sono in parte “conservatori” in quanto non ritraggono il mondo attraverso l’oscura lente dell’ideologia. E come risultato della sua conversione sarà difficile, per i critici onesti, non ha importanza quanto liberal e mentalmente aperti essi siano, interpretare queste opere teatrali come qualcosa di diverso da una oscura tragedia sulla natura umana, con personaggi disperati che, come molti di noi, non sono migliori di quello che dovrebbero essere.

Tratto da “Commentary”

Traduzione di Ilaria Bortot