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L’ultimo di una serie di summit internazionali sul cambiamento climatico sponsorizzati dall’Onu ha chiuso i battenti nella paradisiaca città messicana di Cancún. Si tratta del sedicesimo, per l’esattezza. Circa duecento delegazioni da tutto il mondo, pari a 25mila partecipanti, si sono riunite per ben due settimane con l’obiettivo di ribadire lo stesso concetto già emerso un anno fa a Copenaghen: bisogna fermare il global warming, qualsiasi cosa esso sia.

Rapporti scientifici “incontestabili” ci spiegano che, negli ultimi 100 anni, la Terra ha aumentato la sua temperatura di 0,74 gradi centigradi e che oltre 300mila persone nel mondo sarebbero già morte a causa della fame, delle malattie e dei disastri naturali direttamente collegati all’impatto del cambiamento climatico. Greenpeace e l’Associazione Internazionale dei Medici per l’Ambiente “confermano” che la mortalità umana cresce del 3% per ogni grado di aumento della temperatura terrestre. La Australian Medical Association “assicura” che l’aumento delle temperature contribuisce alla nascita delle dittature nel mondo (perché le risorse alimentari scarseggerebbero e, di conseguenza, ciò favorirebbe il costituirsi di regimi autoritari), ed è per questo stesso scopo che la Croce Rossa Internazionale chiede 292 milioni di dollari l’anno “per armarsi contro le minacce del global warming”.

Malattie, fame, guerre, devastazioni. E ancora: lo scioglimento dei ghiacciai, l’estinzione degli orsi polari, l’espansione dei deserti, l’esaurimento del grano. E’ questo il dantesco scenario descritto dagli attivisti green, dagli ambientalisti progressisti e dagli scienziati ideologizzati che rimbalza quotidianamente su giornali, riviste internazionali e siti web. Malgrado quelli legati al riscaldamento globale restino ancora concetti molto discutibili – e nessuno ci abbia ancora spiegato perché debbano essere considerate delle massime assolute le conclusioni di studi i cui dati riguardano un arco di appena un secolo (quasi nulla se si considera che la Terra ha 4,5 miliardi di anni di vita, con tutte le sue evoluzioni climatiche) – il pericolo del climate change, l’ultimo degli slogan progressisti venduto al pubblico sottoforma di certezza scientifica, viene propagandato e si impregna nella coscienza sociale delle popolazioni, facendo venir meno una visione critica del fenomeno.

Lasciando da parte lo scandalo del Climategate – la manipolazione dei dati statistici a fondamento della teoria del global warming –, un esempio che va nella direzione opposta si trova in un recente studio inglese apparso sul numero 102 della rivista “Climate Change”. Sfidando il mainstream scientifico, un gruppo di studiosi ha scoperto che, laddove l’essere umano si adatta ai cambiamenti climatici, il numero di vittime dell’aumento della temperatura atmosferica si riduce progressivamente in maniera significativa fino a registrare 0,7 morti per milione di abitanti. In altre parole, il riscaldamento globale andrebbe a beneficio dell’umanità. D’altronde, non è una novità che fin dai tempi più remoti gli esseri viventi si sono adattati ai cambiamenti dell’ambiente circostante, anche se ciò ha da sempre implicato un gran numero di morti. Darwin docet. 

C’è chi, invece di prospettare la devastazione del surriscaldamento globale, guarda oltre e ipotizza altri effetti positivi per l’uomo. I cambiamenti climatici potrebbero andare a beneficio di Paesi come la Russia: lo scioglimento dei ghiacciai del Nord potrebbe rendere il Paese ancor più ricco di combustibili fossili. E’ vero però che per la maggioranza delle nazioni le prospettive sarebbero molto più buie; forse per questo l’Economist ha proposto di sostituire la lotta al global warming con una battaglia per la “global prosperity”, intesa come un’opportunità di puntare sulla prosperità. Insomma, il vero obiettivo che si dovrebbe porre l’umanità non è la riduzione di 3 gradi centigradi della temperatura ambientale, ma la sfida dello sviluppo globale, specialmente nei campi delle infrastrutture, delle migrazioni e dell’accesso agli alimenti.

L’essere umano non è statico e immobile: la storia dello sviluppo dell’umanità dimostra esattamente il contrario. La sua realtà è dinamica e cangiante perché si adatta all’ambiente che lo circonda. Per questo anche il concetto di “sostenibilità” – una delle nozioni-chiave del lessico socialista – appare molto discutibile. David Friedman distingue due accezioni comunemente legate a questa parola: “Fare le cose in modo che poi si possano continuare a fare nel tempo” e “soddisfare le necessità del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le loro stesse necessità”. Per l’economista americano, se la prima definizione sarebbe ragionevole solo qualora si concepisse un futuro esattamente uguale al presente, la seconda presuppone che l’uomo di oggi possa conoscere con certezza non solo le necessità delle generazioni future, ma anche gli strumenti che queste avranno a loro disposizione.

Come sostiene James Aronson, del Center of Functional and Evolutionary Ecology (Centre National de la Recherche Scientifique, CNRS), “la riserva delle risorse aumenta allo stesso ritmo della riserva della conoscenza” e, di conseguenza, non è vero che le risorse si stanno esaurendo. Ciò che più distingue l’uomo dal resto degli animali è la capacità di evolvere nella conoscenza, per questo è praticamente impossibile prevedere cosa accadrà domani. E invece, alcune presunte “certezze” scientifiche non hanno fatto altro che mettere l’uomo (e insieme a lui anche il frutto del suo progresso) sotto accusa, offrendo solo soluzioni che puntano all’involuzione dell’umanità.

Non è un caso che il summit di Cancún sia stato considerato un fallimento già in partenza. Per gli esperti della materia, lo scopo del vertice non era altro se non quello di ribadire quanto deciso a Copenhagen, cioè una generica promessa di ridurre le emissioni inquinanti. Se poi consideriamo che le decisioni prese l’anno scorso in Danimarca non impongono alcun vincolo ai Paesi che le hanno sottoscritte, allora anche il vertice del clima in Messico rischia di essere archiviato come l’ennesimo evento mediatico e propagandistico. Se poi guardiamo al più rilevante protocollo di Kyoto che, seppur marginalmente, ha valore vincolante di accordo internazionale, in Messico non si sono certo gettate le basi per un’intesa sulla sua continuità o sulla sua sostituzione, un atto che sarebbe invece stato auspicabile ed urgente visto che dal 2012 il protocollo di Kyoto non avrà più alcun valore.

Sarà perché di campagne internazionali sui vari pericoli del global warming ce ne sono state troppe e troppe sono state anche le promesse che si sono concluse in nulla di fatto (basti pensare a quella del presidente Obama che, una volta insediato, aveva promesso di raddoppiare l’energia rinnovabile in 3 anni e di mettere fine alla dipendenza dal petrolio in altri 10 anni, impegni che il Presidente aveva disatteso a Copenhagen e dopo la sconfitta alle elezioni di mid-term sono praticamente svaniti nel nulla), il problema del cambiamento climatico sembra ormai passato in secondo piano e raccoglie meno consensi nell’opinione pubblica.

A differenza di quello danese, il vertice di Cancún è praticamente passato inosservato nei media. Questa volta, abbiamo contato sulle dita i leader delle grandi potenze che partecipavano all’incontro. Un recente sondaggio del Pew Reserch Center for the People and the Press rivela che per il 68 per cento degli americani il climate change non è più un problema serio e solo il 34 per cento lo considera un fenomeno causato dall’uomo. La gente non crede più né nelle presunte certezze della comunità scientifica né alle promesse dei vari governi. Che valore hanno, si domandano in molti, le intenzioni del governo Usa rese pubbliche a Cancún dalla delegazione americana di ridurre del 17 per cento entro il 2020 le proprie emissioni inquinanti o il tentativo dei Democrats di imporre il “Cap and Trade” al Senato se poi scopriamo che il presidente Obama è il capo di Stato più inquinante al mondo, con 20mila tonnellate di emissioni rilasciate durante i 200mila chilometri percorsi nel 2010? Ancora peggiore è l’effetto che producono sull’opinione pubblica le recentissime rivelazioni di Wikileaks secondo cui, l’anno scorso, a Copenhagen, nonostante il toccante discorso del capo della Casa Bianca sulla difesa del pianeta, la delegazione Usa in realtà avrebbe ricevuto l’ordine di far saltare l’accordo collettivo sulla riduzione delle emissioni nocive.

Che gli interessi politici e quelli scientifici non sempre procedano di pari passo, non è una novità. Ma quello che emerge con sempre maggiore chiarezza è che, sulle questioni ambientali, la comunità scientifica non gode più di quella credibilità che poteva vantare fino a poco tempo fa. L’esaurimento del petrolio che invece continua a sgorgare nelle nuove riserve scoperte in aree del globo prima inimmaginabili; l’allarme per lo strato di ozono che, secondo le ultime novità, negli ultimi 5 anni si sarebbe ridotto naturalmente come effetto di fluttuazioni nella concentrazione dell’ozono stesso; lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya che si è rivelato una mera speculazione non confermata scientificamente; la moda della “produzione ecologica” (dall’agricoltura ai prodotti “bio”, passando per l’allevamento) che, secondo alcuni esperti, sarebbe più sana e sicura di quella “normale” anche se la scienza non è ancora stata capace di dimostrare esattamente il perché; la messa al bando delle lampadine incandescenti e la loro sostituzione con le lampade fluorescenti e Led, che pare siano ancor più pericolose per l’uomo a causa del mercurio in esse contenuto (per non parlare dell’aumento dei costi e della perdita di posti di lavoro nel comparto); infine il riscaldamento della Terra, che non sarebbe poi questa grande novità, visto che negli ultimi 120 anni si sono periodicamente susseguiti tutta una serie di annunci sul riscaldamento e il raffreddamento del pianeta (nel 1895, il New York Times titolava “I geologi pensano che il mondo si stia raffreddando”, un concetto ribadito subito dopo il disastro del Titanic, attribuito alla “quinta era glaciale” ma poi smentito negli anni Venti da nuove previsioni sul riscaldamento della Terra)… Sono tutti esempi del modo in cui negli ultimi decenni la scienza ha condizionato fortemente la vita dell’uomo pur senza avere un fondamento certo e indiscutibile per le sue tesi. E’ per questa ragione che ormai da tempo si è diffusa l’idea di una sorta di “dittatura della scienza”.

La subordinazione della scienza agli interessi della politica è sicuramente uno dei fattori che hanno portato alla perdita di credibilità della comunità scientifica. Non è un segreto che, dopo il documentario-manifesto di Al Gore (An Inconvenience Truth), molti scienziati si sono uniformati al “pensiero unico” sul riscaldamento climatico e non perché abbia offerto certezze scientifiche ma per i sussidi governativi offerti generosamente al sistema della ricerca compiacente.a scienza ha assunto un atteggiamento ogni volta più acritico: se Mike Hulme, docente di Climate Change presso la University of East Anglia e autore di “Why We Disagree About Climate Change” (uno dei migliori 4 libri del 2009 in materia di scienza e tecnologia secondo l’Economist), ha ragione quando sostiene che “la scienza può progredire solo attraverso il disaccordo e la sfida” delle idee, allora il modo in cui è stata trattata la questione del global warming dimostra che la comunità scientifica si preoccupa sempre di più di come dovrebbero essere le cose e non di come sono in realtà, dimenticando che l’incertezza è una caratteristica essenziale della scienza stessa.

Se non fosse così, non si capirebbe perché l’Oregon Petition (la petizione promossa dalla Oregon Institute of Science and Medicine contr il Protocollo di Kyoto che dimostra, tra le altre cose, la mancanza di consenso scientifico sull’origine antropica del riscaldamento globale) è stata accolta con così tanta ostilità dalla comunità scientifica. A far riflettere è anche la fotografia scattata dalla rivista “Scientific American” che, nel numero del novembre scorso, racconta la storia di Judith Curry, climatologa e direttore della School of Earth and Atmospheric Sciences, accusata di “tradimento” dal mondo scientifico “allineato” per aver dato un certo credito alle tesi di chi guarda con scetticismo al global warming. Nonostante affermi di non avere dubbi sul riscaldamento climatico – e che quindi le tesi dell’IPCC sarebbero, in sostanza, vere – Curry denuncia che nei rapporti elaborati dagli scienziati di quest’istituzione (che, non dimentichiamolo, rappresenta il consenso sulla climatologia) c’è “molta ignoranza che non viene presa in considerazione e altrettanta certezza troppo esagerata”.

Per l’esperto di psicologia organizzativa S. Alexander Haslam, la comunità dei climatologi mostrerebbe tutti i sintomi del “groupthink”, il sistema di pensiero esibito dai membri di un gruppo per minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso senza una messa a punto, analisi e valutazione critica delle idee. Insomma, dietro le certezze sul global warming ci sarebbe in realtà l’intenzione (volontaria o involontaria) di stabilire un pensiero unico sulla questione climatica. (Due reportage dimostrano come l’isteria e la moda ambientalista possa annebbiare le menti persino degli esperti che hanno partecipato al vertice di Cancún, dove falsi attivisti sono riusciti a raccogliere centinaia di firme sul tema dell’acqua, favorendo inconsapevolmente una destabilizzazione dell’economia americana).

Russell Mead, politologo e opinionista americano, dopo il fallimento del vertice di Copenhagen ha accusato gli ambientalisti di aver dimenticato le loro radici. “Un tempo – sostiene – erano i cugini intellettuali dei libertari economici (…), coloro che diffidavano dall’imporre grandi e semplici piani ai sistemi complessi e che mettevano in guardia dall’interventismo statale perché avrebbe avuto importanti conseguenze involontarie e imprevedibili”. Ecco come la mette Mead in poche parole: “L’essenza del progressivismo – del quale l’ambientalismo è diventato una mera appendice – è la fiducia nel fatto che tutto si risolve non appena viene concentrato sufficiente potere a Washington, laddove questo potere si concentri anche nell’esecutivo e sempre che siano stati concentrati sufficienti esperti in questo ramo”. La più seria delle conseguenze, secondo Mead, è quindi che “il movimento ambientalista diventi la voce dell’establishment, cioè dei tecnocrati”.

Non a caso, per molti critici, tra gli ambientalisti di oggi avanza sempre di più la tendenza al “distruzionismo”, inteso nell’interpretazione che ne ha dato Ludwig von Mises come una interferenza politica nella vita economica dei cittadini. Tendiamo sempre di più a proteggere la Natura e condannare e limitare l’uomo, senza considerare che questo atteggiamento può contribuire alla inefficienza dei processi economici. Se restiamo al global warming, il rapporto Stern ha stimato che le politiche ambientali avviate per mitigare il climate change avrebbero un costo annuale pari all’1% del Pil. Con un andamento di crescita come quello dell’ultimo decennio, ciò significherebbe la crisi permanente. Da qui Bjorn Lomborg, ambientalista e accademico danese, ha proposto un approccio “costruttivo” al problema offrendo una serie di soluzioni efficienti. Invece di provare a impedire il cambiamento climatico, spendendo ingenti quantità di denaro che frenerebbero la crescita economica, Lomberg suggerisce di adattarsi alla nuova realtà: un efficace sistema di dighe e barriere, per esempio, impedirebbe che, in caso di aumento del livello del mare nel prossimo secolo, l’Olanda affondi pagando un costo pari alla decima parte dell’1% del suo Pil.

Per tutto ciò che abbiamo descritto fino adesso, andrebbe sostenuto un diverso approccio alle questioni legate al clima e all’ambiente. Un “Ambientalismo Blu”, come l’ha definito il pensatore americano Michael Novak in un manifesto apparso nel 2003 sulle pagine della National Review: un ecologismo che rimetta l’uomo al centro del creato, che intenda la Natura per l’uomo e non viceversa. Tre i pilastri su cui si fonda il ragionamento di Novak: il realismo, cioè la necessità di “guardare con crudezza ai trend ambientali, in modo non politicizzato e indipendente”, cancellando quella sorta di “deificazione pagana” della natura che rappresenta il “grande psicodramma messo in scena dal movimento ambientalista moderno”. La libertà, perché solo così la cittadinanza viene messa nella condizione di scegliere liberamente e si calcolano senza interferenze i costi e i benefici delle azioni umane (i mercati, quindi, dovrebbero funzionare con incentivi positivi e negativi, commisurati all’interesse dell’ambiente e delle persone, ossia del bene comune). Infine, la lotta alla povertà perché solo con sistemi politici adeguati e istituzioni idonee l’uomo ha la libertà di essere creativo e di poter decidere il proprio destino, lottando per la sopravvivenza. La “global prosperity”, appunto.