Pubblichiamo il testo dell’intervento del vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello al convegno di studi sul tema “Partecipazione, crescita, sviluppo: una nuova via per l’Italia” promosso dal gruppo parlamentare al Senato e al quale hanno preso parte, tra gli altri, il ministro del Welfare Sacconi e i leader di Cisl e Uil, Bonanni e Angeletti.
La partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese rappresenta uno dei capitoli del tema generale della democrazia economica. Ma la democrazia economica costituisce un filone di riflessione, storicamente guardato con grande sospetto sia dalla cultura socialista che da quella liberale.
Nella prospettiva socialista classica, soprattutto quella di ispirazione marxista ma anche quella socialista massimalista, la democrazia economica rappresentava infatti la negazione radicale dell’assunto di base della irriducibile contrapposizione fra capitale e lavoro nelle società capitaliste e nelle economie di mercato. Metteva perciò in discussione il nucleo fondamentale della prospettiva politica socialista. E, per questa ragione, la cultura socialista era portata a contestare in radice qualunque strumento che potesse ridurre il tasso di conflittualità sociale, e quindi politica, tra queste due polarità. In particolare qualunque forma di coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’impresa, qualunque strumento di partecipazione alla fase decisionale dell’impresa era ritenuto, se non altro, del tutto inefficace ed illusorio. Se l’impresa capitalista altro non è che la forma giuridica dello sfruttamento capitalistico in danno delle classi proletarie è evidente che qualunque strumento di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese altro non è che una forma di falsa coscienza, un espediente della classe dominante per cercare di rendere più accettabile un sistema di organizzazione economica basata sulla divisione fra capitale e lavoro.
Anche la cultura liberale classica, pur senza assumere un atteggiamento ideologico di rifiuto, ha spesso manifestato disinteresse quando non vera e propria diffidenza verso la tematica. Da un lato occorre considerare la convinzione, radicata nella cultura liberale, circa l’assoluta superiorità del libero mercato fra i sistemi di organizzazione economica. Convinzione sulla quale veniva fondato il carattere assoluto della libertà di iniziativa economica privata e l’intangibilità dei diritti proprietari. Nella prospettiva liberale l’organizzazione della moderna impresa capitalistica nella quale vi è coincidenza fra i soggetti che esercitano i cosiddetti diritti residuali di controllo (i decisori a monte della complessa catena decisionale dell’azienda) ed i soggetti sui quali gravano i c.d. rischi residuali di impresa (ovvero la remunerazione del capitale investito dopo la remunerazione di tutti gli altri fattori della produzione – lavoratori, fornitori, finanziatori non azionisti) è non solo paradigma di razionalità ed efficienza economica ma anche baluardo della libertà individuale.
E’ del resto innegabile che la stessa categoria della democrazia economica possieda un’intrinseca ambiguità semantica collegata alla sua potenziale contraddittorietà interna. Se il libero mercato è il luogo dove si esercita la libera iniziativa economica del singolo e la democrazia è il regno della decisione collettiva, assunta sulla base di procedure che ne garantiscano la reversibilità ma vincolante per tutti, come è possibile ricondurre ad unità concettuale questi due valori?
Il sospetto che storicamente ha accompagnato il dibattito sulla democrazia economica è stato quello di trovarsi di fronte a nient’altro se non ad uno strumento per realizzare un ordine economico collettivistico attraverso una strada più gradualistica e più pacifista rispetto a quella marxiana classica della rivoluzione proletaria. E che in alcuni dei suoi cantori così fosse è confermato dalla stessa storia di tale categoria, la cui origine viene fatta risalire a Fritz Naphtali e ad alcuni esponenti del sindacato tedesco ADGB che al congresso di Amburgo del 1928 proposero una strategia finalizzata alla costruzione del socialismo per mezzo della democratizzazione dell’economia.
Ma dopo che la storia ha sancito il declino (definitivo?) del mito della collettivizzazione dell’economia ed oggi la categoria della democrazia economica presenta una valenza semantica affatto differente. Nell’attuale contesto storico, la democrazia economica non si pone come alternativa politica al sistema di libero mercato e di libera iniziativa economica, non mira ad uno svuotamento dall’interno dell’impresa capitalista, ma al contrario può diventare uno strumento formidabile di rafforzamento delle economie libere. La premessa culturale dalla quale parte una concezione di democrazia economica correttamente intesa è che, nonostante quanto abbiano predicato le ideologie novecentesche socialiste, fra capitale e lavoro, fra imprenditore e lavoratore, fra capitalista e proletario non vi sia affatto un radicale conflitto di interessi ma al contrario via sia anche una convergenza di interessi. Entrambi sono legati alle vicende dell’impresa ed entrambi possono soffrire perdite o conseguire vantaggi sulla base della riuscita dell’impresa.
Certo, il grado di esposizione al rischio e le prospettive di remunerazione sono affatto differenti. Ma l’interesse fondamentale degli uni e degli altri converge verso il medesimo obiettivo. Pertanto se riusciremo a definire strumenti e prassi in grado di organizzare e sfruttare tale convergenza possiamo sperare di conseguire vantaggi su entrambi i versanti. Potremo sperare di rafforzare il sistema delle imprese aumentando la loro produttività, la loro stabilità, la loro capacità di non farsi schiacciare dallo short temism che rappresenta per loro un rischio sempre in agguato. Saremo in una parola riusciti ad elevare la loro competitività, che soprattutto in un contesto economico globalizzato, rappresenta una condizione essenziale di sopravivenza. Ma, sul versante dei lavoratori, saremo riusciti anche ad elevare il loro reddito in relazione alla redditività dell’impresa, a rafforzare la loro consapevolezza e la loro identità professionale, a sviluppare la loro formazione e la loro capacità.
E’ in questa prospettiva che a mio avviso occorre collocare il tema della partecipazione dei lavoratori alle imprese. Non certo strumento soft di collettivizzazione e nemmeno meccanismo di graduale trasformazione in senso cooperativistico dell’intero sistema imprenditoriale. Ma strumento per sviluppare quel clima di collaborazione e di fiducia reciproca essenziale per il migliore funzionamento del libero mercato o, in termini più generali citando la recente enciclica papale “Caritas in veritate”, strumento per dare corpo a “quell’anima antropologica ed etica che spinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale”.
Naturalmente occorre avere ben chiaro che il tema della partecipazione dei lavoratori alle imprese può essere declinato su diversi piani. Si può parlare di una partecipazione finanziaria nella misura in cui si punti ad un diretto coinvolgimento dei lavoratori in qualità di azionisti della società. Di una partecipazione economica nel caso in cui si definiscano strumenti che consentano al lavoratore di partecipare, con una parte della propria remunerazione ai risultati economici dell’impresa. O di partecipazione gestionale qualora si punti ad un coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa attraverso lo sviluppo di attività informative sulle strategie aziendali o la definizione di meccanismi che consentano ai lavoratori (attraverso propri rappresentanti) di prendere parte alla stessa fase decisionale. E’ evidente che tali forme di partecipazione possono, ed in una certa misura debbono, poi combinarsi in vario modo fra di loro.
Non è naturalmente mio compito entrare nel merito dei problemi che ciascuno di questi temi pone in concreto, sui quali si soffermeranno i relatori al nostro convegno, ben più qualificati sulla materia. Ritengo però opportuno svolgere alcune considerazioni politiche generali su un profilo che a mio avviso è di carattere dirimente. In particolare, ritengo opportuno sottolineare come sarebbe profondamente sbagliato pensare di affrontare il tema della partecipazione dei lavoratori alle imprese definendo, semmai per via legislativa, uno schema rigido al quale conformare la realtà delle imprese. Credo infatti che un efficiente sistema di partecipazione non possa che nascere in stretta aderenza con la singola realtà produttiva alla quale deve essere applicato. Basti pensare all’enorme varietà dimensionale delle nostre imprese.
Il tessuto produttivo italiano presenta un numero elevatissimo di piccole e medie imprese alle quali sarebbe profondamente sbagliato pensare di applicare un modello astratto di partecipazione definito semmai pensando alla realtà della grande impresa industriale. Oppure si pensi alla differenza fra le imprese in settori maturi, nelle quali minori sono i rischi ma anche minori le possibilità di crescita dei margini di guadagno, rispetto a quelle innovative, più rischiose e più volatili. O si pensi ancora alle profonde differenze territoriali del Paese.
Ma vi è di più. Un sistema di partecipazione è efficace se e nella misura in cui è voluto ed apprezzato da tutti i soggetti coinvolti, nella misura in cui quella convergenza di interessi che ne costituisce la premessa non solo esiste oggettivamente ma è anche riconosciuta soggettivamente da chi dovrà concretamente esercitare tale partecipazione. Ed è per questo motivo che la diffusione e il rafforzamento degli strumenti di partecipazione, di tutti i tipi di partecipazione che abbiamo sintetizzato, deve necessariamente trovare fondamento nell’iniziativa e nella determinazione delle parti coinvolte. La fonte della partecipazione dei lavoratori alle imprese non può che essere la contrattazione aziendale che sola può valutare se il contesto aziendale permette o addirittura richiede tale partecipazione e quale puntuale contenuto e forma partecipativa richieda. Da questo punto di vista la fase storica che attraversiamo si presenta senza dubbio favorevole.
L’accordo quadro del gennaio 2009 stipulato sotto la regia del ministro Sacconi con le parti sociali (CGIL esclusa), ha definito spazi importanti per l’operatività della contrattazione aziendale. Le vicende FIAT di questi mesi (prima Pomigliano, ora Mirafiori) hanno ulteriormente scalfito quella posizione di monopolio del contratto collettivo nazionale di lavoro che ha ingessato per anni il nostro sistema di relazioni industriali e che rendeva nei fatti poco praticabile qualunque strategia di sviluppo degli strumenti di partecipazione dei lavoratori.
In questa prospettiva, occorre perciò guardarsi dalla tentazione costruttivistica di inseguire il mito dell’onnipotenza del legislatore al quale affidare il compito di definire una volta per tutte il modello perfetto di partecipazione, sapendo che un modello perfetto non esiste e, quand’anche esistesse, sarebbe comunque fallimentare pensare di calarlo dall’alto. Ma non per questo non vi è alcuno spazio per un intervento legislativo di riforma. Lo spazio per il legislatore, coerentemente con il principio di sussidiarietà, che decliniamo ad ogni piè sospinto ma spesso dimentichiamo nella pratica parlamentare quotidiana, è quello di rimuovere gli ostacoli normativi, ad esempio di diritto societario o di diritto tributario, che attualmente ostacolano o disincentivano la diffusione di forme partecipative. Potrebbe sembrare un obiettivo minore. Ma conseguirlo sarebbe già metà dell’opera. L’altra metà spetta, e non può che spettare, agli attori protagonisti della vita dell’impresa.