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Magna Charta è un nome che tutti conoscono anche senza conoscerlo davvero. Uno di quei nomi che tutti hanno sentito almeno una volta anche senza avere particolare dimestichezza col racconto storico. Della storia rappresenta una svolta epocale, un evento simbolico, di quelli imprescindibili, degni di stare anche dentro il più raffazzonato compendio. E proprio per questo si presta a travisamenti, generalizzazioni e cattive interpretazioni. A cominciare dal dato esemplare di un documento redatto in latino e al tempo stesso perfettamente calato nel contesto dell’Inghilterra medioevale, a testimonianza dell’incontro tra due mondi, il greco-romano e il barbarico-cristiano, che sono alla base dell’Occidente moderno. Per finire con l’ostinata tendenza a sottovalutare un editto che, pur denunciando molti limiti e di fatto nessuna pretesa costituzionale, assume senza dubbio un rilievo unico. Molti luoghi comuni, nel senso dell’esagerazione e in quello dello svilimento, vanno sfatati.

La Magna Charta è innanzitutto un documento storico. Nella complicata matassa degli avvenimenti medioevali è il capo di un filo che svolge la storia del costituzionalismo moderno, l’inizio del processo che porta alla nascita delle moderne istituzioni statali. Con la Magna Charta l’Inghilterra esce dal medioevo fantastico e truculento di Beowulf, da quello nobile e idealizzato di King Arthur, da quello truce, autoritario e rigorosamente storico di Guglielmo il Conquistatore e dei Plantageneti, per intraprendere il lungo cammino della democrazia parlamentare. Il periodo, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, è quello immortalato dalla leggenda di Robin Hood e dall’Ivanhoe di Walter Scott: Enrico II il Plantageneto (dalla pianta di ginestra, genet in francese, che ne ornava lo stemma), re d’Inghilterra e signore feudale di mezza Francia, vuole rafforzare con ogni mezzo la sua autorità a scapito dei baroni e dell’ingombrante presenza della Chiesa. Nel 1164 emana le “costituzioni di Clarendon”, che riducono drasticamente l’autorità dei tribunali ecclesiastici sul suolo inglese, e più o meno contemporaneamente affida l’arcivescovado di Canterbury, la più importante carica ecclesiastica d’Inghilterra, al fido consigliere Thomas Becket, convinto così di sottomettere alla sua volontà la Chiesa inglese. Contro ogni previsione, però, Becket prende sul serio il nuovo ruolo: si converte, si trasforma da nobile gaudente in convinto difensore della fede e si schiera dalla parte della Chiesa. Il re è costretto a sbarazzarsene uccidendolo nella stessa cattedrale di Canterbury, con un atto sacrilego che suscita una dura condanna del papato, solo in parte alleviata dall’adesione alla terza crociata del figlio di Enrico, Riccardo Cuor di Leone. Né Riccardo né il successore, il fratello Giovanni Senza Terra, tramandato dall’iconografia come il modello del despota, rinunciano peraltro a proseguire l’accentramento del potere e a rafforzare la monarchia contro le pretese dei signori feudali. Giovanni specialmente fa di più: va allo scontro con la Chiesa, al punto di essere spogliato dei diritti sovrani sull’Inghilterra e doversi pubblicamente umiliare al cospetto del messo pontificio per vedersela restituire sotto forma di concessione papale; poi nel 1214 a Bouvines, in battaglia contro il re di Francia e Federico II di Svevia, perde tutti i possedimenti d’oltremanica della corona britannica.

E’ in questa circostanza che i baroni inglesi, sfruttando gli impacci di Giovanni, gli strappano la Charta Libertatum, che vincola l’esercizio del potere sovrano al rispetto di alcune prerogative dei nobili. Ogni tendenza a una concezione personalistica e patrimonialistica dello Stato è stroncata sul nascere: nella versione definitiva della Charta, parlando ai sudditi al plurale maiestatis, il re d’Inghilterra annuncia che “per la salvezza della nostra anima e di quelle dei nostri predecessori e successori, per l’esaltazione della Santa Chiesa e per la riforma del nostro regno, noi abbiamo dato e accordato, di nostra propria e buona volontà, agli arcivescovi, vescovi, abati, priori, conti, baroni, e a tutti del nostro regno, le libertà qui sotto specificate per essere da essi possedute nel nostro regno d’Inghilterra, in perpetuità”. Seguono una serie di disposizioni che sanciscono le prerogative della Chiesa; l’impegno della corona a non imporre servizi troppo onerosi ai feudatari (come corrispettivo della loro “libera dipendenza” dal potere regio) e a non spogliarli delle terre e delle rendite per debiti; le libertà della città di Londra e di “tutte le altre città, borghi e villaggi”; la proporzionalità tra pene e delitti; l’impegno a non emettere mandati d’arresto o condanne all’esilio prima di un regolare e tempestivo processo; l’unificazione dei pesi e delle misure; il diritto per i mercanti di qualsiasi nazionalità di entrare, uscire, soggiornare e circolare in Inghilterra per vendere e comprare merci “secondo le antiche e buone consuetudini”.

Rilette in chiave moderna potrebbero sembrare concessioni straordinarie e “avveniristiche”, ma in realtà la portata della Charta come documento storico non va esagerata. Con ogni probabilità i baroni inglesi non erano coscienti delle sue implicazioni “di lungo periodo” né avevano intenzione di dare inizio a un “nuovo corso”, destinato col tempo a ritorcersi contro di loro e a travolgerne il mondo. La Charta Libertatum è quello che si definisce una costituzione “ottriata”, concessa graziosamente da Giovanni Senza Terra sotto la pressione di eventi eccezionali per salvare la faccia e il regno. L’epiteto di “Magna” le verrà attribuito qualche anno più tardi, per distinguerla da un altro editto in materia di caccia emanato pressappoco nello stesso periodo. Eppure l’attributo denota in maniera chiara il carattere eccezionale di quello statuto: non si riferisce certamente alla lunghezza del documento, ma piuttosto al suo respiro, alla sua profondità. Diversamente da ogni altro editto, la Charta contiene le norme fondamentali su cui si basa una società “moderna”, che guarda al futuro oltre le tenebre e la confusione dell’età di mezzo. Non a caso resisterà ai ripetuti tentativi di abrogarla e verrà promulgata in maniera definitiva nel 1225 da Enrico III, successore di Giovanni Senza Terra. Le circostanze storiche e la malleabilità del common law, straordinariamente adatto ad evolversi coi tempi, faranno il resto.  

Al di là del suo valore storico, determinato e circoscritto, la Magna Charta è un brand, con un forte potere evocativo. E’ il simbolo del “contratto sociale” e di un’intera tradizione politica, il costituzionalismo liberale. E’ un’idea che richiama i valori fondanti dello Stato moderno: la sovranità della legge, il principio di legalità, la certezza del diritto, la difesa delle libertà individuali, il principio no taxation without representation e più in generale il diritto alla partecipazione politica e alla rappresentanza. E’ il “vaso di Pandora” da cui derivano, in forma più o meno diretta, alcuni principi-cardine della convivenza civile e della democrazia come si è sviluppata in Occidente; e altri insospettabili, decisamente più controversi anche se non meno attuali. La clausola 61, in particolare, enuncia il principio di legittima difesa, di autotutela contro gli eccessi e gli arbitrii di un potere pur legittimo.

Superato in Occidente dalla creazione di un sistema di tutela giurisdizionale del cittadino che sostituisce il ricorso alla violenza privata, torna in ballo, a volte drammaticamente, di fronte alle carenze vere o presunte di questo sistema. E’ un principio delicato, che nella sua interpretazione più corretta affonda le radici nel concetto di sacralità della persona, che sancisce il diritto sacrosanto di ogni essere umano ad esprimere la propria individualità e non essere schiacciato dal potere e trova il suo limite nel rispetto di leggi scritte, condivise e partecipate. E’ soprattutto un parametro per giudicare l’ira giusta, la disobbedienza e addirittura la ribellione legittima contro i poteri costituiti, in tutte le sue manifestazioni storiche: dalle grandi rivoluzioni dell’età moderna fino al movimento per i diritti civili dei neri americani, agli scontri di piazza Tienammen, alla protesta verde in Iran. A prescindere dalla forma di governo e dall’estensione dei diritti (diversi, e anche marcatamente, nelle varie fasi storiche) allora come oggi non era considerato accettabile uno Stato assolutistico e dispotico, che non rispettasse i patti coi cittadini e le prerogative inalienabili degli individui.

Osteggiata dalla Chiesa, dichiarata invalida da papa Innocenzo III, la Charta svela una contraddizione patente: l’incompatibilità di un potere che riflette la maestà divina, incondizionato e legibus solutus, con la dignità e la sacralità della persona umana. A questa ambiguità la prima “costituzione” moderna risponde affermando un principio di pluralismo, riempiendo seppur parzialmente il solco tra lo Stato e la società civile, innescando il meccanismo che porta i cittadini (allora uno sparuto gruppo di chierici e baroni, oggi la quasi totalità della popolazione) a sentirsi parte, soggetti del diritto statale e non più oggetti dell’arbitrio di un monarca assoluto. Per la prima volta il flusso di potere non si sviluppa più solo dall’alto verso il basso, ma anche in senso opposto: il Consiglio generale del Regno, istituito dalla Charta, è il primo embrione della Camera dei Lords e dell’intero parlamento inglese. Chiamato a svolgere funzione consultiva, a collaborare col sovrano nell’imposizione dei tributi, a raccogliere le petizioni del popolo, il Consiglio mira a far emergere e rappresentare tendenze e istanze della società civile.

Benché per alcuni si limiti a riaffermare consuetudini già di fatto esistenti tra il re e i nobili, la Charta rappresenta la prima manifestazione concreta dello “spirito collegiale” che attraversa tutta la storia inglese e si basa sul rapporto simbiotico tra corona e istituzioni rappresentative. E’ un rapporto di reciproco rispetto e convenienza: se i rappresentanti del popolo riconoscono alla monarchia un forte valore simbolico, il potere e il prestigio per garantire al paese una guida unitaria e governare le relazioni internazionali, la corona non considera il parlamento come un limite alla sua autorità, ma al contrario come uno strumento per renderla più efficiente legandola alla vita quotidiana dei sudditi/cittadini.

Più in generale il significato simbolico della Charta fa riferimento alla società come sistema di regole e valori basato sulla difesa e la promozione delle libertà individuali e della convivenza sociale (e dunque sul coordinamento dell’interesse di ciascuno con l’interesse di tutti), che a tutti consente di partecipare – in base alle competenze e ai talenti – alla definizione di un indirizzo comune, che accorda il primato allo strumento astratto e razionale della legge ma non rinuncia seguire la “bussola” della tradizione. Questa tradizione, che è richiamata a più riprese nella Charta e si traduce sul piano del common law nella dottrina del precedent, non significa cieca conservazione ma piuttosto legame costante con le radici: un legame nient’affatto statico, che va invece approfondito e vivificato alla luce delle circostanze del presente. Si tratta di uno schema di pensiero che va oltre le categorie di “progresso” e “conservazione” e ha a che fare piuttosto con i concetti di “identità” e “cultura”, “continuità” ed “evoluzione”. Ma tradizione vuol dire anche, a partire dalla Magna Charta, adesione costante a un “catechismo della libertà” che attraversa tutta la storia inglese, che si basa su pochi documenti espliciti e si perpetua quasi per una sorta di “trasmissione genetica”. Scoprire (o riscoprire) che le radici di questa concezione affondano nel Medioevo, sotto la coltre di eventi più appariscenti e meno duraturi, è un invito a riflettere sulle energie vitali e i fermenti nascosti delle “età di mezzo”.

Letture

Carlyle, R. W., Il pensiero politico medievale, Laterza, Bari, 1968.

Musca, G., La Magna Charta e le origini del parlamentarismo inglese, Messina, 1973

Shennan, J. H., Le origini dello Stato moderno in Europa, Il Mulino, Bologna, 1976.

Trevelyan, G. M., Storia d’Inghilterra, Garzanti, Milano, 1977.