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La ‘conversione’ della sinistra alla Patria e al Tricolore, lo scatto d’orgoglio che il centrodestra deve fare rivendicando ciò che storicamente gli appartiene, le parole di Napolitano, i fischi a Berlusconi e i distinguo della Lega. In mezzo, centocinquant’anni di storia passati ai raggi x da Gaetano Quagliariello, storico e vicepresidente dei senatori Pdl, che affronta i nodi ancora irrisolti del Risorgimento e gli effetti che si riverberarono sul Ventennio fascista fino al dopoguerra. E non solo.

Senatore Quagliariello, centocinquant’anni dopo l’Italia è fatta, ma gli italiani?

Affinché si formi un popolo che abbia sedimentato i principi liberali, a partire dal rispetto della libertà di cui ogni persona deve godere, oltre il moralismo e il pregiudizio, ma nel rispetto dello stato di diritto, c’è ancora molta strada da fare.

Secondo lei da cosa dipende questo ritardo?

Dipende anche dal modo in cui l’Italia è divenuta una. Dopo la giornata delle celebrazioni, il fatto che tutti si riconoscano in una condivisa idea di nazione, che considerino la patria un principio unificante, sembrerebbe quasi scontato. E invece non è così.

Perché?

Ripeto: dipende da come si è fatta l’Italia e dai riflessi che questa vicenda ha avuto sugli italiani. Le parole del Presidente Napolitano hanno certificato un dato che troppo a lungo non è stato affatto scontato: il Risorgimento e il suo coronamento nel processo di unificazione sono stati un fatto positivo. Per molto tempo, invece, soprattutto a sinistra, si è pensato al Risorgimento come al peccato d’origine della nostra storia nazionale. Proprio da qui ha tratto origine quella corrente storiografica che Rosario Romeo ha sintetizzato nella formula “storiografia della disfatta”.

E oggi, questa corrente culturale è ancora così forte?

Oggi mi sembra che, almeno nel senso comune, questa corrente intellettuale un tempo potentissima, che aveva eletto suoi numi tutelari uomini come Gramsci, Gobetti, Dorso, sia declinante. Noto, piuttosto, altri due pericoli che potrebbero derivare come diretta conseguenza da un declino troppo repentino e perciò acritico.

Quali?

Il primo è che dietro un’affermazione assolutamente corretta si nasconda la volontà di non confrontarsi con il nodo del 1861 e dei decenni che seguirono. E’ vero, infatti, che il sentimento di italianità è molto più antico della nostra storia nazionale, come è stato tante volte ripetuto in questi giorni, ma è altrettanto vero che poi questo sentimento diede luogo alla corrispondenza tra una nazione e uno stato in condizioni storiche peculiari. Ed è su questo processo che, anzitutto, è necessario dare un giudizio.

E il secondo pericolo?

Non vorrei che questo giudizio rimanga scontato, anche se con un segno differente da quello del passato recente. Fino a poco tempo fa nella storiografia, fatta salva una corrente minoritaria, era dato per assodato che il Risorgimento fosse quanto meno un processo incompiuto, se non negativo. Il mio timore è che ora, invece, si dia per scontata la positività di questo processo per non confrontarsi con i nodi che esso ancora oggi ci propone.

Come si sciolgono i nodi rimasti irrisolti?

Non è facile scioglierli del tutto, perché il Risorgimento è una specie di “miracolo storico” che evidenzia quanto la risorsa politica possa essere importante. Le condizioni internazionali di allora erano avverse come pure le condizioni territoriali interne, e le forze risorgimentali erano solcate da divisioni sia di carattere istituzionale, sia di carattere politico. Mazzini era un repubblicano centralista, Cavour un monarchico autonomista in competizione interna con il re affinché la monarchia assumesse una torsione parlamentare. Per non parlare di Cattaneo che era un federalista. E da un punto di vista politico, la corrente democratica e la corrente liberale avevano più punti di rottura che non punti di contatto. Infine, la questione cattolica si era fatta drammatica dopo che l’assassinio di Pellegrino Rossi seguito all’apertura riformista di Pio IX aveva convinto il Pontefice che quella linea aveva insito il rischio, fortissimo, di sfociare nella rivoluzione, mettendo a repentaglio la sorte stessa della Chiesa.

Ma da tutto questo che sintesi politico-culturale se ne può trarre, oltre le incredibili difficoltà politiche contingenti?

Schematicamente si può sostenere che tra quanti hanno fatto l’Italia e si apprestavamo a fare gli italiani esistevano almeno due idee di nazione molto differenti tra loro. Si potrebbe parlare di nazione di Cavour e nazione di Mazzini. La prima era empirica e liberale, l’altra idealista; una aveva il suo principio ispiratore nella persona e nella sua libertà, l’altra nell’idea di comunità; una riteneva che il processo risorgimentale fosse un risultato da consolidare ogni giorno con pazienza, l’altra che potesse essere la premessa di un nuovo protagonismo dell’Italia sullo scenario internazionale. Insomma, l’idea di nazione che ispirava gli unitari non era affatto unitaria. E la situazione si complicò alla fine dell’Ottocento, quando sulla scena politica comparve un’altra forza che collocava il suo principio di fondo fuori dalla nazione, in un internazionalismo classista: il socialismo.

Quali furono le conseguenze?

Questo processo si innestò in un profondo mutamento politico-culturale in atto in Europa e portò a una radicalizzazione dello scontro, con la conseguenza che alcuni seguaci della nazione si fecero nazionalisti anche per potersi contrapporre con più forza agli internazionalisti. In tale dinamica prevalsero i seguaci di Mazzini, mentre Cavour e i suoi seguaci, veri artefici del processo unitario, subirono una prima eclissi.

Una storia tutta interna all’Italia liberale?

 Non solo. Certamente se non si rintraccia questo filo non si capisce per quale motivo il mondo liberale si spaccò in corrispondenza di quell’evento eccezionale che fu la prima guerra mondiale. Per comprenderlo, basta guardare a cosa avvenne dopo il conflitto nel “partito dei combattenti” che Gramsci definì nei “Quaderni” il primo partito di massa della borghesia. Quel partito, tutto intero, riteneva che la Grande Guerra, con la distruzione dell’impero austro-ungarico, rappresentasse anche il coronamento del processo risorgimentale. Poi, però, emergevano le divisioni: una parte minoritaria ritenne che sui campi di battaglia avesse vinto l’Italia di Cavour e si diede simboli di pace come l’aratro o la scala che veicolava l’idea di un’ascesa graduale; la maggioranza, invece, privilegiò l’Italia di Mazzini e si effigiò con l’aquila, simbolo di potenza.

Siamo, però, ancora nei confini dell’Italia liberale…

Bisogna spingersi oltre, perché rintracciare quel filo serve anche a comprendere il motivo per cui il fascismo potette vincere anche in nome della nazione abbandonata e, soprattutto, serve a non ignorare la continuità che si stabilì tra il Risorgimento e il Fascismo, proprio nel nome di un Mazzini riveduto, corretto e, se si vuole, strumentalizzato. Sicché, non è vero che il Fascismo fu un anti-Risorgimento, come pure è stato autorevolmente affermato: il fascismo fu l’antitesi solo di una parte del Risorgimento, quella liberale ed empirista di Cavour.

Nel suo intervento il presidente della Repubblica ha detto che l’idea di patria rinasce dopo la seconda guerra mondiale e grazie alla Resistenza. Lei è uno storico, condivide?

Per sgombrare il campo da ogni incomprensione, dico chiaramente che il mio giudizio sul discorso di Napolitano è assolutamente positivo. Si è trattato di un intervento non banale, né di circostanza e, soprattutto, inclusivo. Tuttavia, dal punto di vista storico, il passaggio al quale lei si riferisce è quello che mi ha lasciato più perplesso.

Per quale motivo?

Per tre ragioni. Il Presidente Napolitano non ha trattato il fenomeno resistenziale con lo stesso distacco critico riservato al Risorgimento. Non ha citato il ruolo degli alleati e in particolare degli americani nella liberazione dell’Italia accreditando, di fatto, l’idea che a liberarci siano stati i partigiani: cosa storicamente non vera. Infine, non si è confrontato con l’8 settembre e con il nodo storico di quale fine abbia fatto la patria in quell’occasione. Non sono tra quelli che ritengono i partiti colpevoli di aver voluto fondare una loro egemonia in luogo di quell’idea di nazione risorgimentale che fino ad allora, comunque, aveva retto. Non lo penso, proprio perché l’8 settembre vi fu un collasso generale della patria e della nazione, e i partiti si trovarono a svolgere un ruolo di supplenza – o se si preferisce di tutorship – sollecitato da cittadini rimasti senza più punti di riferimento, neppure simbolici. Ciò non toglie che allora si stabilì l’egemonia di forze politiche estranee alla temperie risorgimentale – democristiani, socialisti e comunisti – o che al più la recuperavano storicisticamente non potendo, per questo, stravolgere il loro dna. Anche per questa ragione, nella prima parte della storia repubblicana, l’idea di patria ha continuato a declinare.

Forse però, anche perché consapevole di quanto lei afferma, il Presidente Napolitano parla di patriottismo costituzionale…

E’ una categoria che non mi ha mai convinto. Sin dal Medioevo l’idea di Costituzione dà una sostanza positiva a principi che attengono alla dignità della persona umana e, per questo, debbono considerarsi non negoziabili. E si fonda su identità già sedimentate. Se non esistessero tali presupposti, non si sarebbe mai stabilita la distinzione tra la sfera della iurisdictio e quella del gubernaculum, che si trova alla base del costituzionalismo antico ed è il presupposto dell’idea stessa di “legge fondamentale”. La Costituzione, insomma, non può essere considerata un prodotto di sostituzione, né in Europa né in Italia. Quella italiana del 1948, in particolare, ha rappresentato il risultato di un mirabile e alto compromesso politico, siglato in temperie difficili e incerte. Ed è proprio il rispetto che si deve alla sua genesi storica che dovrebbe sconsigliare di trasformarla in un mito intangibile. Come tutti i compromessi, è perfettibile e gli stessi Padri costituenti si augurarono che le generazioni successive lo perfezionassero.

Lei ha evocato prima l’estraneità del partito cattolico alla temperie risorgimentale: come legge le parole del cardinal Bagnasco sull’unità d’Italia e dunque la posizione della Chiesa?

Quel che è accaduto in questi giorni, dal messaggio del Papa all’intervista di Bagnasco, al Te deum nel giorno della celebrazione solenne, fino alla presenza dei cardinali Bagnasco e Bertone nella tribuna di Montecitorio, ha determinato l’effetto, anche simbolico, di spazzar via definitivamente ogni seppur minimo residuo della “Questione romana”. Penso che a questo punto si possa definitivamente differenziare il ruolo del Cristianesimo dal ruolo della Chiesa.

Dove sta la linea di demarcazione?

I valori del Cristianesimo furono tra i principi ispiratori del processo unitario; hanno contribuito a formarne la cornice. La Chiesa, invece, per ragioni storiche comprensibili, ne fu avversaria e la conciliazione non avvenne nel ’29: sarebbe concedere troppo, in questo caso, al fascismo. In realtà, ci fu una conciliazione silenziosa che partì dalla base, entrò lentamente nelle istituzioni e si compì definitivamente quando i cattolici italiani durante la prima guerra mondiale andarono a morire per il Tricolore. Il Concordato fu la conseguenza obbligata di questo processo: non a caso la prima bozza risale al 1919 e fu predisposta dal Presidente del Consiglio di allora, Vittorio Emanuele Orlando, liberale e massone. Queste consapevolezze credo che oggi possano trasformarsi in senso comune e consentire alla Chiesa di confrontarsi anche con il 1861 e con la Questione romana, senza complessi. E senza bisogno di annegare queste date in un ‘processo più ampio’. 

C’è un altro aspetto controverso di queste celebrazioni: La Russa e Alemanno da una vita aspettavano di celebrare sull’Altare della Patria il compleanno dell’Italia. E invece hanno dovuto subire contestazioni. Colpa del momento politicamente difficile o colpa dei distinguo della Lega?

L’atteggiamento politico della Lega nei confronti di queste celebrazioni mi ha ricordato la doppiezza del vecchio partito comunista: partito di lotta e di governo. I parlamentari sono andati sul territorio “a lottare”; Bossi, Calderoli e Maroni erano in Parlamento ad assolvere la loro funzione di governo. Tuttavia, il PdL non può avere complessi a causa del suo rapporto con la Lega. Per quanto detto fin qui, la storia di questi centocinquant’anni è la storia di una paziente e non scontata opera d’inclusione all’interno dello Stato e della nazione. E se la Lega è passata da posizioni separatiste a iscrivere il suo percorso nel solco di un cambiamento istituzionale condiviso, il merito va innanzitutto a Berlusconi e al centrodestra.

Napolitano, in effetti, ha tracciato la via nel solco del federalismo e tuttavia dalle sue parole è sembrato cogliere un senso di incertezza sulle prospettive e in particolare sugli effetti della riforma. Lei che ne pensa?

Il presidente Napolitano ha fatto bene a sdoganare Cattaneo, alfiere dello risorgimento federalista, sconfitto ma dotato di incredibile modernità intellettuale per quel tempo. E credo non sia casuale neppure la citazione riservata a Gaetano Salvemini: un federalista meridionale convertitosi attraverso l’approfondimento storico alle ragioni dell’unità. Questi riferimenti antichi evidenziano, tra l’altro, la peculiarità del processo federalista italiano di oggi.

Cioè?
Esso non è originario. Non descrive una piramide rovesciata per cui entità dotate di sovranità si privano volontariamente di una parte di essa per devolverla a un centro comune. In Italia stiamo dando vita al processo inverso: dal vertice della piramide si devolve verso la base. Questo rende tutto più difficile e dunque è comprensibile il richiamo alla cautela. Per me bisogna fare attenzione innanzi tutto a non smarrire, sulla scorta di un malinteso principio di solidarietà, la vera caratteristica del federalismo, che o è competitivo o non è. Bisogna certamente mettere tutti nelle condizioni di poter competere, ma vi è un momento nel quale la dinamica competitiva non si può più eludere.

Il richiamo al Sud è stato uno dei passaggi centrali dell’intervento del capo dello Stato. Ma come si fa a non scivolare sulla retorica e a fare ciò che è rimasto incompiuto per centocinquant’anni?

Non ho colto un eccesso di retorica nemmeno nella parte dedicata al Sud. Il Presidente della Repubblica non ha dimenticato le pagine violente – direi persino truci – che il Mezzogiorno si trovò a vivere negli anni post-unitari, in particolare a causa della lotta che lo Stato unitario sviluppò contro il brigantaggio. Ma perché un processo storico complesso si possa dire positivo, non è necessario che “tutto torni”, che tutto sia andato per il meglio: questo lo credono soltanto i moralisti o i manichei. È sufficiente che gli aspetti positivi siano prevalenti su quelli negativi e, nonostante tutto, penso che per il Sud l’unità sia stata un fatto positivo. Oggi è di gran moda affermare che il Sud ci perse, ma se torniamo alle pagine dei grandi conservatori meridionali – Pasquale Turiello, Giustino Fortunato, Benedetto Croce – scopriamo quali erano le condizioni civili nel Sud di quei tempi: si viveva poco e male, si mangiava poco, ci si ammalava molto e si era ignoranti. Nonostante ciò, l’unità ha consentito al Sud di non perdere il treno del processo di civilizzazione europeo. Poi, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento e dalla svolta protezionistica, le forbici si sono allargate e sono nati i problemi. Ma questa è un’altra storia che andrebbe ricostruita con calma e serietà.

Ma ora, in concreto, cosa state facendo per il Sud?

Solo se si considera ciò che di positivo l’unità ha significato per il Sud si può sostenere, come noi del centrodestra dobbiamo fare, che il Meridione deve diventare una grande questione nazionale, uscendo da quel particolarismo che negli ultimi anni si è affermato grazie soprattutto alla sinistra – ricordo le “cento idee di Catania 1999”, o le teorizzazioni sulle specificità e i particolarismi dei Sud affermatesi all’ombra del cosiddetto “pensiero meridiano” – e che ha fatto fare al meridione solo passi indietro.

Non ha risposto alla domanda: cosa intendete fare?
Bisogna far ritorno all’impostazione originaria della Cassa per il Mezzogiorno che caratterizzò i suoi primi sette anni di vita, prima della degenerazione. In quella prima fase i finanziamenti venivano veicolati verso obiettivi strategici e lo Stato, senza erogazioni a pioggia, faceva lo Stato. Questa mi sembra essere la stessa filosofia del Piano per il Sud presentato per il governo dal ministro Fitto: ora, la scommessa è mettere in pratica gli interventi strategici che esso contiene.

Torniamo alle celebrazioni dell’unità d’Italia. Secondo alcuni osservatori e le analisi dei quotidiani vicini al centrosinistra le ovazioni per Napolitano che Il Mattino definisce ‘il nuovo re d’Italia’ e i fischi a Berlusconi certificano che la festa è riuscita perché gli italiani tra il presidente della Repubblica e il premier hanno scelto il primo confermando la fine politica del secondo. Cosa risponde?

Non si è trattato di un referendum tra il capo dello Stato e il Premier. Vista la natura della celebrazione, era scontato e anche corretto che al primo fosse riservato uno spazio maggiore. Quanto ai fischi, troppo enfatizzati, la democrazia è anche una grande prova di umiltà. In alcune occasioni è necessario saper subire con stile le manifestazioni di minoranze rumorose. Il tempo, quasi sempre, è galantuomo. E credo che verrà il giorno in cui il contributo del Premier all’unità del Paese verrà riconosciuto anche dai suoi avversari odierni. Non solo per l’apporto inclusivo dato con la Lega. Ma anche perché nel 1994 l’Italia era un Paese politicamente segmentato, incline alla frammentazione. Berlusconi è da oltre un quindicennio un grande fattore di unificazione: per la sua parte ma anche per l’attuale opposizione.

Eppure la sinistra ha messo il cappello politico sul 150esimo esaltando la patria e il tricolore, quando fino agli anni Ottanta era una bestemmia per gli eredi del comunismo solo pronunciare la parola patria. Perché il centrodestra non è stato capace di affrontare da protagonista questa ricorrenza?

Il fatto che la patria sia un elemento inclusivo e che alla fine abbia coinvolto anche coloro i quali, per una parte della loro vita politica, avevano ritenuto che la loro “grande patria” fosse altrove, non è di per sé un male. Soprattutto quando le “conversioni” appaiono profonde e meditate. Quel che dà fastidio, invece, sono i riflessi condizionati, determinati dal fatto che la sinistra ha detenuto troppo a lungo un’egemonia culturale in questo Paese. Quell’egemonia in fondo ce l’ha ancora, anche se ormai è un involucro che è costretta a riempire con contenuti di altri perché i suoi sono sconfitti o sfilacciati. Gran parte della sinistra tutto ciò lo fa inconsapevolmente, sfruttando solo la convenienza del momento.

C’è un esempio che può esemplificare questa situazione?

Gli applausi al Benigni di Sanremo, che con l’esegesi dell’inno di Mameli ha divulgato concetti che fino a poco tempo fa appartenevano a una sparuta compagnia di conservatori. Io penso che questa debolezza del pensiero dei nostri avversari vada sfruttata. Ma lo si può fare solo se il centrodestra si rende conto di quello che sta avvenendo e – senza complessi d’inferiorità e senza chiedere permesso alla sinistra – rivendica ciò che storicamente gli appartiene.