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Anche Ciro Sbailòprofessore di Diritto pubblico comparato all’Università Kore di Enna e membro del nostro Comitato scientifico, ha voluto rispondere all’articolo “Il tempo e gli spazi delle riforme” di Gaetano Quagliariello. Di seguito è possibile leggere il testo.

1. Gaetano Quagliariello invita a riaprire il dibattito sulle riforme costituzionali, in una prospettiva “sistemica”. La posta in gioco, evidentemente, è alta. Attraverso la riforma del Senato, del Titolo V e della legge elettorale, si mette mano alla forma di governo. Quagliariello rileva come lo sviluppo di quest’ultima sia essenziale per il destino della stessa politica, in un mondo nel quale provo a riassumere –  la società tende a produrre le proprie istanze in maniera asimmetrica rispetto ai meccanismi di razionalizzazione rappresentativa statuale e a volte in conflitto con questi ultimi. Detto in altri termini: come chiedere a un cittadino, a unimpresa o a una comunità di affidarsi alla rappresentanza politica e alle istituzioni, visto che, a ogni livello della vita pubblica, sta venendo meno (cito David Held) la «congruenza e simmetria tra agenti decisori e ambiti in cui le decisioni hanno effetto»? Ora, senza entrare nel merito delle analisi dei processi, cosiddetti, di depoliticizzazione, da alcuni visti come linizio del declino della democrazia, possiamo dire che gli spazi e i tempi della politica vanno, per l’appunto, ripensati, come suggerisce Quagliariello, il quale stigmatizza, a tale riguardo, il mancato sviluppo del principio di sussidiarietà orizzontale. Concordo pienamente. A quel principio è stata data la forma di appendice alla definizione dei rapporti tra gli enti territoriali, per giunta con una formula più ambigua che vaga. Probabilmente varrebbe la pena, qui, riflettere sull’opportunità o meno di limitare programmaticamente la revisione costituzionale alla Seconda parte della Costituzione. Ma su questo tema, ora, non sembrerebbe il caso di insistere, per ragioni, appunto, di “tempo” e di “spazio”. 

2. Nel raccogliere, dunque, l’invito del presidente della Fondazione, mi concentrerò, in questa breve nota, su forma di governo e legge elettorale. 

Ritengo opportuno muovere dal progetto posto a base del cosiddetto “combinato disposto” tra il disegno di legge costituzionale (AC 2613-A-XVII) e l’Italicum (A. C. 3-bis-B-XVII). Tale progetto suona più o meno così: rafforzare il potere del vertice dell’Esecutivo, per rendere più fluidi i processi decisionali, inserendo, nel contempo, adeguati contrappesi. Le mie osservazioni, nel merito, possono essere sintetizzate in tre punti: a) la presidenzializzazione dell’Esecutivo non è abbastanza esplicita; b) il sistema dei contrappesi non è del tutto adeguato;  c) l’Italicum è bruttino, ma se si lavora sui punti (a) e (b) può fare una buona riuscita.

3. In Italia, come in molte altre democrazie occidentali, si tratta di procedere a una razionalizzazione della presidenzializzazione (inevitabile, per ragioni succintamente richiamate in premessa) dell’Esecutivo. Ma il testo del disegno di legge costituzionale prefigura, più che altro, un rafforzamento della maggioranza (specie se letto in coordinamento con il progetto di legge di riforma del sistema di elezione della Camera dei Deputati). Il rafforzamento del vertice dell’Esecutivo è, nella sostanza, affidato alla nuova disciplina relativa all’approvazione dei disegni di legge (art. 73 Cost., art. 13 del ddl), con lintroduzione del cloture vote. Mancano, invece, due elementi caratterizzanti la forma di governo parlamentare a prevalenza del Governo, tra loro, come si diceva, strettamente collegati: il riconoscimento, al primo ministro, di un peso decisivo in merito sia alla durata della Legislatura sia alla composizione del governo, da una parte, e lancoraggio (che in un sistema di civil law deve essere esplicito, a differenza di quanto accade nel Regno Unito) della nomina del vertice dell’Esecutivo ai risultati elettorali. Sui due punti esistono dei precedenti (v. riforma Calderoli [AS 2554-D XIV] e bozza Violante [A.C. 553 e abb.-A XV]).  

4. Per quel che riguarda i contrappesi, si coglie un progetto coerente, con alcuni vulnera. 

Abbiamo contrappesi sia interni sia esterni alle dinamiche tra i pubblici poteri. Trovo metodologicamente utile lavorare a questa distinzione, in un periodo segnato dalla suddetta crisi dello spazio politico. Prendo, dunque, in prestito limmagine pasoliniana del Palazzo, diventata ormai formidabile strumento di polemica antipolitica, per distinguere tra contrappesi intramoenia e contrappesi extramoenia. 

In merito ai contrappesi intramoenia, il più significativo parrebbe essere quello del rafforzamento del potere di rinvio delle leggi da parte del Presidente alle Camere (art. 74 Cost., art. 14 del ddl), se non fosse che il suddetto “combinato disposto” tra legge elettorale dà alla maggioranza la possibilità di eleggere un Capo dello Stato senza il concorso delle opposizioni (al quarto scrutinio è sufficiente una manciata di voti). Non è un limite da poco. Se basta una legge ordinaria, quale quella elettorale, per rendere inefficace una norma di garanzia, vuol dire che c’è qualcosa che non va nel sistema. Volendo restare nellambito dellelezione parlamentare del Capo dello Stato, a mio avviso,potrebbe prendersi in considerazione l’ipotesi del doppio turno, con una clausola alla greca: se il Parlamento non trova un accordo entro un determinato lasso di tempo, viene sciolto. 

Altri importanti contrappesi intramoenia mi paiono essere, inoltre, sia la costituzionalizzazione dei «diritti delle minoranze parlamentari» (art. 74 Cost., art. 14 del ddl) sia il controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali (art. 73 Cost., art. 13 ddl). 

Anche qui, però, a parere di chi scrive,ci sarebbe da proporre qualche emendamento. 

Nel primo caso, sembrerebbe opportuna (in combinazione con un effettivo rafforzamento dell’Esecutivo, di cui sopra), una disciplina più stringente (v., anche qui, la riforma Calderoli). Perché non prendere il toro per le corna e parlare apertamente di diritti «dellopposizione» e non delle «minoranze»? Sarebbe uno strappo tremendo rispetto al passato, me ne rendo conto. Ma sarebbe, credo, anche un modo per mettere nella costituzione un contrappeso forte e stabile alla presidenzializzazione dell’Esecutivo.  

Nel secondo caso, non rilevo particolari problemi nel fatto che la Corte possa essere chiamata a pronunciarsi su una legge da essa stessa già dichiarata coerente con la Costituzione. Nessuna legge vive di vita propria e la sua collocazione, rispetto al parametro di giudizio usato dalla Corte, può mutare col mutare del quadro normativo (v. ad esempio il confronto tra Corte cost.  54/1986 e Corte cost. 238/1996). Inoltre per quel che riguarda specificamente la legge elettorale (cito Salvatore Curreri) «visto che la Corte, con la sentenza 1/2014, ha aperto la porta al sindacato di costituzionalità sulle leggi elettorali, adesso sta alla Corte stessa chiarire il senso ed i limiti di tale possibile sindacato». È certo, comunque, che, con una riforma di tal genere, l’incertezza in materia di disciplina elettorale si ridurrà al minimo. Coerenza vorrebbe, tuttavia, che, percorrendo in senso inverso il cammino del legislatore costituzionale francese (con un occhio all’esperienza lusitana, per quel che riguarda il ruolo del Capo dello Stato), si estendesse il controllo preventivo a tutte le altre discipline relative alle regole del gioco(regolamenti parlamentari compresi).

Tra i contrappesi extramoenia meritano, ovviamente, particolare attenzione le proposte relative, rispettivamente, al rafforzamento dell’iniziativa popolare in materia legislativa, da una parte, e al referendum propositivo, con il coinvolgimento dei cosiddetti “corpi intermedi”, dall’altro (art. 71 Cost., 11 del ddl). Emerge, qui, però, unasimmetria che pare non ragionevole. L’iniziativa di legge popolare trova già nel testo qui proposto una propria, compiuta, disciplina. Perché non si fa lo stesso con il referendum propositivo, la cui disciplina, invece, è demandata al Legislatore costituzionale futuro? Certo, la materia è complessa, ma si rischia che il referendum propositivo rimanga a lungo sulla carta.

5. Veniamo, infine, alla legge elettorale. Poiché questo forum è destinato non solo a suscitare il confronto sull’attualità politica, ma anche – e, se ho ben capito, soprattutto – a raccogliere idee e riflessioni finalizzati ad alimentare il dibattito futuro sulle riforme di sistema, ritengo opportuno riproporre, qui, un’ipotesi metodologica, che abbozzai all’inizio dell’iter del disegno di legge elettorale (Camera dei Deputati, I Commissione Affari costituzionali, 17 gennaio 2014).  Per esigenze di natura prevalentemente tassonomica, legate alla comparazione giuridica, mi sono trovato spesso a identificare due tipi fondamentali di distorsione maggioritaria, che definisco, in maniera del tutto convenzionale, rispettivamente, “naturale” e “artificiale”. La distinzione riguarda, ovviamente, non la distorsione in quanto tale, ma la sua genesi. La distorsione maggioritaria è “naturale” quando è descrivibile restando all’interno del processo elettorale, mentre è “artificiale” quando può essere descritta solo se l’osservatore ipotetico si colloca fuori dal processo elettorale. Ad esempio, la distorsione che si verifica nelle elezioni politiche spagnole avviene nel vivo delle dinamiche di voto, quale conseguenza della strutturazione territoriale di queste. Essa non è il frutto né di un “bonus” attribuito a urne chiuse, come avviene col sistema del premio di maggioranza, né della forzata (e, ovviamente, negoziata) convergenza dei soggetti politici minori su quelli maggiori, come avviene ad esempio nel doppio turno, sia esso aperto o chiuso. In linea di massima, ritengo il Majority bonus system (adottato da Italia, Grecia e San Marino, per le elezioni politiche, e dalla Francia per le elezioni regionali) sgraziato sul piano giuridico. Il premio viene attribuito, in maniera artificiosa, a freddo, al di fuori delle dinamiche del consenso politico. Detto in termini pratici, anche sulla scorta dell’esperienza del porcellum, ritengo che lattribuzione del premio di maggioranza ovvero la distorsione maggioritaria impressa a urne chiuse introduca elementi tossici nel sistema politico, con gravi effetti di delegittimazione degli stessi partiti di fronte all’opinione pubblica. Ad esempio, si possono studiare alleanze finalizzate esclusivamente a vincere il premio, al di fuori di ogni preoccupazione per la governabilità. AI limite, il premio di maggioranza può avere un senso ove si preveda una chiara disciplina pubblicistica dei partiti politici, che contempli al proprio interno qualhe limite alla libertà di mandato (la cui sacralizzazione, nel XXI secolo e in piena crisi della politica, pare veramente fuori luogo: ma anche questo è un altro discorso, sul quale speriamo si possa tornare).

6. Per queste ed altre ragioni, sottoposti alla Commissione un’ipotesi che può sembrare un po’ bizzarra, vale a dire la cosiddetta lista flessibile. La proposta, in ogni caso, muoveva dalla constatazione del fatto che tra gli aspetti più problematici del cosiddetto “porcellum” vi fosse la grande distanza esistente tra gli eletti e gli elettori. Il sistema della “lista flessibile” (adottato, ovviamente con diverse modalità, in vari Paesi europei, tra cui Austria, Norvegia, Svezia), infatti, permette all’elettore, a certe condizioni (ad esempio, a condizione che le modifiche siano condivise da una certa percentuale degli elettori di quel determinato partito), di modificare l’ordine di ista predisposta dal partito. 

La bizzarria della proposta si deve al fatto che essa non trova precedenti nella storia elettorale italiana. La soluzione adottata, con lItalicum, mi pare, tuttavia, non meno bizzarra. Le ragioni politiche sono chiarissime. Essa risponde a tre esigenze: a) garantire al primo partito, il PD, un sufficiente numero di seggi per governare; b) dare all’elettore la possibilità, comunque, di interagire con la formazione della classe parlamentare; c) permettere al secondo partito, che al tempo era Forza Italia, di selezionare un gruppo parlamentare compatto, scelto dai vertici. Ma queste esigenze potevano (possono?) essere soddisfatte anche per altra via. Bizzarria per bizzarria (perché neanche l’ltalicum trova precedenti nella storia dei sistemi elettorali, non solo in Italia, ma in Europa), si poteva lavorare a una combinazione tra il sistema spagnolo (che garantisce una forte distorsione maggioritaria e assicura un ragionevole controllo dei vertici sulla selezione della classe parlamentare) e la lista flessibile (che dà, comunque, all’elettore la possibilità di cambiare le carte in tavola, ove i vertici dei partiti abbiano fatto errori madornali). Mi fu obiettato che in questo modo, nelle zone dall’alta densità criminale, la malavita organizzata avrebbe fatto le sue campagne elettorali in negativo(“votate contro quel candidato”, “ribaltate quelle due candidature”). Chiedo: ma non è lo stesso (anzi, peggio) con il sistema delle preferenze, che consente ai vari gruppi di “pesarsi” in campagna elettorale e di “pesare”, nel loro insieme, rispetto all’interlocutore politico?

Insomma, l’Italicum mi pare bruttino. In fondo, però, si tratta di una legge che propone un determinato algoritmo per trasformare i voti in seggi. L’algoritmo non deve essere bello, ma funzionale. Se inserito nell’ambiente giusto, il brutto anatroccolo può rivelarsi un cigno. Fuor di metafora, ove si rimettesse mano alla riforma costituzionale, nel senso della esplicitazione del premierato e del rafforzamento dei contrappesi, l’Italicum potrebbe configurarsi come una legge accettabile, forse anche utile in questa fase, in termini schiettamente politici (di fatto,  sulla sua approvazione si gioca, in parte, il destino della svolta presidenzialistica del sistema). In ogni caso, siamo nell’ambito della legislazione ordinaria, per cui è facile intervenire in seguito per eventuali aggiustamenti, anche profondi. 

Se ci muoviamo in una prospettiva “sistemica”, allora il vero nodo da sciogliere riguarda la “natura” del nostro sistema dei pubblici poteri (un po’ come si cercò di fare in quella breve stagione della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, nel 1997).  Non è una scelta tecnica, evidentemente, ma totalmente politica. Per questo, in sé stessa, dal punto di vista di chi scrive, non può essere né buona né cattiva. L’importante, però, è che sia chiara, in forza del summenzionato principio dei checks and balances.  Ed è, probabilmente, alla chiarificazione del senso politico del progetto costituzionale che si dovrà lavorare nelle prossime settimane.  

Ciro Sbailò. È professore di Diritto pubblico comparato all’Università Kore di Enna, dove dirige il Centro Studi Kore sul Costituzionalismo Arabo e Islamico (SKAI). È docente in Discipline giuridiche anche alla Università Internazionale di Roma. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche in Italia e all’estero. I suoi volumi più recenti sono:Weimar. Un laboratorio per il costituzionalismo europeo (2007); La rappresentanza mite. Le seconde camere e il destino della democrazia parlamentare (2009); Il governo della Mezzaluna. Introduzione al Diritto islamico (2011); Principi sciaraitici e organizzazione dello spazio pubblico. Il caso egiziano (2012); Giustizia e costituzione. Note comparatistiche sulla transizione italiana (2010 e 2013); Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nord-africani (2015).

cirosbailo@gmail.com.

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