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Finalmente il dibattito sull’utero in affitto esce dai programmi televisivi del pomeriggio, dai “casi umani”, dai racconti in cui tutto è stato bellissimo e commovente, in cui la donna che ha prestato l’utero ha preso sì una cifra consistente, però la decisione è nata da pura generosità, e poi per i figli basta l’amore, insomma chi desidera un figlio ha diritto ad averlo. Con il no delle donne di “se non ora quando”, magari un po’ trainate dalle francesi, la situazione è cambiata. La sinistra è spiazzata, le sicurezze ideologiche vacillano, il senso comune, legato all’esperienza, si prende la sua rivincita. I figli non si comprano. Sì, i cattolici l’hanno detto fin dall’inizio, hanno provato a forare, con le stesse argomentazioni, il muro elastico dell’anticattolicamente corretto,  ma la discussione si apre solo quando sono le élite riconosciute ad esprimersi, e i manifestanti del 20 giugno (che élite non sono) possono dare fastidio ma non mettono in crisi nessuno.

Luisa Muraro parla, e liquida la questione con un tono sbrigativo, persino un po’ crudo: non esiste un diritto al figlio, “non tutto è disponibile all’essere umano”. L’accusa nei confronti della “cultura neoliberista” è brutale e mette a nudo le contraddizioni di chi è a favore. Perché il bello è che per la sinistra non c’è bestia nera più unanimemente individuata del liberismo, che è sempre, anche nelle sue versioni più timide, “selvaggio”. Eppure, quando la questione riguarda l’umano e non gli oggetti, quando tocca il corpo delle donne, le remore svaniscono, il nemico neoliberista viene riabilitato, ed Emanuele Trevi spiega che  si tratta solo di “un contratto tra esseri umani liberi e consapevoli”, senza minimamente considerare che molte forme di sfruttamento nel mondo si basano appunto su contratti liberi e consapevoli.

Chi non ricorda il delizioso film di De Sica (sceneggiatura di Zavattini), in cui il commendator Bausetti compra un occhio dal piccolo imprenditore in difficoltà (Sordi)? E perché, con la stessa logica, la legge dovrebbe vietare la compravendita di organi o anche parti di organi, che potrebbero tranquillamente essere acquistati senza rischi per la salute di chi li cede? Eppure la nostra normativa è rigorosissima: si preferisce sopportare che, nell’attesa del trapianto, i pazienti rischino conseguenze gravi, anche la morte, piuttosto che aprire a contratti “liberi e consapevoli” di compravendita di parti del corpo umano.

Le nuove forme di filiazione –e in particolare la maternità- sono invece ormai consegnate ai contratti, con relativi pagamenti e clausole capestro, come l’impossibilità di ripensarci. E’ il contratto, e non più la relazione tra persone, il fulcro della genitorialità nel Nuovo Mondo. Si compra, si vende, si paga, si stabiliscono penali e condizioni da rispettare, ci si affida a mediatori competenti, a biobanche; e come in tutte le forme di commercio si sceglie. Il prodotto deve essere garantito, deve rispettare criteri di qualità prefissati, altrimenti va scartato. E’ inevitabile che il figlio, in questo modo, tenda a diventare un oggetto, sia pure prezioso e desiderato. Più le carte, le firme, il denaro, acquistano un peso decisivo nella filiazione, più la relazione si appanna e diventa labile.

Si dice: basta l’amore, il legame genetico è poco importante. Ma la genitorialità va oltre l’amore, esige una responsabilità duratura, persino quando l’amore è cancellato, persino quando c’è inimicizia o estraneità. Essere padri, e ancor più essere madri, è qualcosa che ha a che fare con passioni e desideri che affondano nella corporeità, che impastano insieme biologia e cultura, natura e storia. La maternità è l’ultima relazione davvero inscindibile, “per sempre”, in un mondo di rapporti labili e precari, che si possono spezzare e interrompere in ogni momento. Cosa succede se trasformiamo il rapporto madre-figlio, e tutto il bagaglio di esperienza -persino di retorica- che lo ha accompagnato nei secoli, in qualcosa di radicalmente diverso, comprando l’ovocita da una donna, affittando l’utero da un’altra, e poi magari cancellando tutte e due le mamme, e consegnando il bimbo a un “padre sociale”? Sono domande che dobbiamo porre a noi stessi e alla politica, prima di votare il ddl Cirinnà, prima di stabilire per legge che per essere genitori basta un contratto.

Eugenia Roccella