di Daniele Trabucco e Michelangelo De Donà
Il dibattito politico di questi ultimi giorni sul presepe e sulle recite natalizie a carattere religioso nelle scuole induce alcune riflessioni sulla presenza o meno dei simboli della religione cattolica nello spazio pubblico e del rapporto di questi con quelli delle altre confessioni religiose. In particolare ci si deve interrogare se il principio di laicità dello Stato, che la Corte costituzionale ha definito nella sentenza n. 203/1989, e ribadito in pronunce successive, “principio supremo dell’ordinamento costituzionale”, imponga l’assoluta neutralità dello spazio pubblico, come sulla falsariga del modello francese, oppure se tolleri la presenza dei simboli e di quali.
La particolare attenzione riservata alla Chiesa cattolica, in virtù dell’art. 7, comma 1, Cost. che la definisce un ordine indipendente e sovrano, a differenza di quanto previsto per le confessioni acattoliche la cui libertà statuaria incontra il limite del non contrasto con l’ordinamento giuridico italiano, se è vero che non implica di per sé alcun obbligo di esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, è anche vero che certamente non lo vieta. Il simbolo della croce è simbolo passivo, la cui presenza silenziosa non assume alcuna valenza impositiva o preclusiva tale da determinare forme di indottrinamento. Questo aspetto è stato ribadito recentemente anche dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo con la nota sentenza del 18 marzo 2011: il crocifisso non impone né preclude alcun comportamento, commissivo o omissivo, tra cui anche l’espressione di altre fedi o convinzioni ideologiche. La posizione è stata criticata da quanti hanno ritenuto che proprio la dimensione passiva del simbolo, facendone venir meno la matrice identitaria, non ne giustificherebbe l’esposizione.
A noi pare che la critica al valore passivo del crocifisso muova da una prospettiva non condivisibile. Infatti, la passività del simbolo “è da mettere in relazione non al suo significato, che resta quello acquisito nel contesto sociale di riferimento, ma al suo impatto sugli alunni e sui loro genitori, che non potrebbero ritenersi lesi nella propria sfera giuridica dalla mera presenza di un simbolo religioso corrispondente alle tradizioni del paese (anche religiose), se non sulla base di un pregiudizio nei confronti di esse e/o della religione tout court” (Cavana). Secondo la giurisprudenza statunitense un passive symbol è tale, come la rappresentazione del presepe o la menorah ebraica, non perché privo di un significato o messaggio riconoscibile, ma perché non implica da parte del potenziale destinatario alcun atto anche implicito di adesione o di ossequio a esso, né manifesta, in quanto parte di una consolidata tradizione storica, lo specifico sostegno del governo a una particolare confessione o credo religioso. Il problema, allora, non è l’asserita lesione sul piano giuridico della libertà di coscienza, ma semmai se la presenza del crocifisso sacrifica il diritto degli altri a manifestare le proprie convinzioni religiose. Infatti, anche per coloro che professano altre fedi il simbolo è espressione collettiva di un diritto di libertà e come tale merita un riconoscimento pubblico; tuttavia, proprio perché la parità tra i culti sancita dall’art. 8 della nostra Costituzione non possiede una portata livellatrice, ma è in funzione delle libertà di cui tutti devono poter godere, sarà all’interno delle singole intese (le confessioni religiose, diverse dalla cattolica, possono stipularle con lo Stato) che si potranno trovare le soluzioni concordate per una “presenza pubblica” anche di altri simboli, mentre per le realtà confessionali senza intesa, sulla cui tutela la Corte ha ammesso il sindacato avente a parametro il principio di ragionevolezza, risulta oramai improcrastinabile una legge sulla libertà religiosa nella quale possa trovare spazio la risoluzione del problema.
La tesi qui sostenuta, secondo la quale in Costituzione vi sarebbero indicazioni a favore di una differenziazione di trattamento dei vari culti, è stata criticata in quanto interpretazione originalista della Carta costituzionale che trascura l’avvenuta revisione del Concordato, ove si è preso atto che non è più in vigore la norma, già contenuta nello Statuto Albertino del 1848, della religione cattolica quale religione di Stato. In realtà gli Accordi di Villa Madama del 1984, accordi che hanno condotto ad una revisione del Concordato del 1929, non hanno comportato il venir meno degli indici di indipendenza e sovranità della Chiesa cattolica che la Costituzione riconosce al comma 1 dell’art. 7. Ed è proprio questo riconoscimento che consente alla Chiesa di avere sul piano costituzionale un’organizzazione anche difforme dai principi ai quali si ispira lo Stato, ad esempio laddove la volontà del Romano Pontefice prevale sempre e comunque sull’eventuale volere contrario della maggioranza dei fedeli.
di Daniele Trabucco, Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto-Università degli Studi di Padova. Professore a contratto presso il Campus universitario Ciels e Michelangelo De Donà, Università degli Studi di Pavia