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[1] Fabio Menghini, economista industriale, insegna Strategia e Finanza nel Corso di Economia Finanziaria presso la Facoltà di Economia Giorgio Fuà di Ancona. È autore di numerose pubblicazioni tra cui: Disruptive Innovation: Economia e Cultura nell’era delle Start Up e FANGs, entrambi editi da goWar

 

 

Premessa

 

Ad alcuni mesi dal varo del Piano nazionale Industria 4.0 e agli inizi di una seppure ancora modesta ripresa dell’economia, viene da interrogarsi su quali dovrebbero essere i futuri programmi di azione per consentire un pieno rilancio dell’industria manifatturiera italiana.

Tale quesito è decisivo di fronte al cambiamento epocale avviato dall’applicazione di Internet ai processi industriali, che produrrà effetti strutturali sulla competitività delle imprese e del paese.

Cercheremo di offrire di seguito alcuni spunti per la riflessione partendo dalle strategie messe in atto dalla Germania in questo campo e successivamenteadottatedagli altri paesi europei.

Ci soffermeremo inoltre su alcune caratteristiche strutturali dell’industria manifatturiera italiana e infine sulle aree critiche che richiedono interventi di carattere non convenzionale da parte dello stato.

 

Il Successo Dell’Industria Manifatturiera Tedesca

 

La Germania sta attraversando una fase di solida crescita economica trainata dalla straordinaria performance della sua industria manifatturiera che è la quarta più grande del mondo alle spalle di Cina, U.S.A. e Giappone.

Il successo tedesco ha alle spalle un lungo itinerario con importanti tappe intermedie, tra queste l’impegno per la modernizzazione e l’integrazione della Germania dell’Este la riduzione del debito pubblico.

Nei tempi più recenti infine, l’export è cresciuto in modo impressionante: era il 33% del PIL nel 2000 (con l’Italia non distante, a quota 27%), è diventato il 52% nel 2012 (l’Italia, nello stesso periodo, aveva raggiunto il 30%).

Secondo molti osservatori le radici di tali risultati vanno individuate nella nascita dell’unione monetaria europea (1999) enell’euro. Una valuta “zavorrata” dai deboli sistemi economici dell’Europameridionale e diventataquindi assai più competitiva di quello che sarebbe stato il marco tedesco da solo, sui mercati internazionali.

Ciò ha consentito alla Germania direalizzare strategie aggressive di crescita al di fuori dei confini europei guadagnando quote di mercato soprattutto in U.S.A e in Cina.

Per farsi un’idea ancorché sommaria della dimensione di questo fenomeno, ci riferiamo qui all’ analisi condotta da Luigi Campiglio nel suo studio sulla “grande recessione europea”.[1]Come illustra questo autore, nel 2007, anno di inizio della crisi finanziaria, la bilancia commerciale intra UE della Germania aveva raggiunto il suo punto di picco.

A questo punto la rotta si inverte e inizia un declino considerevole scendendo: da 126 a 43 miliardi di Euro nel 2017 (ben80 miliardi di Euro in meno).

Nello stesso periodo l’interscambio extra UE della Germania passa da 72 miliardi del 2007 a 152 miliardi di Euro del 2013 (anche in tal caso segnando un delta – questa volta positivo –  di 80 miliardi di Euro).

Un po’ schematicamente forse, potremmo dire che l’industria manifatturiera tedesca ha in sostanza compiuto un vero e proprio switch Europa/Cina(entrata nel WTO nel 2011)/U.S.A. e che tale scelta le ha consentito di uscire dalla crisi del 2007 non solo indenne ma assai più rafforzata in tutti i suoi principali settori.

Naturalmente una mossa di questa ampiezza e dimensioni, assieme a parecchi benefici, ha portato anche delle conseguenze negative.

La prima, che non verrà esaminata in questo lavoro, riguarda l’impatto di tale strategia sugli altri paesi dell’Unione e in particolare su quelli del Sud Europa. Questi hanno visto drasticamente ridursi gli acquisti tedeschi mentre rimangono tuttora dipendenti dalla Germania per la fornitura di beni industriali e macchinari in particolare.

Inoltre, l’aver corrispondentemente aperto il mercato tedesco ai manufatti cinesi con destinazione il consumo di massa e le forniture per le aziende, ha favorito la creazione di una testa di ponte per l’invasione di prodotti cinesi nel restodell’Europa.

La seconda conseguenza dell’apertura alla Cinasta rischiando di colpire la Germania stessa e la vitalità della sua industria.

L’export cinese hainfatti iniziato a modificare la sua composizione e ad aumentare il valore aggiunto dei manufatti venduti, che ormai incorporano contenuti tecnologici via via crescenti. Si è così avviata un’invasione dei mercati in precedenza dominati dai prodotti tedeschi, prevalentemente quelli business to business.

Successivamente la Cina ha cominciato a diventare minacciosa anche nello stesso mercato interno tedesco, non solo per l’evoluzione dei suoi prodotti, ma anche per il cambio di passo compiuto dal governo di Pechino. Ci riferiamo alla politica aggressiva di investimenti all’estero per acquisire aziende che operano sulla frontiera tecnologica e non solo. In Germania sono state realizzate acquisizioni per circa 12 miliardi di dollari nel solo 2016[2]

Si profila in sostanza un rafforzamento di tipo strutturale della Cina (e dietro lei di altri paesi asiatici) che suggerisce alla Germania di correre urgentemente ai ripari.

Tanto più che non sembra rassicurante nemmeno quel che sta accadendo oltre oceano, in U.S.A. l’altro grande partner tedesco.

Fino a che i brillanti miliardari e inventori della Silicon Valley si sono limitati ai social network e all’elettronica di consumo (vedi Apple) la minaccia sembrava lontana ma ora lo è assai meno.

Sul futuro dell’auto si sta ormai lavorando più in U.S.A. che in Germania ma è nella Bassa Sassonia che ha sede il gruppo Wolksvagen, numero uno al mondo in termini di quote di mercato.

Le applicazioni di Microsoft, di Google (Android), il cloud di Amazon (AWS), tanto per fare degli esempi, si sono ormai diffuse in modo virale lungo tutto il sistema delle aziende mondiali, quello tedesco incluso.

Queste nuove tecnologie digitali sono ormai diventate delle infrastrutture strategiche attraverso cui possono essere veicolate sempre nuove applicazioni, di carattere proprietario.

La Germania si è resa conto che per difendere la propria industria manifatturiera è necessario una migrazione epocale al mondo digitale.

È nato così il piano Industry 4.0.

 

L’impatto di Internet sull’industria manifatturiera

 

Perdere questo passaggio infatti, danneggerebbe in forma irreversibile la forza competitiva della Germania, proviamo di seguito a capirne il perché.

Quella che è stata definita quarta rivoluzione industriale è un processo in atto da tempo e certamente inarrestabile. L’Internet of Things ha già applicazioni assai più estese di quanto si possa immaginare.

Esse coprono l’intero ciclo di produzione, dalla supplychain, integrando le attività dei fornitori, ai processi produttivi, fino alla logistica e ai servizi post vendita.

Le spesso citate global valuechainrappresentano nient’altro che il concatenamento di queste attività fuori dalle mura della fabbrica tradizionale e si estendono dalla fornitura al cliente finale.

Oggi tali processi includono un numero crescente di interlocutori e sono governati da macchine che scompongono gli ordini di lavorazione, si avvalgono di network assai ramificati di logistica, modificano le loro richieste in base ad algoritmi che tengono conto di tutte le fasi di produzione svolte contemporaneamente in decine, a volta centinaia di siti produttivi, dispersi world wide.

Tuttavia, se la posta in gioco fosse stata solo quella di mantenere o acquisire il controllo delle global valuechain, probabilmente la Germania non avrebbe avuto bisogno di un programma ad hoc, soprattutto, come vedremo, delle dimensionidi Industy 4.0.

Le aziende tedesche infatti, possono già contare un un’estesa rete di imprese fornitrici da cui fluiscono semilavorati e servizi. Si sarebbe trattato di realizzare un programma rapido ed efficace di applicazione delle nuove tecnologie digitali a sistemi già collaudati da tempo. Non molto di più.

Come già accaduto in molti altri settori, specie nel mondo dei beni rivolti al consumatore finale, assieme alle nuove tecnologie Internet porta con sé cambiamenti “disruptive” dei tradizionali business system.

Nell’industria, oltre all’Internet of Things di cui abbiamo appena parlato, l’impatto più rilevante sarà determinato dal passaggio dalle global vauechainalleweb platform.

Quest’ultime favoriscono la connessione e le transazioni tra differenti tipologie di operatori, connettendo domanda e offerta per facilitare lo scambio di beni e servizi.A differenza di quanto accade nelle catene del valore tradizionale, l’utente non ha bisogno di conoscere in anticipo chi è e dove è localizzato il suo fornitore, perché sarà quest’ultimo a connettersi allaweb plaform per offrire i propri prodotti.

Alla base del funzionamentodi queste piattaformevi è ciò che viene usualmente definito come “network effect”: mano a mano che il numero dei partecipanti si accresce la web plaform si arricchisce ed è in grado di generare nuovi servizi che attirano a loro volta utenti aggiuntivi secondo una spirale senza fine.

Naturalmente nella competizione tra leweb platform vince che sarà più in grado di sfruttare questi effetti cumulativi e non vi è posto sul mercato per molti player perché gli utenti vanno dove i benefici si accumulano, abbandonando gli altri.

Tendono così a modificarsi le tradizionali regole del gioco e della concorrenza.

Più che le economie di scala, tradizionale leva competitiva dei contesti tradizionali, conterà sempre di più l’ampiezza delle connessioni a cui si può accedere.

La vicinanza al cuore dellaweb plaform e ancora di più il suo controllo, diventano quindi dei fattori chiave: per decidere a chi dare accesso, stabilire che cosa produttori, acquirenti e concorrenti possono fare, come risolvere conflitti e divergenze di obiettivi e – last butnotleast – in che modo suddividere, tra i diversi partecipanti, il valore generato.

Delle principali 111 web platform censite da un recente studio, 55 sono localizzate in Cina, 49 in U.S.A. e solo una in Germania[3].

La Germania in altri termini potrebbe rischiare di trovarsi stretta tra la crescente competizione tecnologica di prodotto della Cina e lo strapotere dei monopoli americani di Internet (a cui però, nuovi player, cinesi in primo luogo, si stanno aggiungendo rapidamente).

Un rischio che semplici misure di carattere adattivo non servirebbero certo ad evitare.

 

Industry 4.0 per Consolidare una Leadership Mondiale

 

Per questo è stato messo a punto qualcosa di ben diverso.

Industry 4.0, annunciato nel 2011 e avviato un paio d’anni dopo, rappresentainfattiil programma più esteso ed ambizioso che sia stato messo a punto negli ultimi decennida un singolo paese, a sostegno dell’industria manifatturiera.

In esso èdelineata una “dualstrategy” volta a: 1) rafforzare la competitività del sistema tedesco agevolando una consistente integrazione dell’ICT nelle forme di produzione attuale e 2) sviluppare nuove competenze e prodotti nel mondo digitale, ponendosi come fornitore leaderin grado di agevolare il passaggio al digitale di altre aziende, settori, mercati stranieri.

Il governo tedesco ha istituzionalizzato il suo commitment a tale programma creando un tavolo di regia coordinato dai Ministeri dell’Economia e della Ricerca, che hanno riunito rappresentanti del mondo scientifico, dei sindacati e degli industriali.

L’orizzonte temporale di intervento è molto ampio, nel primo rapporto redatto dal comitato guida si definisce il 2030 come data verso cui lavorare per estendere all’intera economia e alla società gli effetti del piano.

Impegnative e complesse risultano d’altra parte le azioni da mettere in atto e prima ancora di esse si rende necessaria la creazione dei prerequisiti senza i quali nessun programma potrebbe essere implementato.

Innanzitutto la standardizzazione di sistemi, piattaforme, connessioni, protocolli e interfacce. Unica via per consentire alle aziende di comunicare tra loro, nel nuovo contesto dove l’interconnessione tra differenti realtà produttive rappresenta uno degli elementi fondanti. Esiste inoltre l’esigenza di disporre di risorse con skillspecialistici, sfida complessa, sia nella fase attuale che per il futuro. Le ulteriori condizioni di partenza individuate riguardano lo sviluppo di adeguati sistemi di sicurezza nella gestione dei dati e nella protezione del know-how e infine un nuovo framework legale.

Si stima che per l’implementazione iniziale del piano verranno investiti 40 miliardi di euro l’anno almeno fino al 2020[4], a questi si aggiungono quelli programmati dalle industrie tedesche, che si stimano attorno ai dieci miliardi di euro per i prossimi anni.

 

L’estensione Europea di Industry 4.0

 

La Commissione Europea ha sostenuto l’iniziativa tedesca incentivando la predisposizione di analoghi programmi negli altri paesi europei. Ha inoltre varato diverse iniziative di sostegno tra cui Horizon 2020 con ottanta miliardi di fondi disponibili fino al 2020 da investire in R&D e “DigitalizingEuropeanIndustry” destinato a sostenere piani di digitalinnovation e di sviluppo di un cloud europeo.

Il sostegno alla diffusione di Industry 4.0 nel contesto europeo sembra avere molto senso:

  • L’industria manifatturiera ha un peso rilevante in parecchi dei paesi membri i quali peraltro, non godendo della stessa solidità tedesca, vedono le loro imprese indebolirsi rapidamente rispetto alla concorrenza estera. Non possono quindi restar fuori da tale processo.
  • Il successo di una simile iniziativa potrebbe consentire, almeno in linea teorica, di innalzare la massa critica attraverso la creazione divaluechaine web platformeuropee,ampliando così gli ambiti di adozione di soluzioni comuni. Come l’esperienza insegna in questi casi, il numero degli utilizzatori rappresenta la variabile principale per affermare standard universali. Nel caso tale obiettivo non dovesse essere raggiuntodiverrebbe ineluttabile adottare gli standard (e le piattaforme) già sviluppati dai grandi gruppi monopolisti privati dell’era digitale da Amazon, a Microsoft e Google. Le implicazioni che tale opzione potrebbe avere in termini di limitazione dell’autonomia di governo delle reti, della proprietà del knowhow in esse trasmesso,della direzione impressa alla ricerca e allo sviluppo tecnologico futuro, sono ancora da esplorare, ma si ritiene possano essere rilevanti.

In sintesi dunque, un’iniziativa estesa non solo all’universo tedesco, ma all’intera industria manifatturiera europea, forte di oltre due milioni di aziende e trenta milioni di addetti, potrebbe permettere molto più agevolmente la realizzazione di Industry 4.0 con vantaggi sia per la Germania che per l’Europa nel suo complesso.

 

 

Programmi Non Ancora Allineati

 

Oltre alla Germania sono così state varate iniziative targate “Industry 4.0” da Svezia, Olanda, Danimarca, Francia, Spagna e da altri paesi dell’Est Europa. L’Italia nei mesi scorsi ha lanciato il Piano nazionale Industria 4.0.

Uno studio recente commissionato dall’ EuropeanParliament’sCommittee on Industry,Research and Energy (ITRE), ha posto in evidenza come, al di là del medesimo nome, nessun paese abbia finora messo a punto un programma con la stessa articolazione, visione di lungo termine e mezzi finanziari, di quello tedesco.[5]

In sostanza dunque, sotto uno stesso “brand”: Industry 4.0, si sta proseguendo in ordine sparso, soprattutto in termini di entità degli investimenti e ampiezza degli obiettivi. Ciò non toglie che tale comune e contemporaneo impegno possa creare comunque degli effetti positivi a livello sia di singolanazioneche di Unione Europea nel suo complesso.

Lo studio citato ha raggruppato i principali paesi europei in cluster basati sul loro grado di propensione a sviluppare Industry 4.0:

  • Front Runners, costituito, insieme alla Germania, da Svezia, Austria e Irlanda
  • Potentialists rappresentato da Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, UK e Francia.
  • Traditionalists dove sono inclusi diversi paesi dell’Est Europa, che potremmo anche definire come “riluttanti”, per via delle loro condizioni economiche generali, dei rapporti non sempre lineari con l’UE e della propria specializzazione relativa
  • Infine gli Hesitatorsin cui è inclusa anche l’Italia, insieme a Spagna, Estonia, Portogallo, Polonia, Croazia e Bulgaria. Con eccezione dell’Italia e della Polonia si tratta di stati che hanno una presenza più limitatanell’industria manifatturiera.

La Germania è ben consapevole dei rischi connessi a un possibile disallineamento dei differenti paesi europei nell’implementazione di un piano Industry 4.0.

Sotto questo aspetto si potrebbe affermare che dove non arriva la politica industriale, entrano in azione le forze del mercato.

Può forse questa rappresentare una chiave di lettura di alcune tendenze recenti riguardanti gli investimenti diretti tedeschi all’estero.

la Germaniasembra infatti muoversi seguendo una duplice strategia. Da un lato le aziende tedesche investono nelle aree geografiche dove al contempo più forte è la competizione, ampia è la domanda, in maggiore evoluzione il progresso tecnologico. Nord America e Cina sono ai primi posti. Ciò significa presidio delle frontieredell’innovazione e dei mercati più grandi ed evoluti.

L’altra area di investimento è l’Europa dove, appare interessante rilevare, perdono terreno i paesi di tradizionale destinazione: Francia, UK, Austria, in parte Italia (dove comunque la presenza tedesca è diventata rilevante negli ultimi anni), mentre crescono la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, i Paesi Bassi.

Gli investimenti all’estero (realizzati principalmente, ma non in via esclusiva, attraverso acquisizioni) rappresentano di fatto una modalità piuttosto efficiente per diffondere in Europa e in particolare in alcune suearee (quelle del cluster Traditionalists per prime),Industry 4.0.

L’acquisizione cross border di produttori di componenti, concorrenti, sub-fornitori, consente di incorporare progressivamente queste realtà nelle catene del valore tedesche, modificandone tecnologie, protocolli, sistemi amministrativi e di controllo in base agli standard della capogruppo.

L’estensione di tale fenomeno appare rilevante. Da una recente ricerca emerge che oltre il 52% delle imprese tedesche ha dichiarato di aver compiuto investimenti all’estero nel 2014 per un ammontare sostanzialmente simile a quello investito in Germania (in media 125 contro 135 milioni di euro, in termini assoluti valori piuttosto rilevanti). Il 92% degli operatori che ha realizzato investimenti cross border inoltre, ha dichiarato che essi sono strettamente complementari a quelli realizzati nel paese.[6]

 

Il Piano nazionale Industria 4.0

 

Il Piano nazionale Industria 4.0 varato nei mesi scorsi, appare assai più limitato del suo corrispondente tedesco di cui manca, soprattutto, lo spessore strategico.

Da alcune parti è stato criticato anche per la limitatezza degli investimenti previsti e per l’ampio impiego di incentivi fiscali, i quali non appaiono come lo strumento più adeguato per sostenere un programma strutturale di innovazione a lungo termine.

Dal Piano nazionale trapela anche una certa genericità di obiettivi, almeno a confronto dell’omologo tedesco. Si potrebbe forse affermare che in esso si è cercato di stimolare lo svecchiamento dei macchinari esistenti, piuttosto che la costruzione di nuovi paradigmi. E se ciò rappresenta senz’altro un primo passo, un indispensabile prerequisito, la strada verso il rafforzamento della competitività appare ancora assai lunga e solo vagamente accennata.

Infine si rileva una probabilmente eccessiva neutralità rispetto alle dinamiche concorrenziali in atto a livello globale e alla debolezza oggettiva di gran parte del tessuto industriale italiano. Tale atteggiamento, emerso anche di recente nei casi di acquisizioni stranieredi importanti asset strategici nazionali, priva il Piano Industria 4.0 di quel commitment politico e nazionale di cui le e imprese italiane avrebbero oggi un gran bisogno, a supporto dei loro piani di investimento e dei progetti di espansione in Italia e all’estero.

Poiché nuove misure sono state annunciate a proseguimento del Piano da poco varato, vi è la speranza che i “missingpieces” appena ricordati possano essere recuperati.

Il Percorso Dell’Industria Italiana

La manifattura italiana è ancora al secondo posto in Europa, dopo la Germania, sia in termini di valore aggiunto che di addetti e nonostante il declino subito negli ultimi decenni, conserva quote rilevanti di export.

Sempre in termini di valore aggiunto l’Italia conserva il settimo posto al mondo per presenza manifatturiera, dopo Cina, U.S.A., Giappone, Germania, South Corea e India.

Presenta tuttavia alcune profonde diversità rispetto al modello tedesco. Essenon risiedono soltanto – e non è poco – nell’ancora incerta ripresa: gli investimenti restano di oltre venti punti percentuali inferiori a quelli di dieci anni fa, la produzione dell’industria è ancora lontana dai livelli del 2010 (mentre tutti gli altri paesi del G7 li hanno superati, con eccezione del Giappone, comunque ben avanti all’Italia nel suo sentiero di recupero).

Ci riferiamo soprattutto all’estesa presenza di piccole imprese (76,6% del totale, rispetto al 46.8% della Germania) di cui addirittura un quarto è rappresentato da micro unità (che in Germania contano meno del 7%)

Ne fa da contraltare la scarsa rilevanza della grande, che conta solo il 23,4% contro il 53,2% della Germania dove del restante universo, più della metà risulta comunque costituito da imprese di medie dimensione.

In Europa solo Grecia e Cipro hanno una presenza della grande industria più bassa di quella dell’Italia[7]

Le imprese, di più ampia dimensione svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo economico di un paese esono in grado di agevolare la creazione di un tessuto connettivo industriale.

Ricordava Suzanne Berger del MIT, al termine di una ricerca commissionatale dal governo americano per rilanciare l’industria manifatturiera in U.S.A.,[8]che le conglomerate del passato, integrate verticalmente e attive in molteplici settori industriali, erano state un importante generatore di risorse per le piccole aziende delle are in cui erano insediate. Quando l’era delle grandi corporation è tramontata, sono emersi dei missingelements, dei vuoti nell’ecosistema industriale, che hanno bloccato la crescita dell’industria manifatturiera americana e lo sviluppo dell’innovazione. La Berger si riferisce agli spillover generati dalla grande impresa e che riguardano la formazione del personale specializzato, la diffusione di tecnologie attraverso la collaborazione con fornitori e clienti, la capacità di pressione presso lo stato e gli enti locali per migliorare le infrastrutture.

Anche in Italia la grande impresa ha dettato per decenni il ritmo dell’innovazione tecnologica e ha formato tecnici e manager di buon livello, ha certamente contribuito all’ evoluzione competitiva della piccola e media azienda.

Oggi la grande imprenditoria privata italiana è di fatto scomparsa. Restano, quasi esclusivamente, le aziende di stato. Che continuano a rappresentare i principali investitori in R&D, sono presenti in settori industriali avanzati, mantengono posizioni competitive apprezzabili.

Naturalmente le aziende di stato odierne sono una realtà molto più circoscritta rispetto a quello che ha rappresentato l’IRI per l’economia italiana.

Non si vuole qui entrare nel dibattito, anche recente, sull’opportunità o meno, per il paese, di una nuova presenza pubblica di estensione e importanza simile all’IRI.[9]

Si deve tuttavia constatare che con la sua fine è terminato anche l’intervento dello stato in economia, si è dissolto ogni piano e programma rivolto alla difesa e allo sviluppo dell’industria manifatturiera.

Di ciò hanno sofferto i grandi gruppi privati (scomparendo uno dietro l’altro in poco più di un decennio), le aziende medie (che di fatti sono assai poche) e le piccole, per l’assenza di quell’effetto propagatore e di guida che la grande impresa, come si è visto, tipicamente svolge nel tessuto industriale di un paese.

Assieme alla fine di una progettazione di lungo respiro del futuro industriale, si è fatta strada la convinzione che i governi debbano agire da arbitri imparziali della naturale competizione del mercato, senza entrare nel merito, che non li riguarda. Una sorta di controllori di volo piuttosto che di piloti.

Nel frattempo il paese ha assistito appunto al tramonto della grande imprenditoria, alla crisi dei distretti, all’avvento delle cosiddette multinazionali tascabili e al quarto capitalismo.

Definizioni differenti, tentativi di intravedere nuovi modelli, trame e orditi di un tessuto aggregativo che in realtà manca da molto tempo.

Infine si è estesa, sino a diventare dominante in parecchi settori, la presenza straniera, non più solo europea ma ormai anche asiatica.

Lungo tutto il percorso di sviluppo compiuto dalla Germania nell’ultimo decennio, vale qui forse la pena ricordarlo, ha continuato ad operare una singolare forma di convivenza tra libero mercato (in particolare nell’area dei beni di largo consumo) e intervento pubblico, al fine di proteggere e sostenere i settori considerati strategici per la crescita del paese.

Si potrebbe affermare che è ormai inutile guardare indietro, tuttavia apprendere dalle lezioni del passato sarebbe il primo atto per provare a dar vita a qualche forma di politica industriale per proteggere, ancora prima che la competitività del sistema Italia, la sua stessa sopravvivenza.

In questo senso il Piano nazionale Industria 4.0 rappresenta senz’altro un segnale importante e su questa strada sarà necessario proseguire. Consapevoli che lasciare alle sole forze dell’imprenditoria il compito di gestire la fase delicatissima e cruciale di passaggio all’industria digitale, per di più in un paese con la nostra storia alle spalle,risulterebbe estremamente pericoloso.

In particolare si dovrà affiancare ad interventi di tipo generalizzato, che avranno senz’altro l’effetto di una “cura ricostituente”, iniziative mirate su singoli settori, livelli dimensionali e ambiti territoriali.

 

Stimolare un dibattito sul Futuro dell’Impresa Manifatturiera Italiana

 

Illustriamodi seguito alcune aree che ci appaiono critiche, trascurando, perché comunque già discusso in molte sedi, il tema dei prerequisiti, che pure rivestono un ‘importanza fondamentale. Ci riferiamo in particolare a istruzione e sistema creditizio.

 

Non Rincorrere Percorsi Illusori (e Dannosi)

 

Cosa non fare innanzitutto. Sembra di intravedere, in alcune posizioni, la tentazione di lasciare che in qualche modo le “forze di mercato” conducano ad un’inevitabile ulteriore ridimensionamento dell’industria manifatturiera. Nel contempo, si pensa, potrebbe affermarsi un modello di sviluppo differente. Magari basato su certe dotazioni naturali o connaturate al nostro paese, come l’arte, la bellezza dei territori, l’artigianato, la cucina. Tali idee vanno rigettate con decisione.

Le catene alberghiere in Italiasono per lo più in mano a operatori esteri(sono straniere le prime tre catene per posti letto in Italia e complessivamente sei su dieci). Ed è fuori dall’Italia quindi, che si beneficia del valore da esse generato.

Inoltre un turismo senza una compagnia aerea di bandiera è destinato a diventare sempre più lowcost.

Creando problemi di sopravvivenza stessa nelle città maggiormente coinvolte (vedi Firenze, Roma, Venezia ad esempio), dove si ingigantisce la black economy generata dai proprietari di case che trasformano appartamenti in Bed & Breakfast. Crescono i prezzi delle abitazioni, peggiorano le condizioni di vita degli abitanti, vi è il rischio che alcune di queste città, Venezia per prima, diventino dei grandi shopping mall disabitati.

Non è perseguendo questa strada che si crea valore per il paese.

Il food nella sua parte a maggiore valore aggiunto è ormai da tempo presidiato da operatori stranieri. In Italia, a parte poche, importanti realtà imprenditoriali e cooperative, restaper lo più la ristorazione, uno dei settori a più bassa produttività nel comparto dei servizi. E che sta subendo una concorrenza temibile da ingressi di bar, negozi di generi alimentari, chioschi, una molteplicità di forme di economia marginale (l’oggi tanto decantato “streetfood”)che hanno iniziato attorno al cibo e al turismo a crescere in modo esponenziale secondo un modello che vede coesistere piccola speculazione e sentieri di sopravvivenza.

Come spesso accade si rischia di seguire una narrazione che non trova fondamenti con la realtà, che ci dice anzi l’opposto: una crescita in questi settori, i più marginali dei servizi, assai poco può apportare al PIL italiano e anzi nel tempo produrrebbe inevitabilmente un deterioramento di quegli asset da cui tali tentazioni iniziali sono scaturite. Senza mai dimenticare che la fama dell’Italia all’estero è cresciuta anche (e forse soprattutto) grazie ai prodotti che le imprese italiane sono riuscite a far affermare negli scaffali, nelle vetrine e nelle fabbriche di tutto il mondo. Una volta scomparissero da lì, l’Italia stessa diverrebbe assai meno visibile e interessante.

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Ripartire dai Processi

 

L’Italia per ben due volte nel secolo scorso, ha mostrato la capacità di realizzare impressionanti progressi. Accadde nei primi anni del novecento e successivamentenel periodo che va dagli anni sessanta alla fine degli anni ottanta. In poco più di un ventennio la quota di esportazioni sul mercato mondiale aumentò da meno del 3,2% nel 1960 a più del 5,2% del 1986. Un tasso di crescita secondo solo a quello del Giappone. Analoga fu la performance registrata dall’ incremento della produttività, che vide l’Italia al terzo posto mondiale dopo Giappone e Corea.

Spinta dalla necessità di conquistare i mercati esteri per via della limitatezza di quello interno, l’industria manifatturiera italiana è stata capace di accelerare l’innovazione dei processi, di adattarsi alle esigenze di singoli mercati e clienti, di costruire quella sua reputazione di qualità e flessibilità che ancora oggi la contraddistingue, non solo nei settori tradizionali, ma in molti ad elevato contenuto tecnologico.

Sebbene molto tempo sia trascorso e trasformazioni profonde siano al contempo avvenute, è indispensabile tornare alle radici dei successi passati per costruirne di nuovi.

A cominciare dalla grande competenza italiana nell’innovazione di processo.

Specie associata alle piccole serie, alla personalizzazione, all’impiego di materiali speciali e così via.

Una caratteristica questa, costruita negli anni Cinquanta e in prevalenza nel Nord – Est – Centro. Dove alle conoscenze che si accumulavano nel lavoro presso le grandi imprese, si associavano quelle generate dal settore agricolo, attraverso la dimestichezza nell’utilizzo delle macchine agricole e degli utensili. È così che sono nate tante iniziative di successo, grazie all’abilità di adattare macchinari acquistati in Germania (e solo nei decenni più recenti provenienti anche dal Giappone), di metterli in linea seguendo criteri innovativi, di integrarli con componenti ideati in loco.

Le tecnologie connesse all’Internet of Things e al 3D printing, potrebbero consentire di tornare su questi punti di forza per aggiornarli ed estenderli, da questo punto di vista esse rappresentano infatti dei fattori abilitanti.

Dobbiamo aggiungere alla perizia meccanica una conoscenza estesa dell’informatica.

Facendo affluire nuove competenze, knowhow, skill aggiuntivie possibilmente stratificandoli nei settori e nei terreni di elezione della manifattura italiana. In questo senso sarebbe necessario, tra l’altro, compiere un’attenta ricognizione dei vecchi distretti industriali e di cosa in essi è rimasto.

Nuove industrie infatti, nascono più facilmente dove già esiste una base di attività, dei vantaggi localizzativi, il saper fare impresa, organizzare un layout di produzione, servire differenti mercati. Sarebbe un errore trascurare tale aspetto.

 

 

 

 

R&D: Concentrarsi sulle Masse Critiche

 

Questo percorso verrebbe notevolmente facilitato dalla contemporanea presenza di una R&D nazionale indirizzata verso le aree dove con maggiore probabilità si può rafforzare la competitività delle imprese italiane.

Attualmente l’Italia è agli ultimi posti tra i paesi più avanzati in termini di investimenti in ricerca (e siamo al diciottesimo posto in termini di numero di brevetti presentati). Nel decennio 1995 -2005 il tasso di crescita annuo negli investimenti in R&D è stato in Italia del 2,6% ed è poi sceso all’1,7% nel periodo 2005 – 2012. Tale dato va confrontato con la media OCSE (rispettivamente 3,7% e 2,9%) e della Germania (2,6% e 4,0%).[10]

Tuttavia il nostro paese presenta una buona produttività della ricerca (n.7 tra i principali paesi OCSE).

Questo dato da solo non è in grado di fornire alcuna interpretazione univoca, né tanto meno può consentire di compiere alcun tipo di correlazione.

Può risultare tuttavia utile per svolgere alcune considerazioni:

  • Chi sono i maggiori investitori italiani in R&D? Secondo dati Ue (aggiornati al 2016) al primo posto c’è Fca con 4.1 Md di euro, seguita da Exor (sempre Fca dunque), Leonardo, Telecom, Ferrari (di nuovo Fca), Chiesi, Pirelli ed Eni.[11]
  • Tra questi gruppi Fca (Exor e Ferrari compesa), Telecom e Pirelli non sono più italiane. È possibile che nel tempo possano affievolirsi gli spill over sul tessuto industriale italiano, tanto più se dovessero modificarsi gli attuali assetti localizzativi. Restano in ogni caso tre importanti realtà nazionali, una privata: ChiesiFarmaceutici e due pubbliche: Leonardo e Eni.
  • Nella R&D esistono delle economie di scala e nonostante con l’avvento di Internet la dimensione media sia andata diminuendo è principalmente nei grandi centri che si riesce a fare ricerca in modo efficiente. Il settore farmaceutico ad esempio, che ha subito significativi ridimensionamenti negli ultimi decenni in quest’area, stima in cento unità di ricercatori la dimensione ottimale.[12]Un numero assai maggiore di qualsiasi start up, dalle quali molti si aspettano un contributo importante all’innovazione.

È probabile dunque che sulla grande dimensione si debba puntare per rafforzare il livello di investimenti in ricerca e il loro effetto sul resto del tessuto industriale. Naturalmente in questo ambito le aziende pubbliche dovrebbero essere portate a svolgere un ruolo leader. Soprattutto per generare filoni di ricerca che possano avere impatti positivi per la piccola industria. Alcune aziende che fanno capo a Leonardo (nell’aeronautico, la meccanica, l’elettronica, lo spazio) impiegano già in modo significativo la manifattura additiva (3D printing), potrebbero, per esempio, agevolarne la diffusione e l’impiego.

Non solo, le loro commesse rappresentano la via più dirette per esportare sul sistema dei fornitori standard qualitativi, modalità di interazione e comunicazione, sistemi di controllo tipici della manifattura 4.0.

 

Per quanto riguarda le start up, è forse opportuno fare un po’ di chiarezza sull’entità e la natura della loro presenza prima di indirizzare risorse finanziarie in questa direzione.

l’Italia non ha e probabilmente non avrà nei prossimi anni, quei prerequisiti per farle fiorire.Almeno fino a quel livello che le porti, nell’innovazione, a divenire una reale alternativa alla grande impresa.

Inoltre la dimensione individuale o comunque minima di queste iniziative, le conduce per lo più a sviluppare applicazioni che partono da tecnologie esistenti e di proprietà dei soliti grandi di Internet: Apple, Google, Amazon.

Ciò può portare anche a buoni guadagni ma non aiuta necessariamente un paese, come ha ben intuito la Germania la quale punta a realizzare propri standard e infrastrutture tecnologiche.

Per contro si rischia di far fluire, in modo diretto o indiretto, le poche risorse disponibili verso i grandi monopoli esistenti sempre pronti a sfruttare vantaggi localizzativi (dal costo del lavoro alle imposte) e ad acquisire in early stage i progetti migliori.

 

Costruire l’Innovazione in Ambito Europeo

 

Seguendo la strada della grande impresa, potrebbe risultare appropriato riesaminare le interconnessioni tra aziende sia in ambito domestico che internazionale e sviluppare piani con i principali paesi europei (Germania per prima), per far entrare le nostre imprese nelle global valuechaine nelle web platformsecondo modalità che ne favoriscano l’indipendenza e la capacità di esprimere pienamente i ruoli che con eccellenza sanno svolgere, tutelate in questo da accordi e programmi sovra nazionali.

Si dovrebbero inoltre discutere investimenti comuni per realizzare efficienti network di comunicazione e forme di logistica appropriate.

il pensiero va, per esempio, a modalità di cooperazione tra Deutsche Post e  Poste Italiane per la costruzione di piattaforme logistiche continentali.

 

Elevare le Dimensioni d’Impresa

 

Se le imprese non riescono a crescere da sole bisognerebbe aiutarle dall’esterno, favorendo ad esempio forme di aggregazione. Durante questo decennio i fondatori delle aziende di successo degli anni sessanta e settanta stanno affrontando la delicata fase del passaggio generazionale.

Potrebbe essere questa un’occasione importante per superare le forme tradizionali di conduzione aziendale e facilitarne l’aggregazione.

Un mix di strumenti, anche di tipo finanziario, basandosi sul ruolo oggi assegnato alla Cassa Depositi e Prestiti,andrebbe messo al servizio di questo processo che, assieme alla crescita dimensionale,consentirebbe il conseguimento di incrementi di volumi e produttività.

In questa logica andrebbe recuperata la dimensione territoriale, che un tempo vedeva ad esempio il sistema dei Mediocrediti regionali accanto a banche locali e alle finanziarie di sviluppo, il cui ruolo, in questa logica potrebbe essere rilanciato.

 

Lavorare Sulle Localizzazioni

 

Esiste infine un gruppo di regioni che mostra ancora una presenza di industria manifatturiera (misurata in termini di addetti), paragonabile a quella delle principali aree europee.

in ordine di importanza decrescente si tratta di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte.

La posizione di questo cluster in termini di PIL e produttività è andata tuttavia costantemente declinando nel tempo e dal 2008 il divario con le aree più industrializzate della Germania, ma anche di Francia e Spagna, si è andato ampliando.

Sulla localizzazione si giocherà una grande partita nei prossimi decenni, destinata a veder crescere le zone che si mostreranno più dinamiche e capaci di attirare imprese, innovazione e naturalmente risorse.

Numerose evidenze, specie dalla più recente storia industriale statunitense, sembrerebbero confermare questa possibilità.  In U.S.A. dal 1980 ai tempi più recenti si è drasticamente ridotto il numero di aree con una concentrazione apprezzabile di “advancedindustries”.[13]

Oggi di conseguenza, l’economia statunitense e in particolare quella legata al settore digitale, è basata su un numero molto ristretto di cluster geografici ad elevatissima specializzazione.

Si tratta di un aspetto singolare e apparentemente paradossale.

Mentre la produzione assume dimensioni globali, i vantaggi competitivi hanno spesso basi fortemente locali e si originano grazie alla contemporanea presenza di competenze, knowhow, fornitori, concorrenti, istituzioni, in un’area circoscritta e in un particolare settore industriale.[14]

È immaginabile che con il pieno dispiegarsi del piano Industry 4.0 la Germania sia destinata ad assumere un peso rilevante anche sotto l’aspetto localizzativo. Quanto ciò possa avvenire a scapito di altre aree geografiche europee, per primo quelle italiane, è ancora da capire.

Certamente queste tendenze confermano che fare politica industriale include oggi, forse più che in passato, interventi di carattere territoriale. Per orientare (e proteggere) le localizzazioni, favorire le concentrazioni, indirizzarvi in modo selettivo risorse adeguate di tipo umano e finanziario.

 

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In sintesi ce n’è abbastanza da ritenere che per l’Italia sia giunto il momento di mettere in atto interventi di tipo strategico e non convenzionale se si vuole salvaguardare l’industria manifatturiera.

E con essa il PIL e l’occupazione che genera direttamente e in modo indotto in altri settori, quello dei servizi per primo.

In poche parole si tratta di tornare a progettare un futuro economico non solo per l’industria ma anche per il nostro paese.

Sicuramente quanto fin qui illustrato non è esaustivo né rispetto alla descrizione della situazione attuale, nétantomeno nei riguardi delle soluzioni per uscirne.

Ma non era questo l’obiettivo. Riprendere il dibattito e l’approfondimento su questi temi sarebbe già un importante traguardo.

 

[1] Luigi Campiglio, Unbundling the Great EuropeanRecession (2009 -20013): Unemployment, Consumption, Investment, InflationadnCurrent Account, Quaderno 67gennatio 2014, Vita e Pensiero, Milano

[2]http://www.ecfr.eu/article/commentary_germanys_turnabout_on_chinese_takeovers_7251

[3]Peter C. Evans, Annabelle Gawer, The Rise of the Platform Enterprise, The Emerging Platform Economy Series No. 1

 

[4]http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2015/568337/EPRS_BRI(2015)568337_EN.pdf

[5]http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2016/570007/IPOL_STU(2016)570007_EN.pdf

[6]https://www.kfw.de/PDF/Download-Center/Konzernthemen/Research/PDF-Dokumente-Fokus-Volkswirtschaft/Fokus-englische-Dateien/Fokus-No.-136-August-2016-Foreign-Investment.pdf

[7]http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/images/3/38/Table_6a_Number_of_persons_employed_by_enterprise_size_class%2C_manufacturing_%28NACE_Section_C%29%2C_2013.png

[8]S., Berger, Making in America, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2013

[9]Su questi temi si rinvia a F. Amatori (a cura di), Storia dell’IRI, Il Miracolo Economico e il Ruolo dell’IRI, Laterza, Bari, 2013;G.Berta, Che Fine ha Fatto il Capitalismo Italiano, il Mulino, Bologna, 2016

[10] KFW, Focus on Economics, An international comparison of R&D: Germany benefits from industrial research strength, N.105, 25 Agosto 2015

[11]http://firstonline.info/News/2017/01/05/ricerca-e-sviluppo-fca-prima-in-italia/MjlfMjAxNy0wMS0wNV9GT0w

[12]http://www.managementplanet.it/i-centri-rd-in-italia-stanno-diventando-una-riserva-indiana/

[13]Brookings Institute (2015); America’s Advanced Industries. What they are, where they are, and why they

matter, p.32 (Muro, M., Rothwell, J., Andes, S., Fikri, K. and Kulkarni, S.j Sullo stesso tema si rinvia anche agli studi realizzati da M. Porter ed Enrico Moretti.

[14] M., E., Porter, Clusters and the New Economics of Competition, Harvard Business Review, November – December, 1998 , F. Menghini, Alle Piccole Imprese e al Paese Serve Innovazione, I&C N. 3, 2014