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 Di seguito il testo della conferenza tenuta dal Presidente Gaetano Quagliariello presso il Rotary Club di Ancona nel dicembre 2018.

 

  1. Camminare per conoscere.

I temi, tra loro correlati, della montagna, delle aree interne e delle criticità che i fenomeni sismici di questo decennio hanno portato con sé,nell’ultimo periodo hanno sempre di più assorbito la mia attenzione, per motivi di ordine civico e politico. E anche per una ragione strettamente personale.

Giustino Fortunato riteneva che per conoscere realmente il territorio è necessario percorrerlo a piedi, e da questa convinzione derivava il suo motto: “camminare per conoscere, conoscere per amare”. Negli ultimi anni questo motto l’ho fatto mio. Una parte consistente del mio tempo libero dagli impegni lavorativi lo occupo a camminare lungo le strade e i sentieri del nostro Appennino. E proprio grazie a queste passeggiate ho imparato a conoscere e ad amare le aree appenniniche: le zone del Centro Italia che da anni vivono una crisi endemica e che da ultimo sono state sfregiate dal sisma del 2016-2017.

Già durante il viaggio per giungere all’imbocco dei sentieri che ti conducono verso le cime, è possibile cogliere un progressivo cambiamento del paesaggio, delle infrastrutture, degli agglomerati urbani. Si imboccano strade via via sempre più strette, le tre corsie diventano due, poi una, la carreggiata è abbandonata dalla segnaletica orizzontale, in alcuni casi ci si trova a percorrere tragitti a stento asfaltati. Si è fortunati se non ci si imbatte in ostacoli causati da frane o smottamenti. Crocevia dopo crocevia si raggiungono i centri abitati delle “aree interne”: terre di nessuno, oggetto di studi sociologici e narrazioni bucoliche, aggredite o abbandonate, patrie ante litteram della tipicità, al contempo rifugi e prigioni.

 

  1. Un problema di definizione.

Prima di condividere con voi alcune riflessioni, è però indispensabile definire cosa si intenda per aree interne. La definizione che fino ad oggi è stata adottata nell’ambito delle politiche nazionali ed europee si concentra essenzialmente sulla situazione di svantaggio, sui limiti di accesso ai servizi, sulla scarsità di prospettive. Quasi mai, invece, nei documenti strategico-programmatici sulle aree interne si è tenuto conto della questione geografico-demografica, con il risultato paradossale di vedere la montagna spesso esclusa dalle iniziative proposte.

Secondo la mia analisi, invece, il concetto di “aree interne” va inteso in senso principalmente geopolitico, e in questa prospettiva il dato statistico-demografico ha una grande rilevanza. Questa espressione, insomma,dovrebbe identificare tutte le aree lontane dai grandi centri abitati e dalle zone urbane più popolose, con una oggettiva prevalenza numerica dei territori di livello montano. Considerando come fulcro il Centro Italia, si può dire che “aree interne” sono tutte le zone adiacenti alla dorsale appenninica, che si dispiegano verso nord in Emilia e in Toscana e verso sud collegando Umbria, Marche e Abruzzo alle catene montuose sannite, pugliesi, lucane e calabresi.

E’ facile comprendere come all’interno di questa categoria rientrino territori con caratteristiche, situazioni e storie peculiari. Essi però, come vedremo, presentano alcuni elementi comuni che li contrappongono alle fasce costiere.

 

  1. Una crisi che viene da lontano.

Il primo elemento che accomuna le aree interne è che la loro crisi ha radici antiche, molto antiche. Un’interessante ricerca storica del Procuratore della Repubblica di Teramo Antonio Guerriero, intitolata “Le vie della neve”, ripercorrendo le vicende di vita delle popolazioni dell’Appennino centro-meridionale, dimostra come questa frattura dati già dal ‘500.

Essa si è sempre più accentuata nell’evo contemporaneo, quando gli Appennini e il Centro Italia sono stati abbandonati a loro stessi, condannati allo spopolamento, all’invecchiamento, alla perdita progressiva di presìdi produttivi e dei servizi di prima necessità. Il sisma del 2016-2017 si è dunque innestato su tale situazione pregressa, cosicché alle macerie materiali si sono aggiunte quelle provocate dallo smembramento del tessuto economico e occupazionale che, inevitabilmente, hanno accelerato la migrazione della popolazione verso aree più promettenti dal punto di vista economico e lavorativo.

 

  1. L’effetto sisma e le sue conseguenze.

L’analisi della realtà delle Marche evidenzia con particolare chiarezza questo trend. I dati contenuti nell’ultimo Report annuale di Bankitalia sullo stato di salute dell’economia regionale marchigiana evidenziano come il cosiddetto “effetto sisma” possa essere riassunto efficacemente nel calo del 7% del fatturato delle aziende dell’area del cratere, con picchi dell’11% per le imprese più vicine all’epicentro. Ad essere colpite di più sono state le imprese più piccole (quasi 9% in meno) e il terziario (fino al 10% in meno), con ogni probabilità per effetto dello shock subito dalla domanda locale. Ha retto meglio, nonostante non sia rimasto indenne, il settore manifatturiero (– 3%).

La calamità tellurica ha provocato un’onda lunga che si è prolunga ancora oggi e ha determinato una complessiva frenata degli indici economici: il Pil è cresciuto solo dello 0,9% nel 2017 rispetto all’1,5% nazionale; il tasso di disoccupazione non decresce ma rimane stabile intorno al 10,6%, dopo aver subito un pesante tonfo nel primo semestre 2017. Male l’export, soprattutto se raffrontato con il “sistema Paese”: l’Italia cresce nelle esportazioni del 7,4%, mentre le Marche vanno in controtendenza, con un -2%. A far temere sono soprattutto le percentuali assai basse di vendite in mercati lontani ed emergenti come India e Cina.

 

  1. Banche d’affari e banche di prossimità.

La realtà marchigiana può ben esemplificare anche un ulteriore aspetto che accomuna le aree del cratere appenninico interessate dal sisma del 2016-2017: l’andamento del settore bancario e creditizio. La situazione può essere riassunta in uno slogan: “meno sportelli, meno istituti locali e meno prestiti alle piccole imprese”. Insomma, si va verso l’abolizione del credito di prossimità.

Il fallimento e lo scandalo seguiti alla bancarotta di Banca Marche non hanno certamente aiutato gli altri istituti che da sempre avevano fatto della vicinanza al territorio la loro cifra – penso alla rete delle banche popolari e alle Bcc -, facendo così venir meno un propellente indispensabile allo sviluppo proprio nel momento in cui la crisi economica si faceva più dura. Non a caso i dati di Bankitalia rivelano come il mercato del credito marchigiano sia oggi gestito, praticamente in esclusiva, dai cinque principali gruppi italiani.

Non voglio in questa sede entrare nel merito delle riforme portate avanti dagli ultimi governi. Mi limito però a constatare come la trasformazione obbligata in SpA di questi istituti ha di fatto lasciato inevase alcune esigenze dei territori, specie di quelli che si trovano lontano dai grandi centri urbani e nei quali intraprendere è una vera e propria scommessa. Per le zone appenniniche, in particolare, si pone dunque il problema di individuare nell’universo bancario un interlocutore per il quale l’attaccamento alla terra sia un valore e il tessuto economico composto da artigiani, commercianti al dettaglio e piccoli imprenditori risulti un riferimento privilegiato. E che, per questo, si faccia attivamente partecipe della vita di comunità tipica dei centri appenninici. Questa missione, per ovvi motivi, non può essere assolta dai grandi colossi creditizi internazionali.

 

  1. La gelata demografica.

Anche le statistiche demografiche accomunano le Marche al resto dell’entroterra del Centro Italia e, per questo, consentono una volta di più di assumere il caso marchigiano come esempio paradigmatico.

La popolazione residente negli 83 Comunidel cratere marchigiano è oggi composta da 341.907 personeche occupano un territorio pari al 42% della superficie regionale. Il 72% dei Comuni in cui risiede tale popolazione conta meno di 3.000 abitanti ed è interessato da problematiche tipiche delle aree interne, nelle quali la marginalità geografica, l’invecchiamento della popolazione, la mancanza di ricambio generazionale e l’emigrazione della popolazione attiva – specie nelle sue componenti più giovani – hanno contribuito a innescare un declino demografico che nel corso degli ultimi anni si è consolidato e rafforzato. Anche nelle Marche infatti, come del resto in Abruzzo nell’intero cratere del sisma 2016-2017, il fenomeno dell’assottigliamento della popolazione residente è antecedente agli eventi sismici.

Se si analizzano più da presso i trend degli ultimi cinquant’anni, ci si accorge che la popolazione marchigiana aveva conosciuto un periodo di relativa stabilità a partire dagli anni Ottanta, momento nel quale gli influssi dello sviluppo manifatturiero e terziario avevano invertito la tendenza generale a imboccare quella celebre “Strada per Roma” di cui parla Volponi con riferimento all’emigrazione dalle aree interne marchigiane. Tuttavia, l’area del cratere 2016-17 cela importanti differenze e scompensi territoriali che si percepiscono solo disaggregando i dati. Infatti, mentre la popolazione complessiva delle Marche è rimasta per lungo tempo sostanzialmente invariata, la sua mobilità interna è risultata piuttosto significativa, caratterizzata da una propensione a “scendere a valle” che nel tempo ha svuotato buona parte dei borghi più remoti. Sin dagli anni Cinquanta, i Comuni geograficamente più isolati come Visso, Ussita, e molti insediamenti situati al di sopra dei 700metri sul livello del mare, hanno perso costantemente popolazione, donandola ad altre regioni o alle vallate interessate dallo sviluppo manifatturiero (dove la popolazione è invece tendenzialmente cresciuta dagli anni Settanta).

A fronte di tanti elementi comuni, questa cessione di fette di popolazione dalle zone più alte alle vallate può essere considerata una peculiarità della realtà marchigiana rispetto ad altre zone Appenniniche. Altre regioni, come ad esempio l’Abruzzo, per conformazione morfologica e per suddivisione geografica delle province presentano infatti una assai più marcata dualità tra entroterra montano e costa. Nella realtà marchigiana, invece, la frattura sembra più scomposta e mi è parso di comprendere che tra aree interna e costa vi sia una terra di mezzo che ha storicamente conosciuto periodi di significativo sviluppo, vivacità economica e persino demografica. Oggi, però, queste terre vedono palesarsi problematiche simili a quelle tipiche delle aree montane. Anche per questo, si può affermare che il declino demografico di alcuni comuni del quadrante marchigiano del cratere si qualifichi come un dato strutturale che sembra protrarsi, con piccole oscillazioni, da oltre mezzo secolo, generando un saldo negativo che in alcuni casi oltrepassa il -50% rispetto agli anni Cinquanta.

Si potrebbe obiettare: ènell’intero Paese che oggi crescono più velocemente i grandi agglomerati, i distretti urbani e non più i distretti produttivi (al punto che, se si andrà avanti di questo passo, le aree interne dell’Italia centro-meridionale rischieranno di trasformarsi in un Paese per vecchi e per ciclisti, mentre nelle valli e sulla costa si formeranno megalopoli prive di strutture adeguate, con squilibri sociali crescenti e conseguenti rischi d’infiltrazioni malavitose). Questo fenomeno di aggregazione urbana, però, penalizza ancor più le Marche, in quanto esse sono caratterizzate da una distribuzione più disgregata e plurale dei centri urbani. Non casualmente, il trend complessivo situa le Marche tra le regioni più lente d’Italia, allontanando pericolosamente l’obiettivo, che fino a qualche anno sembrava non solo raggiungibile ma addirittura tangibile, di lanciare il guanto di sfida al modello del Nord-Est.

 

  1. L’emigrazione intellettuale e il sud che si espande.

Un ulteriore dato dovrebbe farci riflettere. Esso, purtroppo, accomuna tutto il Paese ma nelle aree interne raggiunge picchi a dir poco inquietanti: l’alta emigrazione di personale laureato che si sposta nell’Italia del nord, o ancor più sovente all’estero, alla ricerca di maggiori e migliori opportunità professionali. Anche per questo, tra le varie iniziative che ritengo indispensabile promuovere, c’è un progetto sull’Università dell’Appennino: un campus multipolare nell’area del cratere, che da un canto  porti a un aggiornamento dei piani di studio e  dell’offerta formativa delle Università per renderli complementari alle caratteristiche economico-produttive del luogo in cui hanno sede, e dall’altro   sappia creare sempre maggiori link tra Università e mondo del lavoro, affinché i neo-laureati possano “scegliere di rimanere”; che, infine, coordini l’offerta formativa in modo da elevarne la qualità ed evitare inutili doppioni a pochi chilometri di distanza. Le statistiche sull’emigrazione intellettuale aiutano a evidenziare un ulteriore elemento di continuità tra le Marche e le altre Regioni del Centro Italia, con specifico riferimento a quelle più duramente colpite dal sisma: il sempre più evidente allineamento dei dati – anzitutto di quelli che si riferiscono alla crescita e all’occupazione – con quelli delle regioni meridionali.

Per semplificare, potremmo dire che i fenomeni tellurici hanno avuto come effetto immediato quello di allargare il territorio del cosiddetto “Mezzogiorno”, spostandone a Nord i confini e aggravando la condizione di squilibrio del Paese. L’Italia è da sempre attraversata da due fratture principali: quella tra nord e sud e quella tra zone interne e aree costiere. Oggi questi due fenomeni si sovrappongono in spazi più ampi di quelli di ieri, col risultato di avvicinare ed esasperare i cleavagesdel Paese.

 

  1. Che fare?

Non credo che il trend fin qui descritto possa essere invertito, o anche solo arrestato, nel breve e persino nel medio periodo. Sarebbe però un delitto non provare a governarlo, a meno di non volere che il tessuto connettivo del Paese venga definitivamente lacerato.

A tal fine, credosia necessario intraprendere una serie di iniziative seguendo un doppio binario: da un canto portare avanti proposte dall’alto – con un approccio top-down -, che intervengano sul quadro normativo; contemporaneamente, promuovere interventi puntuali dal basso, che rispondano a esigenze specifiche dei territori e che, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie, riescano a superare i problemi posti dalla loro progressiva marginalizzazione.

Della prima categoria d’interventi fanno parte tutti quelli tesi a dare consistenza istituzionale alla “Macroregione Appenninica” e che puntino a valorizzare il policentrismo caratteristico di quest’area del Paese.

In tal senso, le proposte normative sulle quali si è iniziato a lavorare sono molteplici, differenti ma tra loro complementari.

In collaborazione con il Politecnico di Torino, innanzi tutto, è stato messo a punto un Piano Straordinario per la messa in sicurezza del patrimonio immobiliare pubblico e privato al fine di prevenire – in caso di calamità – la distruzione di interi agglomerati urbani e, di conseguenza, riuscire non solo a salvare vite umane, ma anche a evitare lo spopolamento obbligato di interi centri.

Altre proposte mirano a produrre una sensibile semplificazione delle norme che riguardano la fase della ricostruzione, per evitare che le esigenze di celerità dell’intervento post-emergenziale, finalizzate a garantire un graduale ritorno alla normalità, si scontrino con inaccettabili lungaggini burocratiche, da ultimo provocate anche dalle procedure ordinarie del Codice degli Appalti.

Sono inoltre convinto che l’Italia abbia bisogno di un “Testo Unico per le emergenze”, in modo da assicurare che dal momento immediatamente successivo alla calamità siano chiare le procedure di azione, una divisione di competenze prestabilita, una catena di comando in grado di far partire senza perdere tempo prezioso la macchina dell’emergenza. L’Italia, fino a qualche anno fa, era esempio di efficienza e organizzazione grazie al suo Dipartimento della Protezione Civile. Il “modello Bertolaso”, sperimentato all’Aquila nel 2009, è stato un successo oggettivo. Ha garantito una vera e propria “Dunkerque civile”: a 60.000 cittadini ha dato un tetto sopra la testa in tempi record, prima dell’arrivo del “generale Inverno” che all’Aquila è particolarmente rigido; ha saputo garantire la riapertura delle scuole in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, offrendo a famiglie e ragazzi un punto di riferimento stabile e una motivazione per non trasferirsi sulla costa. Questo modello è stato intenzionalmente abbandonato, smontato pezzo dopo pezzo dai governi successivi per motivazioni eminentemente ideologiche, e il risultato è stato tangibile nell’emergenza del 2016-2017. I limiti di gestione, durante e dopo questo evento sismico, sono stati così grandi da riempire ancora oggi le pagine dei quotidiani nazionali. Appena qualche giorno fa Mario Sensini sul Corriere della Sera titolava “Ricostruite solo 350 case”, e nel suo articolo commentava: “A due anni dal terremoto dell’Appennino centrale sembra che si muova solo la terra”.

Un’altra proposta tratta il tema della valorizzazione e del rilancio delle aree montane e dei parchi, tipologie di territorio assai diffuse nel Centro Italia. Questa iniziativa nasce dalla consapevolezza che le riserve naturali e la montagna, oggi ritenute innanzi tutto dai loro abitanti un limite allo sviluppo e alla ricchezza, possano invece rappresentare risorse importanti, dal punto di vista tanto ambientale quanto economico, a condizione che il concetto di tutela interna sia coniugato con uno sforzo verso l’esterno, attraverso il quale venga attribuita alle aree protette una funzione innovativa in un’ottica di sviluppo e digreen economy.

Inoltre, come già accennato, si dovrebbe lavorare sui temi della formazione e dell’Università, per fronteggiare la crisi di iscrizioni che molti atenei situati nelle zone appenniniche stanno attualmente vivendo e rilanciarne il ruolo attraverso l’insediamento di veri e propri campus all’interno dei centri storici. A tal fine, è innanzi tutto necessaria una profonda riorganizzazione dell’offerta formativa nonché la strutturazione di corsi di laurea “su misura” che sappiano rispettare le caratteristiche e assecondare le esigenze dei luoghi. Risulterebbe così meno arduo il collegamento tra università e mondo del lavoro o, quanto meno, si stabilirebbe una maggiore compatibilità tra i percorsi di studio e le realtà economico-produttive tipiche delle aree appenniniche. Per realizzare tutti questi obiettivi non si potrà fare a meno di una legge speciale per gli atenei dell’Appennino.

Queste iniziative, da promuovere attraverso atti di governo o provvedimenti legislativi, debbono interagire con quelle poste in atto seguendo un approccio bottom-up, che si diffondano in senso orizzontale o – con maggior profitto e sfruttando le potenzialità offerte da nuovi mezzi di comunicazione – guadagnino verticalità superando le difficoltà logistiche provocate dalla progressiva marginalizzazione delle zone appenniniche.

In tal senso, è innanzi tutto necessaria un’azione volta a salvaguardare le reti di servizi essenziali come poste, bancomat, farmacie, servizi di primo soccorso, nonché a garantire la percorribilità e la manutenzione delle infrastrutture basilari, iniziando da quelle viarie. Per raggiungere questo scopo sarà anche necessario assegnare compiti e funzioni ulteriori alle reti esistenti – come quella delle tabaccherie – che, a precise condizioni, debbono esser messe in condizione di garantire servizi essenziali che in caso contrario verrebbero disattesi.

Un esempio paradigmatico sulle potenzialità dell’azione verticale ci viene invece offerto da una iniziativa assunta della Fondazione Aristide Merloni e dalla Fondazione Vodafone Italia, delle quali la Fondazione Magna Carta è partner per l’Abruzzo. Questa iniziativa consta di due progetti intitolati “Save the Apps”.

Nell’ambito di “Save the Apps” sono state realizzate applicazioni digitali per smartphone, grazie alle quali il progetto vorrebbe rappresentare un viatico per la valorizzazione del turismo e dell’enogastronomia con lo scopo ultimo di creare un indotto economico per le zone appenniniche che ricadono nei crateri dei terremoti del terzo millennio. Attraverso queste strade virtuali sarà possibile attirare persone in questi luoghi fantastici, terre di abbazie, chiese, castelli ed eremi che ancora oggi illustrano pagine fondamentali della nostra storia.  Sarà anche possibile far conoscere piccoli e medi produttori di olio, salumi, formaggi, legumi, paste e confetture, altrimenti confinati in spazi troppo ristretti per reggere alle esigenze dei mercati globali. Sarà infine possibile far giungere ordinativi da terre anche molto lontane, evitando i costi della pubblicità e saltando i passaggi dell’intermediazione e della distribuzione (anch’essi molto costosi).

Quanto fin qui esposto non è tutto ciò che si può fare ma è già qualcosa. Soprattutto, può segnare la strada che dovrà seguire chi intenderà contribuire a evitare la lacerazione del tessuto connettivo del Paese, l’abbandono di una parte del territorio, la perdita di bellezze che non hanno eguali al mondo.

 

Grazie.