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Roma, 17 aprile 2019

 

 

Questo è davvero un bel libro, scritto bene, asciutto, che va all’essenziale, mettendo a nudo la sostanza della questione e delle posizioni. Un libro appassionato, non neutrale, ma onesto e rigoroso. Leggendolo ho rivissuto quel periodo, che inizia nell’ottobre 2007, con la sentenza della Cassazione, ed entra nella fase più calda nel luglio 2008, con il decreto della Corte di Appello di Milano. Era da poco terminato il mio mandato di Presidente della CEI ma il mio successore, Cardinale Bagnasco, ha fatto i passi e gli interventi che avrei fatto anch’io: perciò ho manifestato espressamente la mia totale sintonia con lui, insieme al mio personale impegno, come risulta anche dal libro (pp. 45-46).

Sono particolarmente importanti le prime pagine, intitolate “Introduzione”, che mostrano quanto il clima e il contesto fossero distanti da quelli di oggi, quanto più forti fossero il coinvolgimento e la partecipazione, specialmente da parte della politica. Ha ragione Eugenia Roccella a sottolineare il ruolo della politica che nel caso di Eluana Englaro è stata davvero protagonista, ha preso l’iniziativa di fronte ai pronunciamenti della Magistratura e l’ha conservata fino alla fine, alla morte di Eluana, mentre in altri casi la politica ha piuttosto risposto a sollecitazioni di altre fonti, comprese quelle della CEI. Faccio solo una piccola precisazione, ovvia per non dire superflua: il referendum sulla legge della procreazione assistita non è stato un’iniziativa della CEI ma della sinistra, anche se la CEI  ha assunto la guida della linea che invitava all’astensione dal voto.

Oggi comunque, pur in un contesto molto diverso, il problema posto dalla vicenda di Eluana Englaro si ripropone, non più per un caso singolo ma in forza di una legge dello Stato, quella sul testamento biologico approvata nel dicembre 2017 e ora da completare dal Parlamento, secondo l’ordinanza della Corte Costituzionale, entro il prossimo 24 settembre.

Al riguardo vorrei osservare che la Corte ha sostanzialmente confermato ciò che avevamo denunciato quando la legge era in discussione, cioè che si tratta di una legge che di fatto introduce l’eutanasia, pur cercando di negarlo a parole. Oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che purtroppo avevamo ragione. Per me è particolarmente triste che testate e uomini di cultura cattolici abbiano allora negato il carattere eutanasico della legge, sebbene il Presidente della CEI, Cardinale Gualtiero Bassetti, affermasse con chiarezza che togliere la nutrizione e l’idratazione significa provocare la morte. Oso sperare  che ora quei cattolici non si allineino all’ordinanza della Corte Costituzionale.

Attualmente l’unica strada per tentare di evitare che venga introdotta in maniera esplicita l’eutanasia nell’ordinamento sarebbe quella di modificare la legge vigente, revocando la facoltà di sospendere l’alimentazione e l’idratazione. Sarebbe una modifica che qualificherei come “semplicemente umana”, ma che appare irrealizzabile con l’attuale Parlamento. Misuriamo così la profondità, e dal nostro punto di vista la gravità, del cambiamento intervenuto in Italia in questi anni. Sorgono inevitabilmente due domande: come tutto ciò è potuto avvenire? E, come tentare di rimediare?

Prima di cercare di rispondere vorrei accennare alle ragioni che sostengono il no all’eutanasia. L’argomento principale a suo favore è la rivendicazione della propria libertà. Argomento forte, senza dubbio, anche e vorrei dire particolarmente per un credente. La libertà è infatti una dimensione essenziale, forse la più rilevante, della dignità e della grandezza dell’uomo. Ed è anche consustanziale alla fede cristiana, per la quale Dio ci crea e ci ama liberamente e gratuitamente, mentre la croce di Cristo non ha senso se il peccato dell’uomo non è un atto di grande e terribile libertà e responsabilità, a seguito del quale l’uomo ha un radicale bisogno di essere redento. Perché dunque non consentire alla libertà di esprimersi fino al suicidio e all’eutanasia? La risposta è che non si può separare la nostra libertà dalla realtà del nostro essere: se va contro questa realtà la libertà si autodistrugge. Possiamo aggiungere che l’uomo è essenzialmente un essere in relazione e quindi la nostra libertà non può prescindere dal rapporto con gli altri: la decisione sulla nostra morte non riguarda dunque soltanto noi. Ancora, non potremmo essere liberi se all’origine della nostra libertà non vi fosse un’altra e più grande libertà, la libertà creatrice di Dio: se infatti fossimo soltanto frutto di una natura inconsapevole, governata dal caso e dalla necessità, da dove potrebbe venire la nostra libertà? E’ questo il fondamento e il senso di parole antiche, quali “la vita è sacra” e “la vita è dono di Dio”. Sono parole difficili da spendere nel dibattito pubblico, perché si viene subito accusati di attentato alla laicità, ma rimangono parole  sulle quali è salutare riflettere. Un mondo senza Dio, infatti, “non può essere altro che un mondo senza senso”, nel quale sia la vita personale che quella sociale perdono il loro orientamento, come Papa Benedetto non si è mai stancato di sottolineare, da ultimo negli “appunti” che ha reso pubblici pochi giorni fa.

Discorsi di questo genere possono suonare astratti, di fronte alle sofferenze concrete per le quali si invoca l’eutanasia, ma hanno il merito di condurci alla radice dei problemi. Sul piano concreto c’è da tener presente quel che comincia ad accadere nei Paesi nei quali l’eutanasia è legale da un buon numero di anni: la depressione, patologia oggi sempre più diffusa, è il vero motivo per il quale parecchie persone chiedono di morire. Un altro motivo è la carenza di adeguate cure palliative, che contrastino il dolore fisico. Per non dire dei casi in cui l’eutanasia è praticata ai disabili mentali senza un loro autentico consenso, che per lo più non sarebbero in grado di dare. Su questi argomenti è uscito su Avvenire del 16 marzo scorso un buon articolo di Carlo Bellieni.

Torniamo alla domanda che abbiamo lasciato in sospeso: come è potuto avvenire il grande cambiamento di questi anni? Ci sono motivi di fondo che investono l’Italia come tutto l’Occidente, e non solo l’Occidente: la forza della secolarizzazione, o forse più esattamente della scristianizzazione, la cultura dei diritti, o meglio dei desideri che si pretendono diritti, le opzioni sempre nuove aperte dalle biotecnologie. Ma ci sono anche motivi specifici che è onesto riconoscere. Da qualche anno si è allentata la collaborazione tra i cattolici che operano in politica e il “mondo cattolico” nel suo complesso, e diciamo pure la Chiesa e la sua Gerarchia. C’è chi vede in questo uno sviluppo positivo, perché verrebbero valorizzate l’autonomia e la responsabilità propria dei laici. In realtà, però, i politici cattolici vengono a trovarsi isolati e privi del loro retroterra, mentre il mondo cattolico e la stessa Gerarchia rischiano di abdicare a quello che è un loro preciso dovere, prima che un diritto, di rinunciare cioè a testimoniare con forza e chiarezza la verità umana e cristiana in materia di etica pubblica. Il risultato, purtroppo, è l’irrilevanza, che ha comportato la fine di quella che era chiamata “l’eccezione italiana”, rispetto all’Europa occidentale, sui temi della vita e della famiglia.

Senza illuderci di ripristinare la situazione precedente, possiamo e dobbiamo cercare di ritornare a essere un interlocutore incisivo, in ambito culturale e anche politico. Personalmente rimango convinto che a questo fine è indispensabile ristabilire, sui grandi temi antropologici ed etici, una positiva sinergia tra i politici cattolici e il loro naturale retroterra, compresi noi vescovi. Una sinergia cordialmente aperta a quei “laici” che condividono la sollecitudine per alcuni valori umani essenziali.

In concreto, quanto alla legge sul testamento biologico, si dovrebbe tentare almeno di introdurre la possibilità dell’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari, obiezione che tra l’altro è un aspetto di quella libertà alla quale sempre si richiamano coloro che sostengono l’eutanasia.

Mi sia lecito un ultimo accenno al rapporto tra fede e cultura. Troppe volte, infatti, questo rapporto viene meno e posizioni oggettivamente incompatibili con la dottrina cattolica vengono assunte e anche rivendicate da persone che si dicono e intendono essere sinceramente cattoliche. Ciò accade non solo in Italia ma in molti altri Paesi, ad esempio negli Stati Uniti d’America, dove i dibattiti di etica pubblica sono più frequenti e più vigorosi che da noi. In casi del genere la fede non riesce a essere ciò che dovrebbe: un fondamentale criterio di indirizzo e di orientamento per la nostra vita e le nostre scelte. I criteri di questo tipo sono una dimensione basilare della cultura e si possono ritrovare in un analfabeta non meno che in un intellettuale. Anziani contadini che ho conosciuto nella mia giovinezza erano esempi viventi di tutto ciò. Se non cresceremo sotto questo profilo siamo condannati, come cristiani, a una crescente irrilevanza o insignificanza, tale da paralizzare le nostre capacità di testimoniare e di agire efficacemente, non solo nella sfera pubblica ma anche in quella personale e quotidiana. C’è dunque un grande lavoro da fare, per vivificare e potenziare il rapporto tra fede e cultura. Questa era anche la sostanza del “progetto culturale” al quale, come CEI, abbiamo lavorato per parecchi anni.