Di seguito pubblichiamo la relazione del presidente Gaetano Quagliariello in relazione alla presentazione tenutasi ieri e riguardante il volume intitolato “Il ‘diritto’ di essere uccisi: verso la morte del diritto?”
Qualche settimana fa il tema dell’eutanasia è tornato a occupare le prime pagine dei giornali. Forse perché finalmente ci si è resi conto che, in assenza di iniziative legislative, tra appena novantuno giorni ci troveremo con la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio ad opera della Corte Costituzionale? No. E’ tornato a occupare le prime pagine per la tragica vicenda di Noa, una diciassettenne olandese malata di depressione per una violenza subìta, morta di eutanasia.
Intenzionalmente parto da Noa, e intenzionalmente utilizzo il termine eutanasia. Non è un caso, infatti, che in Italia molti dei più accaniti fautori della ‘dolce morte’ si siano affrettati a cercare di far credere che in senso strettamente tecnico la morte della giovane con l’eutanasia avesse poco a che fare. Non è un caso neppure che altri paladini della morte su richiesta e dell’autodeterminazione assoluta abbiano specificato che in circostanze come queste l’eutanasia non dovrebbe essere ammessa.
Ora, sulle dispute terminologiche in questa sede non voglio entrare. Chiamatela eutanasia, chiamatelo suicidio medicalmente assistito, ma una ragazza che interrompe l’assunzione di acqua e cibo e viene accompagnata alla morte da una equipe medica non si è spenta di morte naturale. Il punto tuttavia è un altro. Il punto è che Noa ha spezzato la narrazione, che non a caso fin qui era stata costruita su casi limite, estremi, al cospetto dei quali fosse agevole far passare nell’immaginario pubblico la morte su richiesta come atto pietoso e liberatorio e l’opposizione ad essa come accanimento cinico e spietato.
Sulla storia di questa ragazza il corto circuito è stato evidente. Se si è favorevoli all’eutanasia in nome dell’autodeterminazione assoluta, perché impedire a una giovane depressa di farvi ricorso? Se il parametro per l’accesso alla morte su richiesta è una sofferenza tale da rendere la ‘qualità della vita’ al di sotto degli standard di efficienza richiesti da una società nichilista che – per dirla con il professor Ronco – tende all’eliminazione degli ‘inadatti’, chi può arrogarsi il diritto di stabilire che una sofferenza sia più sopportabile di un’altra? Se il criterio è la volontà del singolo, perché in alcuni casi questa volontà dovrebbe essere sacra e in altri sarebbe lecito e addirittura doveroso disattenderla? Forse perché le immagini della giovane e bella Noa sono meno impressionistiche di quelle di un disabile grave e sono meno funzionali alla narrazione, o addirittura controproducenti, all’estremo del piano inclinato sul quale ci si muove?
Ma quello olandese non è l’unico paradosso regalatoci dalla stretta attualità. Se nel caso di Noa i paladini dell’eutanasia si sono affrettati a prendere le distanze, il loro silenzio è parso addirittura surreale rispetto alla vicenda di Vincent Lambert, il cui destino è in queste ore nelle mani della Cassazione francese chiamata a pronunciarsi sulla sua morte per fame e per sete in assenza di qualsiasi manifestazione di volontà pregressa in tal senso. Anche in questo caso la domanda è d’obbligo: se la stella polare è l’autodeterminazione, chi ha il diritto di decidere in sua vece che Vincent Lambert deve morire? Nel caso di Eluana si è fatto in modo che una Corte si arrogasse la presunzione di ricostruire una presunta volontà in nome di asseriti stili di vita; nel caso di Vincent nemmeno questo. Ma se Lambert non ha chiesto di morire, perché qualcuno dovrebbe decidere per lui, al punto che oggi siamo in attesa che un’alta corte decida addirittura di un ricorso del governo contro un precedente pronunciamento giudiziario che lo aveva sottratto alla morte certa? Insomma: perché la volontà è sacra quando è indirizzata verso la morte e diviene una variabile pressoché irrilevante quando propende per la vita?
Questo è ciò che accade quando la presunta libertà finisce per negare se stessa. E’ ciò che accade quando si cerca di trasformare una possibile libertà empirica – come quella di un essere umano di togliersi la vita – in un diritto esigibile a morire. Perché il diritto esigibile impone in capo allo Stato il dovere di garantirne l’esercizio. Il che significa l’interposizione giuridicamente rilevante e legalmente obbligata di una persona ai fini dell’uccisione di un’altra persona.
Questo è ciò di cui parliamo quando affrontiamo il tema del fine vita, e nella fattispecie dell’ordinanza della Corte Costituzionale sul caso “dj Fabo – Cappato”. Perché è vero, come si afferma anche in questo bellissimo volume, che qualificare automaticamente come eutanasia passiva qualsiasi sospensione di determinati trattamenti terapeutici rischia di essere un argomento funzionale alla narrazione avversaria, legittimando di fatto, per via analogica, l’eutanasia attiva. Ma è altrettanto vero che la sospensione di idratazione e alimentazione è a tutti gli effetti una pratica eutanasica che conduce alla morte per fame e per sete con l’intervento di una terza persona, ed è su questa norma eutanasica dalla quale avevamo a suo tempo messo in guardia, prevista dalla pessima legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, che la Consulta si è innestata per affermare che se un cittadino ha diritto di farsi indurre la morte per fame e per sete tramite distacco di un sondino, non c’è motivo per impedirgli di raggiungere lo stesso risultato più rapidamente e con meno sofferenze tramite una iniezione di Pentobarbital.
Cari amici, l’ho presa alla lontana per introdurre l’odierna presentazione perché questo bel volume centra esattamente il punto nodale alla base della grande questione antropologica del nostro tempo. Una questione che, come dimostra Alfredo Mantovano nella sua premessa, interpella i credenti e allo stesso modo i non credenti. Una questione che investe la nozione di libertà, la sua essenza e i suoi limiti; la messa in dubbio dell’indisponibilità della vita come principio fondativo della convivenza civile; la progressiva sostituzione del “best interest” alla stessa autodeterminazione, per cui, come abbiamo visto, la soppressione del fragile è prioritaria anche rispetto alla sua stessa autodeterminazione; e ancora, l’affermarsi del primato della qualità della vita sulla dignità della vita, causa ed effetto di tanti sbagli che hanno segnato la stessa civiltà occidentale, la cui genesi ideologica e giuridica in queste pagine è ricostruita con efficacia impressionante.
In gioco c’è la presunzione fatale, oserei dire totalitaria, di poter tutto determinare, tutto pianificare, tutto controllare, tutto giudicare. Una presunzione che nello scorso secolo è stata sperimentata con gli esiti che sappiamo in campo socio-economico, e ai nostri giorni investe appieno l’ambito antropologico, col risultato di degradare la verità dell’uomo a un’essenza meramente naturalistica e materialistica, salvo poi contraddire persino il dato di natura quando dal tema della morte ci si sposta su quello della nascita e dunque dell’origine della vita.
Quello che è sommamente preoccupante è che, a differenza di quanto accaduto in passato in occasione di altre cesure legislative che hanno inciso sul tessuto connettivo della nostra civiltà, in questo caso rischiamo di trovarci l’eutanasia attiva nel nostro ordinamento senza nemmeno accorgercene, per sentenza, senza neanche renderci conto del come e del perché.
Il problema è che di tutto ciò eravamo stati avvertiti. E’ trascorso invano quasi il tempo di una gravidanza, da quando una singolare innovazione giurisprudenziale della Corte Costituzionale ha sostanzialmente dato un ultimatum al Parlamento. Sappiamo bene che gli equilibri parlamentari non sono di facile gestione, ma sappiamo anche che, ancorché flebile, l’unica speranza di vincere una battaglia è combatterla. Le proposte non mancano: ce ne sono anche da parte nostra al Senato, ora ho letto che ne è giunta una alla Camera. Siamo chiamati, tutti, a dimostrare che i princìpi che professiamo come non negoziabili nei nostri discorsi pubblici, lo sono anche quando si tratta di mettere in gioco una quota di capitale politico, ciascuno secondo il proprio ruolo, ciascuno secondo la propria possibilità di incidere sulla realtà. Astenersi dal provarci, significherebbe siglare preventivamente la resa. E, dopo aver letto questo libro, forse anche chi pensava di poterselo permettere cambierà idea.