Chi conosce la Fondazione Magna Carta e segue abitualmente le attività che la contraddistinguono avrà notato che questo è il secondo anno in cui, durante la sessione di bilancio, proponiamo un dibattito sulla certezza dell’imposizione fiscale prendendo ad esempio ogni volta un settore particolarmente colpito.
Credo di poter affermare che, data la rilevanza del problema e data la scarsa – per non dire nulla – sensibilità dei recenti governi in merito, questo diverrà un appuntamento annuale. Ogni anno, fino a che non riusciremo ad inserire anche nel nostro Paese un calendario fiscale che semplifichi la vita a tutte le imprese, e fino a che ci saranno settori economici trattati come bancomat dallo Stato, riporteremo questo dossier sul tavolo della discussione politica e lo riproporremo all’attenzione della maggioranza e del governo di turno.
Non scopro nulla di nuovo se ricordo che il sistema fiscale è una delle variabili di maggior impatto sulla dinamica economica di un Paese. Nel nostro Paese, tuttavia, il problema non risiede solo nella quantità – pur eccessiva – di imposte che vengono richieste alle imprese, ma anche nel modo in cui queste vengono richieste. Quantità e qualità sono due facce della stessa medaglia.
Infatti, il peso combinato della pressione fiscale e della complessità dell’architettura tributaria è un macigno che grava sulla prosperità economica italiana: percentuale di oneri tributari, architettura istituzionale e struttura burocratica contribuiscono in maniera decisiva alla competitività del Paese, introducendo incentivi o disincentivi (questo secondo il caso nostrano) alla creazione di imprese, nella loro produzione, sul comportamento delle famiglie e sulle scelte di investimento.
Molti di voi seduti in sala lo sanno meglio di me: il nostro Paese non ha solo il solo problema – oramai fin troppo noto – dell’asfissiante pressione fiscale sulle attività economiche e produttive, che in alcuni casi va oltre la sogli a del 60%. Accanto a questo pesano le perseveranti inefficienze, i quotidiani paradossi e nonsensi figli di una giungla di stratificazioni normative, che rappresentano un costo ulteriore a scapito della competitività delle nostre aziende, dell’attrattività del nostro Paese come destinazione per nuovi investimenti e insediamenti produttivi, e che riducono progressivamente la probabilità che le grandi aziende multinazionali scelgano di mantenere nel nostro paese parte dei loro insediamenti.
Questo è il risultato di decenni di politiche fiscali orfane di una strategia e di una visione, totalmente scollegate dalle politiche economiche e industriali. É il lascito dell’assenza di programmi a medio termine e della prevalenza, invece, di interventi fiscali schizofrenici, dettati dall’urgenza di coprire oneri finanziari volti quasi sempre al soddisfacimento di misure elettorali e finalizzate alla capitalizzazione di consenso immediato. Il tutto è aggravato dalla sovente pretesa di valutare “eticamente” i vari settori economici, dividendoli in “settori buoni” e “settori cattivi”, e di utilizzare questa suddivisione come pretesto per massacrare attraverso lo strumento del prelievo fiscale alcune imprese senza avere sensi di colpa, senza porsi il problema delle conseguenze di queste iniziative sui livelli occupazionali, sull’indotto, sui distretti industriali tipici del nostro tessuto produttivo.
Gli esempi sono molti. Lo scorso anno abbiamo parlato del tabacco, oggi parleremo più a fondo di giochi, ma potremmo citarne altri: gli idrocarburi, il farmaceutico, la chimica, per rimanere sull’attualità….il siderurgico.
Non voglio anticipare i punti salienti del paper prima del tempo, ma il caso della tassazione sui giochi che è cambiata (naturalmente a rialzo) 5 volte nell’ultimo triennio e che, secondo il decreto legge fiscale collegato alla manovra attualmente in esame alla Camera, subirà una nuova impennata a partire dal 10 febbraio 2020 e un ulteriore aggravio nel 2021, rappresenta un caso di scuola su come fornire una forte motivazione alle aziende – sopratutto quelle di grandi dimensioni – a delocalizzare le attività economico-produttive in altri Paesi dove la tassazione è più bassa e fissa (vedi i Paesi dell’Europa dell’Est) o dove la programmazione fiscale – e quindi la certezza dell’esborso in capo alle aziende – ha un respiro almeno triennale (ad esempio in Germania).
Sono stato felice – e confesso anche un po’ sorpreso – di leggere le recenti dichiarazioni del Sottosegretario Baretta nelle quali sosteneva che: “una delle questioni che stanno più a cuore degli imprenditori è la prevedibilità dell’imposizione fiscale. Quello del calendario fiscale è una delle proposte a cui sto pensando, a partire dal settore del gaming” e ha continuato sostenendo che “c’è bisogno di una visibilità a medio periodo. Quindi in qualche modo c’è bisogno di un calendario fiscale che preveda una progressione di imposta, ma che garantisca anche che questa è, a distanza di qualche mese o di un anno” e ha terminato con un auspicio: “ritengo sia un tema che va introdotto nella riflessione collettiva.”
Ecco, mi permetto di controbattere al Sottosegretario che Spiace che la riflessione collettiva parte proprio da qui, oggi, e che se avesse voluto accettare il nostro invito ad intervenire, proprio questa avrebbe potuto essere l’occasione per concretizzare i suoi auspici e affrontare finalmente con fermezza il problema della prevedibilità della politica fiscale italiana, la cui unica certezza e costante è l’elevato grado di pressione tributaria.
Ma faremo comunque arrivare a Via XX Settembre, per il cortese tramite del Consigliere Antonio Malaschini, che ringraziamo per essere qui con noi, il nostro contributo di riflessione e proposta.
Riprendendo il nostro ragionamento, quindi, possiamo affermare che da un lato le imprese hanno bisogno di avere certezze in anticipo in vista della programmazione dei loro investimenti e, in base a queste certezze, di avere un’idea precisa di quando e come debbano assolvere gli obblighi tributari e a quanto ammonteranno questi obblighi. Dall’altro, il governo dovrebbe fornire alle imprese e al mercato maggiori informazioni rispetto alle proprie intenzioni. Più informazioni sui comportamenti attesi si hanno, meglio il mercato può reagire alle decisioni. Questo non significa porre un limite al governo nella propria azione, ma solamente aumentare la trasparenza delle scelte e la sinergia con le attività produttive, in maniera tale che le decisioni possano essere anticipate per permettere alle imprese, ai consumatori e al mercato tutto di adattarsi in maniera libera e consapevole alle policy promosse dall’esecutivo.
Come arrivarci?
A mio parere basterebbe ripensare il Documento di Economia e Finanza (DEF), che già rappresenta il principale strumento di programmazione economico-finanziaria in Italia e che ha il compito di indicare la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine.
Il DEF potrebbe e dovrebbe svolgere proprio una funzione di questo tipo, introducendo una serie di informazioni relative alla programmazione fiscale su base triennale, in cui si anticipano la direzione degli interventi (introduzione o rimozione di tasse) e le modifiche attese (variazioni nelle aliquote, modifica delle accise).
I benefici sarebbero molti: oltre al già citato effetto informativo sul mercato, si produrrebbero incentivi per i governi a non deviare eccessivamente da quanto si è dichiarato, con l’effetto indiretto di limitare molte delle tipiche promesse elettorali che rimangono puntualmente disattese e con il risultato di spostare finalmente l’orizzonte delle scelte in materia fiscale al medio termine.
In teoria, anche oggi il DEF dovrebbe contenere informazioni sulle scelte economiche future, ma nella pratica buona parte di esse rispondono all’esigenza di “far tornare i saldi” attraverso un estensivo ricorso a clausole di salvaguardia, che vengono formalmente agitate, ma sostanzialmente smentite e rinviate di anno in anno. Questo concorre a determinare l’impossibilità di scorgere quale sia l’evoluzione fiscale su un orizzonte anche soltanto annuale.
Su come garantire il rispetto da parte del governo e della maggioranza di tali previsioni nell’arco del triennio, naturalmente prevedendo opportune deroghe in caso di eventi gravi ed eccezionali, si potrebbe discutere. Una delle possibili strade potrebbe essere affiancare il principio di programmazione fiscale triennale a quello del pareggio di bilancio in Costituzione. Probabilmente altre strade, meno gravose, potrebbero essere prese in considerazione.
Lascio questa riflessione sul tavolo e la propongo agli illustri relatori, che colgo per ringraziare a nome mio e della Fondazione Magna Carta, per essere qui con noi oggi.
La parola quindi ad Emanuele Canegrati che ci illustrerà brevemente il paper da lui curato e a seguire affido la discussione nelle ottime mani di Mario Sechi, Direttore dell’Agenzia giornalistica AGI.