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Pubblichiamo la versione scritta dell’intervento di Gaetano Quagliariello al convegno “D’Annunzio legislatore. Costituzioni, visioni, utopie dell’impresa fiumana” che si è svolto a Pescara il 4 e 5 Settembre 2020

 

Il combattentismo del primo dopo-guerra fu un mondo composito dal punto di vista antropologico, culturale e ancor più dal punto di vista politico: un “medesimo” contenitore nel quale confluirono diverse correnti, anche tra loro contrastanti. Sotto l’aspetto culturale, il paradigma egemone fu certamente lo hegelismo: egemone, però, non esclusivo. E poi, si parla pur sempre di  “paradigma”: da esso sarebbero derivate differenti declinazioni.

Chi intende addentrarsi nell’universo combattentistico, d’altro canto, non può fare a meno di partire dal “classico” di Giovanni Sabbatucci che per primo ha indagato il fenomeno e deve, perciò, prendere le mosse da quella che costituisce la principale premessa della sua analisi: «Le fratture che dividevano dall’interno il mondo combattentistico erano numerose e profonde, tanto da provocare una scissione molto difficile da ricomporre. Ciò non toglie che, nonostante tutto, sia pur sempre possibile identificare un terreno comune fra i due filoni e le varie correnti, l’embrione di un discorso unitario che sopravvive a tutte le divisioni e che permette di ravvisare nel combattentismo una categoria politico-ideologica dotata di suoi tratti specifici».

Si potrebbe obiettare: le divisioni all’interno del mondo dei combattenti, dal punto di vista politico, riflettevano quelle che avevano solcato l’interventismo nei giorni nei quali era in discussione la partecipazione dell’Italia alla guerra: un mondo composito che resta insieme fin quando c’è da raggiungere un obiettivo, per inevitabilmente dividersi il giorno dopo. E, a supporto di tale obiezione, si potrebbe citare Gioacchino Volpe. Il grande storico, infatti, aveva sì affermato in polemica con Benedetto Croce che “il movimento interventista (era) destinato a riapparire, sotto altre forme e nomi, dopo la guerra”.  Ma non aveva esitato, ne Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915), a evidenziare quanto composito e cangiante fosse quel mondo: tanto cangiante che la necessità di evidenziare, per verità e onestà storica, come per Mussolini l’intervento non fosse stata una scelta scontata e originaria, lo aveva consigliato, nel corso del Ventennio, a ricoprire quello studio con il velo dell’oblio.

E poi, nel valutare il rapporto tra le radiose giornate e la necessità di organizzare politicamente il mondo dei reduci bisogna tener conto almeno di due grandi fenomeni storici. Il primo è, appunto, la guerra stessa, con gli sconvolgimenti politici, economici, spirituali e antropologici che essa porta con sé. Ce lo ricorda Giovanni Gentile in un’analisi sulle origini del fascismo con la quale nega la vulgata per la quale il Ventennio sarebbe da considerarsi innanzi tutto una reazione della rivoluzione bolscevica. Scrive il filosofo: “Il fascismo è figlio della guerra: e perciò principalmente dicevo che la spiegazione  della dottrina fascista va cercata più nei fatti che nei libri: nei fatti, che sono idealmente più significativi delle più ben costrutte teorie. Giacché la guerra, o Signori, ha molteplici aspetti: e perciò è molto facile vederla sotto una luce che la rappresenti come una semplice fatalità storica, come una conseguenza prosaica di inevitabili contrasti economici di Stati o di gruppi plutocratici, come l’urto di civiltà e di ideologie, ecc. ecc.: come tutto, tranne che come quel grande fatto spirituale, che ha profondamente sommosse tutte, per così dire, le zolle della mentalità e del sentimento dei popoli, e gettato negli animi nuovi germi di vita e nuovi bisogni; e cioè nuove idee e nuove fedi. Ma questo appunto è, se ben si rifletta, l’aspetto storicamente più importante da cui la guerra va guardata”.

Il secondo fenomeno, che ci avvicina a Fiume, è il dopo-guerra e, più precisamente, la gestione della pace da parte di una classe politica liberale la quale era stata intimamente lacerata dagli avvenimenti e dalle dinamiche che avevano condotto all’intervento. Robert Gerwarth ci ha descritto la rabbia dei vinti. Nel considerare i fatti che caratterizzarono il combattentismo italiano bisogna ancor più tener conto della rabbia di alcuni tra i vincitori: quelli che ci avevano creduto ma che i fatti portarono a ritenere il loro sacrificio e la morte di tanti di loro alla stregua di “un inutile spreco”.

Fermiamoci, brevemente, a indagare la genesi di questo sentimento. Alla ripresa della vita politica, dopo la sospensione bellica, quanti nella fase dell’interventismo avevano sostenuto di entrare in guerra a fianco dell’Intesa su posizioni democratiche e mazziniane si trovarono, indubbiamente, in una situazione di forza morale e politica. Dopo una lunga fase d’eclissi, l’ultimo anno del conflitto li aveva nuovamente posti al centro della scena. Gli esponenti più in vista di questa corrente furono in prima linea nell’opera di propaganda presso le truppe, posto in atto dopo Caporetto. Il loro nazionalismo democratico, inoltre, trovò un interprete privilegiato nel Presidente americano Woodrow Wilson. Per molti aspetti, i suoi 14 punti, declamati per la prima volta l’8 gennaio 1918 davanti al Congresso americano, sembrarono rinverdire e conferire modernità ai loro originari ideali mazziniani. Ed essi, naturalmente, furono i beneficiari, in ambito interno, di quell’ondata di simpatia che nel primissimo dopo-guerra investì anche in Italia gli Stati Uniti d’America e il suo Presidente. Di queste dinamiche è possibile scorgere tracce evidenti nella stampa di trincea, nei giornali vicini all’arcipelago combattentistico come, ad esempio, l’Unità di Gaetano Salvemini, nelle cronache interne della neonata Associazione Nazionale Combattenti (A.N.C.).

Il clima cambia quando ha inizio la Conferenza di Pace che s’inaugura a Versailles il 18 gennaio 1919 e, in particolare, quando si evince chiaramente che il Presidente Wilson, non legato da alcun vincolo a quel documento, non intende riconoscere gli impegni contenuti nel Patto di Londra. La situazione dell’Italia poi è resa ancor più precaria dalla gestione della Conferenza da parte della sua delegazione e, in particolare, dai contrasti tra il Ministro degli Esteri Sonnino, sostenitore di una linea più intransigente e il Presidente del Consiglio Orlando, disposto a transigere sul rispetto integrale del Patto in cambio di un riconoscimento del principio di nazionalità che avrebbe consentito all’Italia di avanzare pretese sulla città di Fiume la cui collocazione non era contemplata dagli accordi di Londra. Tali conflitti interni, che in realtà riflettevano le scissioni del mondo liberale italiano all’indomani del conflitto, indebolirono la posizione negoziale del nostro Paese e spinsero Wilson a prendere la decisione di rivolgersi direttamente all’opinione pubblica italiana, bypassando la delegazione e il governo. Il 23 aprile del 1919 fu pubblicato il proclama agli italiani del Presidente americano, il giorno dopo la delegazione italiana a Versailles, in segno di protesta, abbandonò i lavori.

Quel gesto rappresenta a posteriori l’esempio paradigmatico del perché, in politica, quando si fa un passo bisogna già aver previsto il successivo. I lavori della Conferenza, infatti, andarono avanti; la posizione diplomatica dell’Italia si indebolì ulteriormente fino a configurare i rischi dell’isolamento e quindi dell’irrilevanza. E così il 7 maggio la delegazione tornò al tavolo delle trattative dopo che nel Paese era stato alimentato un clima di sfiducia e di frustrazione.

Questi fatti segnano il preludio a un necessitato cambio di governo: Nitti succede a Orlando e il 10 settembre annuncia la firma del Trattato di Saint Germain, con il quale vengono stabiliti i confini italo-austriaci mentre si lasciano impregiudicati quelli orientali. Due giorni dopo scattò l’occupazione  di Fiume, che in realtà si preparava da tempo. Essa segna ufficialmente il tramonto nel nostro Paese della fascinazione wilsoniana; di più: D’Annunzio le concede la forza evocativa per proporsi come una rivolta mondiale contro i 14 punti del Presidente americano.

Nello stesso lasso di tempo partiva la campagna elettorale per le elezioni legislative che si sarebbero svolte solo due mesi più tardi, il successivo 16 novembre: le prime del dopo-guerra e le prime governate dal sistema elettorale proporzionale. Per questa contingenza cronologica il nesso tra Fiume e le dinamiche elettorali non può che proporsi come un terreno d’indagine privilegiato per chi voglia indagare e ricostruire le evoluzioni che caratterizzarono il combattentismo italiano del primo dopo-guerra. E lo scandaglio della ricerca va portato, parallelamente, sia nelle vicende interne ai movimenti che supportarono l’impresa fiumana sia nelle dinamiche elettoral-parlamentari che videro protagonisti i combattenti. Il che significa, soprattutto, incrociare la storia di due ambiti del reducismo: quello degli arditi e quello dei combattenti “normali”. Si potrebbe parafrasare, in termini politico-organizzativi: quello delle avanguardie e quello delle organizzazioni di massa. 

Per quanto concerne il primo ambito di ricerca, il “classico” che Giorgio Rochat ha consacrato agli arditi nella Prima Guerra Mondiale ci ha chiarito come e quanto D’Annunzio a Fiume attinse a piene mani dai miti e dai riti di questo settore speciale di combattenti. Da ultimo Antonio Scurati – non uno storico ma uno che sa impregnare di storia i suoi romanzi – nel suo racconto del Ventennio rappresenta il Vate vestito d’ardito, circondato da arditi, con gli arditi che costituiscono la sua “guardia stretta” e nelle sue pagine risuona l’eco delle canzoni di guerra cantate a squarciagola nelle bettole della città liberata. Tutto ciò, inevitabilmente, avrebbe spinto l’opinione pubblica a ritenere che gli arditi fossero a Fiume i protagonisti assoluti e l’impresa stessa un proseguimento delle loro gesta di guerra. Tale interpretazione, d’altro canto, fu avvalorata a posteriori dallo stesso D’Annunzio che, per metter fine ai contenziosi tra la sua persona e l’Associazione Nazionale che riuniva gli arditi (ANAI), il 26 aprile 1921 dichiarò: «Quando mi parlano di dissapori fra legionari e arditi, io mi ribello come ad un assurdo. Non sono forse stati gli arditi a conquistare Fiume? E i miei legionari non erano per tre quarti composti da arditi? Non intendo perciò che vi siano delle divergenze di sorta perché siamo animati da una stessa fede, per un solo ideale». D’Annunzio, d’altro canto, aveva sempre inteso suggellare il fatto che Fiume fosse stata salvata dai volontari della giovinezza di guerra, che sarebbero riusciti laddove  un’imbelle vecchia classe dirigente aveva invece fallito. 

Questa rappresentazione dei fatti, ai fini della nostra analisi, è di gran lunga più importante della verità storica degli stessi. Le ricerche hanno ampiamente dimostrato come l’apporto alla sedizione da parte degli arditi fu assai minore di quanto si è inteso far credere. Ha anche ricostruito come  divisioni e screzi tra le organizzazioni ufficiali degli arditi e il Vate, a partire dal 1919 e per tutti gli anni a seguire fino alla vittoria del fascismo, furono all’ordine del giorno: una tessera del puzzle tattico che gli arditi composero e disfecero nel tentativo di preservare almeno in parte autonomia e peso politico.

I primi aggiustamenti tattici si produssero già nei mesi che precedettero l’impresa fiumana. Mario Carli fu giornalista e scrittore futurista, fu con D’Annunzio a Fiume e a Roma aggregò un gruppo di giovani dal cui sodalizio derivarono poi due esperienze politicamente agli antipodi quali il Fascio di combattimento romano e gli Arditi del Popolo. Nelle sue memorie si legge che dopo la fondazione dei Fasci di Combattimento il 23 marzo 1919, alla cui riunione Carli fu presente, in occasione del secondo congresso del movimento fascista, nel maggio 1920, si ebbe una prima fase di distacco tra il vertice dell’arditismo e il Fascismo. In quell’’occasione si palesò la volontà politica di Mussolini di accantonare in chiave tattica la pregiudiziale repubblicana ed anti-clericale, di cui erano portatori Carli e Marinetti, e ciò costituì motivo di allontanamento fra settori Ardito-futuristi e il movimento fascista. La questione di Fiume aveva approfondito questo iato.

Quel che accadde nei rapporti tra arditi e fascisti nel 1919 si sarebbe in seguito replicato a parti invertite tra arditi e legionari sempre nel tentativo, da parte delle organizzazioni degli Arditi, di sottrarsi allo stabilirsi di una egemonia politica assoluta – fosse questa di Mussolini o di D’Annunzio – che ne avrebbe infine assorbito la forza. In sintesi, si potrebbe affermare che arditi, futuristi, fascisti e dannunziani si mossero tutti nella stessa area rivoluzionaria che utilizzava le istituzioni ufficiali solo come sponda tattica per i loro propositi sovversivi e che i loro contrasti furono determinati dalla conquista dello spazio che la grande riscossa reazionaria post-bellica concedeva loro. Così, nel 1920 gli arditi si sarebbero appoggiati a Mussolini per sottrarsi al dominio di D’Annunzio al vertice delle sue fortune politiche; nel 1921 tornarono a consacrare la leadership dannunziana, proprio perché questa nel frattempo era stata ridimensionata dagli avvenimenti che si erano prodotti, per sottrarsi all’assorbimento in un movimento fascista in piena espansione. Finché Mussolini non vinse definitivamente la partita.

Queste dinamiche interne a un medesimo universo reazionario, ma non di meno rivoluzionario e anti-parlamentare che l’impresa di Fiume giunse ancor più a rafforzare, (lo stesso Mussolini, che in fondo la ritenne alla stregua di un velleitario tentativo che avrebbe inevitabilmente condotto in un vicolo cieco, si guardò sempre bene dallo sconfessarla) aiuta a comprendere anche gli ambigui rapporti che si svilupparono tra gli arditi che facevano parte di quest’universo e gli Arditi del Popolo, che nacquero tra giugno e luglio 1921 dalla sezione romana dell’Anai, per opera di un pugno di aderenti capeggiati dal tenente Secondari, con lo scopo dichiarato di difendere con la forza le masse lavoratrici dalle aggressioni fasciste.

E’ divenuto ormai quasi un luogo comune che “durante i suoi 16 mesi di vita sotto la Reggenza del Carnaro, Fiume fu e rappresentò molte cose assieme, anche fortemente contrastanti(…): un avamposto del nazionalismo, la capitale futurista d’Italia, il preludio alla marcia su Roma e una sorta di repubblica dei Soviet». Andrea Augello in un apprezzabile studio sull’arditissimo romano ha ricostruito la trama delle liaison dangereux che, a partire dal 1919,  ha alimentato tale percezione: “prima che brilli la luce di Fiume, richiamando come falene Arditi, anarchici, nazionalisti, sindacalisti e rivoluzionari di ogni specie, Mosca aveva attratto l’attenzione dei fascisti di sinistra e di non pochi futuristi”. 

D’Annunzio poi, collocando il nazionalismo in una visione internazionalista tanto aperta da comprendere, tra i potenziali alleati della rivoluzione fiumana, fin anche i soviet, rinsaldò queste commistioni. Ed esse, d’altra parte, non sfuggirono ai più lucidi tra i dirigenti bolscevichi se è vero che al II Congresso dell’Internazionale Comunista – una pietra miliare nelle dinamiche interne al comunismo – che si svolse dal 19 luglio al 7 agosto del 1920, Gramsci e Lunačarskij non casualmente ritengono che gli italiani che facevano parte dell’universo lato sensu d’annunziano dovessero considerarsi a tutti gli effetti veri e propri «rivoluzionari». E Lenin medesimo dirà a Giacinto Menotti Serrati che, come direttore dell’Avanti!, si era recato a Mosca a respirare il nuovo comunismo: «In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D’Annunzio e Marinetti».

Il quadro delle commistioni, dei tatticismi, delle liaison dangereux, d’altro canto, cambia ma non si semplifica qualora dall’analisi delle avanguardie ci si sposta a quella delle organizzazioni di massa.

Nell’analisi di tale segmento, si può iniziare dal giudizio di Antonio Gramsci che rintracciò nell’Associazione Nazionale Combattenti l’abbozzo del primo partito politico laico di massa sviluppatosi nel Mezzogiorno d’Italia in età unitaria. Ed in realtà, quando il wilsonismo era ancora in auge, nel giugno del 1919, al primo congresso dell’ANC, fu avanzato il proposito di dar vita a un soggetto politico autonomo dei combattenti (l’Unione di Rinnovamento Nazionale) che, tra l’altro, avrebbe consentito all’Associazione di concentrare il proprio impegno innanzi tutto su compiti di tutela economica ed assistenziale. Il programma immaginato per il nuovo partito configura una forza di democrazia radicale, terza e intermedia tra i due grandi partiti di massa che s’intravvedevano già all’orizzonte: riaffermazione del ruolo della nazione in opposizione alle ideologie internazionaliste e necessaria compenetrazione tra il concetto di patria e quello di umanità; revisione dello Statuto Albertino; decentramento amministrativo e regionale; abolizione del Senato e sua sostituzione con i Consigli elettivi del lavoro; abolizione delle prefetture; riforma dei consigli comunali e provinciali; rafforzamento del ruolo di formazione etica della scuola pubblica; liberismo economico; promozione della piccola proprietà terriera e potenziamento della cooperazione in vita del superamento delle divisioni di classe. Pochi mesi più tardi, in vista delle elezioni legislative, Gaetano Salvemini che pose la sua candidatura per la lista dei combattenti nella circoscrizione di Bari, provò ad assegnare ad un caso locale una forza emblematica nazionale: Il programma della sua lista, infatti, fu immaginato come un vero e proprio manifesto radical-socialista rivolto al Paese.

Questi incoraggianti incipit furono presto contraddetti e, come è noto, il proposito di dar vita a un partito terzaforzista e meridionalista nato dalle trincee, evocato da Gramsci, si sarebbe rivelato un velleitario fallimento. Ci si deve domandare il perché.

A me pare che “la svolta” collocata proprio in corrispondenza dei fatti di Fiume del settembre del ’19. Come si è detto, essi costituirono la pietra tombale del wilsonismo, introdussero i primi germi di dissidio interno eminando quella compattezza che sarebbe stata necessaria per affrontare le imminenti elezioni generali. Si consideri soltanto a proposito, emblematicamente, che Salvemini condannò allora senza remore l’azione di D’Annunzio e ciò, nell’ambito del combattentismo, indebolì non poco la sua posizione e, più complessivamente, quella della corrente radical-democratica. In quelle temperie, d’altro canto, a prendere distacco dal professore di Molfetta non furono soltanto “i nazionalisti” ma persino uomini legati a lui da sentimenti di amicizia, come Fortunato, Gobetti, Zanotti Bianco, ritennero ingiustificata la sua intransigenza.

Questa debolezza, d’altro canto, può essere rivelata in controluce al momento della presentazione delle liste per le elezioni politiche. I combattenti presentarono le loro liste in solo 22 circoscrizioni ma, quel che più conta ai nostri fini, queste manifestarono la loro eterogeneità sin dai simboli prescelti. Mentre la falce e martello dei socialisti e lo scudo crociato dei popolari sarebbero stati rintracciabili su tutte le schede elettorali, i combattenti furono rappresentate da una congerie di simboli che spesso tradivano la diversità dei loro orientamenti di fondo. Tema dominante fu l’elmetto che però, a seconda dei casi, fu associato a vanghe, spighe, picconi e teste di fante. In altri casi si privilegiò l’aquila, la vittoria alata, la stella d’Italia.

Il risultato di tanta eterogeneità non fu certo straordinario. La Statistica delle elezioni politiche per la XV legislatura ci informa che i candidati “combattenti” presenti alla competizione furono 156 e che essi riportarono solo 232.923 voti, che produssero 20 eletti. Nella realtà le cose andarono in maniera parzialmente diversa e questo aiuta a capire perché il momento elettorale non mise la parola “fine” al tentativo di dar vita a un partito.

Gli eletti provenienti da liste di soli combattenti furono non 20 ma 21 ma ad essi vanno aggiunti quei deputati eletti in liste nelle quali i combattenti convivevano con elementi che avevano altra provenienza. Secondo le statistiche furono 26, nella realtà delle cose 29. Quel che è ancora più importante ai nostri fini è che, al di là del numero di seggi effettivamente conseguito, il combattentismo ebbe risultati notevoli in una parte della Penisola: il sud, esattamente come indicato da Gramsci. Qui essi conquistarono ben 34 dei 201 seggi disponibili, 15 con le liste “intransigenti”, 19 con quelle “apparentate” e le percentuali conseguite in alcuni collegi elettorali aiutano ancor di più a comprendere perché non si possa parlare di sconfitta definitiva: il 24,9 % a Cagliari, il 23,5% a Cosenza, il 22,1% a Sassari, il 21% all’Aquila, il 19,7% a Bari. In alcune parti del Paese, dunque, i combattenti furono assolutamente competitivi con socialisti e popolari.

Proprio per questo, quando la nuova legislatura s’inaugurò, a tener alto il proposito della nascita di un nuovo partito fu l’iniziativa di creare un gruppo parlamentare autonomo denominato “del rinnovamento”, che avrebbe dovuto agire in stretto coordinamento con il Comitato Centrale dell’ANC. Il gruppo, in realtà, prese forma e vi aderirono circa 20 eletti (quasi tutti provenienti dalle liste “intransigenti”) ed esso fu il volano di ulteriori tentativi di dar vita a un nuovo partito che, nel corso del 1920, si sarebbero sviluppati sia a livello nazionale per iniziativa della Associazione Nazionale Combattenti, sia a livello regionale come, ad esempio, in Sardegna e in Abruzzo.

Quel che più conta ai fini della nostra analisi è che, però, leggendo il programma del gruppo possono scorgersi già allora ambiguità e distinguo che con il trascorrere del tempo si sarebbero amplificati e che, ancor più delle ragioni di carattere organizzativo, sarebbero state la causa prima del fallimento del tentativo in atto. Come si cercherà di dimostrare, per di più,  tali divergenze avrebbero agito non solo come frattura tra la componente nazionalista e quella democratica ma, a ben vedere, anche all’interno di quest’ultima.

Il programma del gruppo fu rigidamente diviso in due parti: politica interna e politica estera. Per la politica interna fu ripreso quasi alla lettera il programma dei combattenti pugliesi redatto da Salvemini che aveva un’intonazione di radicalismo agrario, ad onta di ogni aspirazione rivoluzionaria o anche solo massimalista. Assai più equivoca fu la parte dedicata alla politica estera. Il programma indicava il Patto di Londra come base di trattativa e garanzia per la soluzione della “questione adriatica”: formula sufficientemente ambigua, che consentiva di richiamare il Patto senza prender posizione per la sua intangibilità. D’altra parte, il testo del programma limitava le pretese territoriali alla sola città di Fiume; le zone dell’entroterra erano escluse e non si proferiva parola sulla Dalmazia.

Questo compromesso era destinato a non reggere. Per l’essenziale, il congresso del costituendo partito, convocato a Napoli dal 17 al 19 agosto, sancì la incompatibilità dei due filoni. I tentativi che seguirono possono considerarsi a tutti gli effetti dei “residui paretiani” di quell’abbozzo di partito laico e meridionalista al quale Gramsci ha fatto riferimento.

Quel che però non va smarrito è il conflitto che allora si sviluppò in seno alla componente democratica e che ebbe anche una evidente torsione generazionale. I prodromi di tale divisione possono già rintracciarsi comparando l’Unità di Salvemini con le riviste dei giovani salveminiani come “Energie Nove” di Piero Gobetti o “Volontà” di Camillo Bellieni. Dal confronto, infatti, scaturirà chiaramente che i giovani salveminiani avevano sostituito al positivismo empirista del “maestro” riferimenti culturali di tutt’altra marca: l’attualismo gentiliano, l’idealismo pedagogico di Lombardo Radice, il volontarismo di Bergson e Blondel. Questi riferimenti li portavano ad essere assai meno disponibili di Salvemini e degli “unitari” della sua generazione verso l’obiettivo di perseguire il rinnovamento della vita politica restando nell’alveo della democrazia parlamentare. Tale differente propensione finì per investire anche il giudizio sull’esperienza fiumana: non certo casualmente, nel giugno del 1920, al convegno della Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale – che avrebbe dovuto unificare le esperienze dell’”Unità” e di “Volontà” in vista della nascita del partito dei combattenti -, le incomprensioni e le polemiche tra “i maestri” e “gli allievi” si svilupparono innanzi tutto intorno alla questione di Fiume.

Insomma: se per quel che concerne il posizionamento politico, questi giovani erano dalla parte dei “democratici” contro “i nazionalisti”; per quel che invece concerne gli strumenti, il rispetto delle forme proprie del parlamentarismo, l’aspirazione a un rinnovamento palingenetico del sistema che prescindesse da ogni contaminazione col “vecchio” e con il mondo dell’ante-guerra, la loro sensibilità era assai più prossima a quella dei loro “fratelli separati” che a quella dei loro maggiori. Fiume e l’impresa dannunziana con tutto quel che da essa derivò anche sul piano politico-costituzionale, rappresentano in tal senso cartine di tornasole chiarificatrici.

Una prova postuma ci proviene dalla storia di Italia Libera, insieme l’ultimo movimento nato dalla prima guerra mondiale e il primo movimento antifascista clandestino non comunista: l’anello che salda l’interventismo e il combattentismo democratico di ascendenza innanzi tutto repubblicana all’antifascismo giellista e azionista. Ad animarlo furono uomini quali Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Raffaele Rossetti, Randolfo Pacciardi, Guido Bergamo, Cino Macrelli, Fernando Schiavetti.

Italia Libera nacque a valle della storia fin qui ricostruita: nel 1923, in conseguenza dell’ennesimo dissidio interno all’Associazione Nazionale Combattenti, ormai stabilmente allineatasi al fascismo. Tra D’Annunzio e Italia Libera non ci furono espliciti accordi e neppure contatti diretti. Come ricostruisce Luciano Zani, che a Italia Libera ha dedicato il primo studio monografico, “Pacciardi cercò fin dall’inizio di mettersi in contatto con D’Annunzio, prima tramite Battisti e Morea, ex legionari, poi mandando al Vittoriale, come intermediaria, Ernesta Battisti, vedova del martire, ma D’Annunzio si sottrasse sempre”.

Non ostante ciò, però, «[…] Italia Libera si proclamò «dannunziana», si riconobbe nella Carta del Carnaro e in generale nell’insegnamento di d’Annunzio, collegandolo alla “gloriosa Scuola Sociale Italiana” e quindi alla più schietta tradizione repubblicano-mazziniana. Esaltò l’impresa di Fiume come l’episodio più glorioso della storia recente, “epilogo del sacrificio cruento della guerra civile” e inizio della “nuova dottrina che dovrà redimere il mondo”, ed ebbe (…) rapporti stretti con l’Unione spirituale dannunziana». In alcune città, d’altro canto, l’iniziativa di fondare il gruppo Italia Libera fu proprio dei legionari fiumani e la stessa Unione spirituale dannunziana, infine, al suo secondo congresso nazionale che si svolse a Firenze nel luglio ’24, deliberò di aderire, senza fondersi, ai gruppi Italia Libera.

Ce ne è abbastanza per giungere a una conclusione sintetica. La Grande Guerra dal punto di vista politico giunge a dividere e indebolire ulteriormente il vecchio mondo liberale; agisce potentemente in ambito antropologico  esaltando incredibilmente la propensione all’azione diretta e, quindi, l’insofferenza per il rispetto delle forme democratiche nella loro configurazione classica. Nell’immediato dopo-guerra, di fronte al tramonto del wilsonismo e agli errori della vecchia classe politica, l’impresa di Fiume giunge a sublimare tutto ciò. Essa dà una mano a chi vuole spazzare via i tentativi di riassorbire il combattentismo in un esperimento partitico di massa “terzo” rispetto a quello animato da socialisti e cattolici. Rianima le aspirazioni al cambiamento palingenetico, alla ricerca dell’uomo nuovo, al sovvertimento rivoluzionario. Concede a tutto ciò persino un riferimento costituzionale. Anche per questo “contributo”, a posteriori, il combattentismo va indicato come una componente originaria sia del fascismo sia dell’anti-fascismo di marca azionista. E non casualmente la fotografia di Fiume può essere rintracciata nell’album di famiglia di entrambe le parti, a testimonianza di una loro robusta radice comune.