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In un’altra vita scrissi un fortunato libro su De Gaulle che ebbe anche una traduzione francese. Forse per questa ragione ogni tanto qualche organo di stampa, o qualche televisione d’Oltralpe, mi chiama per raccogliere un’opinione sulla politica transalpina e, in particolare, sugli eredi del Generale.

De Gaulle, in realtà, non avrebbe voluto avere progenie politica. La politica, però, in questo forse differisce dalla vita reale. Non è vero che riposi in pace (e dunque ne riceva un vantaggio in fatto di reputazione) solo chi non lascia beni su questa terra. Ed è forse per questo – è un fatto – che ben tre dei sette successori del Generale al vertice della V Repubblica si siano proclamati suoi seguaci.

Ora, però, per il gollismo francese sta scattando l’ora fatale. Alle ultime elezioni presidenziali l’esponente gollista non è stato nemmeno ammesso al secondo turno e, qualora questo destino dovesse ripetersi alla prossima scadenza, tra circa due anni, la circostanza segnerebbe ineluttabilmente il declino della tradizione politica che più di ogni altra ha impregnato di sé la storia della V Repubblica.

E’ probabilmente questo il motivo per il quale, in settimana, un noto quotidiano francese mi ha chiesto un pronostico sul futuro del movimento gollista. Mi ha costretto a rifletterci e sono arrivato alla conclusione che non sarà facile cavarsela.

Il gollismo non è mai stato un’ideologia. Ha avuto l’ambizione di rappresentare una tradizione nazionale in grado di modernizzare la Francia coniugando assieme quattro elementi: identità, autorità, libertà e sicurezza. Il fatto è che oggi, in assenza di una personalità che incarni naturalmente quella scommessa, si trova a subire la concorrenza di tradizioni e sistemi di pensiero differenti che già tre anni fa sono riusciti a rubargli la scena: oggi i gollisti si trovano stretti tra il saint-simonismo modernizzatore di Macron e l’autoritarismo ben piantato nel presente della Le Pen. Non casualmente il dibattito interno al movimento, assai più che indicare come aggiornare un patrimonio, è segnato dalla contrapposizione tra chi vorrebbe appoggiarsi al primo di questi personaggi (Macron) e chi, invece, ritiene giunta l’ora di concedere una legittimità repubblicana alla seconda (Le Pen): non è agevole, in questa tenaglia, trovare il proprio spazio politico.

Mentre riflettevo su questo stato di cose, il pensiero è andato spontaneamente alla realtà italiana. Qui da noi l’attuale centrodestra, dopo le ultime elezioni, appare più di prima ripiegato su sé stesso e questo stato di fatto fa emergere un suo limite che non è rilevato né dai sondaggi e neppure dai risultati elettorali.

In estrema sintesi: Salvini non ha sfondato e iniziano ad apparire evidenti i problemi del suo reclutamento meridionale. Di fronte alla difficoltà, ha preferito “arroccare” piuttosto che scegliere: tenere assieme Giorgetti e Borghi, insomma, piuttosto che prendere la strada dell’uno o dell’altro. Forza Italia affronta l’evidente sua “decrescita felice” attraverso una competizione interna tra due schieramenti (Tajani-Ronzulli versus Gelmini-Bernini) all’ombra di un Cavaliere che sempre più appare patrimonio della nazione, piuttosto che risorsa del suo partito. Non si sa se questa tenzone sarà la premessa per una successiva politica di apertura ma, per il momento, la dinamica è introflessa. Giorgia Meloni, dal suo canto, continua in una “lunga marcia”: in termini personali l’incarico ricevuto dai conservatori europei rappresenta un indubbio elemento di legittimazione; in termini di aggregazione, perché mai rischiare la rivoluzione quando si può più prudentemente lucrare dagli errori dei concorrenti? Di fatto, però, la politica dei piccoli passi è l’antitesi di un’iniziativa politica audace e coraggiosa verso i territori dei conservatori-moderati.

Tutto ciò mi porta a dire che chi in Italia avesse voglia e coraggio di cimentarsi col tentativo di costruire una moderna componente liberal-conservatrice con cultura di governo, non potrebbe certo contare sulla tradizione che supporta i gollisti francesi, ma non incontrerebbe neppure le difficoltà che oggi sembrano tarpare loro le ali e che rischiano di relegarli in un ruolo secondario sul palcoscenico della politica francese. In Italia l’ardito si troverebbe davanti delle praterie.

Zaia e Toti docent: il risultato loro e delle loro liste alle ultime elezioni regionali non è solo la conseguenza della sovraesposizione della quale, in epoca di covid-19, hanno beneficiato tutti i governatori. E’ anche la prova che laddove c’è una ipotesi di governo moderata, rappresentata in modo dinamico con lo sguardo rivolto verso il futuro e supportata da cultura di governo, questa è ancora largamente preferita dagli elettori del centrodestra. Certo: chi ci volesse provare dovrebbe non accanirsi nello sfruttare rendite di posizione; dovrebbe offrire garanzie di competenza; dovrebbe dimostrare di avere ben chiaro che l’obiettivo di chi fa politica è quello di parlare all’esterno e di convincere, magari sulla base d’idee che nascano dalla conoscenza e dallo studio, e non quello di arbitrare il torneo per un posto al sole nel cerchietto magico del leader del momento (se anche il momento è molto lungo, sempre di momento si tratta…).

Più facile a dirsi che a farsi. Ma sarebbe un peccato se nessuno ci provasse. Perché la maggioranza che attualmente ci governa è in grave difficoltà; per lei e anche per il Paese, purtroppo, i nodi stanno per giungere al pettine. Di fronte a questa crisi – alla sua portata, alla sua imprevedibilità – la navigazione non sarebbe stata agevole per nessuno. Ma chi ha fin qui governato non lo ha fatto bene. Nondimeno, l’opposizione non è avvertita fino in fondo come un’alternativa affidabile. Serve dell’altro, o meglio, serve qualcosa in più. Chi ne ha voglia si cimenti: se non ora quando?