Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti la modifica della parte II della Costituzione, l’audizione di Paolo Armaroli, professore ordinario presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Genova.
Ringrazio il professore per avere voluto corrispondere all’invito della Commissione e gli do senz’altro la parola.
PAOLO ARMAROLI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Genova. Signor presidente, a mia volta desidero ringraziare la Commissione. Non sono un costituzionalista vissuto in una torre d’avorio; quindi, mi rendo conto della duplice funzione di queste audizioni. Da una parte, attivano un dialogo tra cattedratici e classe politica e parlamentare; dall’altra, rispondono all’esigenza di far «passà a nuttata», come direbbe Eduardo De Filippo. Infatti, atteso che siamo in un momento preelettorale, è bene che i rappresentanti autorevoli dei partiti ascoltino piuttosto che dire la loro, anche perché, per così dire, chi si firma, è perduto.
Ho molto apprezzato il dibattito svoltosi in Commissione Affari costituzionali in quanto mi sembra che gli autorevoli rappresentanti intervenuti nel dibattito – cito, tra gli altri, gli onorevoli Leoni, Olivieri, Soda, Maccanico, Boato e Bressa abbiano svolto considerazioni che li distanzino dai loro colleghi del Senato. Nell’altro ramo del Parlamento, infatti, personaggi autorevoli quali Bassanini e Villone (ma anche lo stesso ex Presidente del Senato Mancino), più che attenersi al merito del provvedimento, hanno espresso una posizione ideologica. Quindi, tale approccio pragmatico, realistico mi sembra un notevole passo avanti.
Vorrei andare un po’ «contro corrente» e, per così dire, sfatare alcune favole metropolitane. La prima è che il disegno di legge costituzionale incrementerebbe a dismisura i poteri del Governo e, in particolare, del Presidente del Consiglio. Innanzitutto, ricordo che questa forma di Governo è quella da sempre privilegiata dalla sinistra, in Francia, dai tempi di Mendes France; in Italia, il premierato faceva parte del programma elettorale dell’Ulivo nel 1996. Nella Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema, è stata recepita dal relatore sulla forma di Governo, il senatore Salvi. Inoltre, molti autorevoli studiosi del riformismo di sinistra, da Augusto Barbera a Stefano Ceccanti, hanno perorato questa forma di Governo. Invece, la forma di Governo prediletta da sempre, con molte sfumature, dalla destra e dal centrodestra è stata diversa. Giorgio Almirante parlava di presidenzialismo; i radicali, ma anche esponenti liberal della Casa delle libertà, e segnatamente di Forza Italia (dal presidente Marcello Pera ad altri autorevolissimi personaggi), hanno sempre parlato di un presidenzialismo all’americana; altri ancora, hanno parlato di semipresidenzialismo alla francese. Quindi, presentando un disegno di legge costituzionale col quale ha abbandonato la bandiera del presidenzialismo per optare a favore di quella del premierato, il Governo è venuto incontro, a mio avviso alle esigenze (certo legittime) dell’opposizione.
Circa la demonizzazione della forma di Governo proposta per via dei poteri del Premier, osservo che dobbiamo tenere presenti lavori famosi come quelli di Max Weber o, per venire a tempi più recenti, dobbiamo considerare le opere del sociologo Luciano Cavalli. Entrambi esponenti certamente non di destra, hanno parlato a lungo di democrazia con Premier. Dunque, la summa divisio è tra democrazia con un Premier – e, quindi, con la personalizzazione, in qualche misura, della politica – e democrazia acefala. Quella di cui parlava un altro grande studioso – mio maestro all’università -, Giuseppe Maranini, il quale sosteneva che la peggiore delle tirannidi è quando il tiranno è senza volto. Tutti sono responsabili e, quindi, nessuno è responsabile; ciò è tipico della democrazia acefala, nella quale tutti governano e nessuno governa in quanto tutti sono mascherati.
Ciò detto, mi collego anche al collega Fabbrini. Ebbene, vi sarebbe davvero un rafforzamento della posizione del Governo e del Premier? Tutto sommato, ne dubito in quanto i Governi, in Italia, anche in questi ultimi dieci anni (quando, effettivamente, vi è stato un tendenziale rafforzamento), con la democrazia maggioritaria, hanno contro – e gli amici dell’opposizione attuale ben lo sanno, in ragione di quanto è avvenuto nella scorsa legislatura e avviene in questa – non una ma due opposizioni, quella esterna al Governo e quella interna. Sapete benissimo quanto è accaduto nella scorsa legislatura; è inutile rievocarlo. Anche in questa legislatura, il Governo incontra problemi di maggioranza perché molto spesso, prima di mettersi d’accordo su una determinata situazione, ci si pensa a lungo ed eventualmente si rinvia la decisione al riguardo.
Pertanto se non siamo giuristi di serra, dobbiamo chiarire che alcune clausole inserite nel disegno di legge costituzionale non costituiscono un rafforzamento vero e proprio. Ve ne illustro una emblematica.
Per quarant’anni noi costituzionalisti abbiamo considerato strano che la Costituzione facesse riferimento alla nomina del Governo, ma né il Presidente del Consiglio né il Capo dello Stato potessero revocare i ministri.
Se il disegno di legge costituzionale in esame verrà approvato il Premier avrà il potere di revoca. Ma tale potere già esiste: il ministro Ruggiero è stato dimissionato dal Presidente del Consiglio…
MARCO BOATO. Si è dimesso! Mancuso, invece…
PAOLO ARMAROLI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Genova. Onorevole Boato, mi domando cosa accadrà a seguito di questa riforma costituzionale; certamente un caso come quello dell’ex ministro Ruggiero potrà ripetersi, ma potrà avvenire lo stesso per il vicepresidente del Consiglio Fini, per il ministro Matteoli o per il ministro Castelli? Credo proprio di no!
Manca un bipartitismo all’inglese; siamo piuttosto di fronte ad un bipolarismo in cui i limiti del Presidente del Consiglio sono nelle cose, al di là, ci piaccia o meno, delle disposizioni costituzionali. L’unico rafforzamento possibile della figura del Presidente del Consiglio consisterebbe nella norma antiribaltone, che però richiede un passo indietro rispetto ad oggi. Sia nelle consultazioni del 2001 sia in quelle del 1996 i nomi dei candidati Premier erano sulle schede elettorali, ma qui si compie addirittura un passo indietro: non è prevista l’indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale; si tratta di una sorta di indicazione a voce, quasi da muezzin. È un’ipotesi che rappresenta un assurdo passo indietro rispetto a quanto è presente nella realtà non contestata.
In merito alla norma antiribaltone è necessario essere conseguenti. Ricordo che una persona particolarmente autorevole come il presidente D’Alema, che pure per ben due volte ha beneficiato di un ribaltone, ha successivamente affermato – e di ciò va dato atto alla sua onestà intellettuale – che nel caso di caduta di un Governo investito in qualche modo dal popolo, altro non si può fare se non ricorrere alle elezioni. Se ciò lo sostiene una persona autorevole della sinistra come l’onorevole D’Alema, allora occorre essere conseguenti e affermare la necessità di una norma antiribaltone. È l’unica disposizione che non sia contro l’opposizione, ma serva per tenere insieme, come ricordava il collega Fabbrini, la maggioranza.
Considerato, poi, che il disegno di legge in oggetto ha la legittima pretesa di introdurre un modello di forma di Governo simile a quello inglese, allora l’unica misura concepibile è che, in casi del tutto eccezionali, come in Inghilterra per la Thatcher, a fronte di un ribaltone non istituzionale ma politico (il partito del Premier che dimissiona il Premier stesso), può essere ammesso il ribaltone all’interno della stessa maggioranza. Sono comunque perfettamente d’accordo con il Presidente del Senato Marcello Pera quando sostiene che la norma antiribaltone, per essere veramente efficace, non deve essere «sfruculiata» (come si direbbe a Napoli), deve cioè rappresentare soltanto una spada di Damocle affinché non si creino condizioni di instabilità ministeriale.
Inoltre i governi di coalizione, nonostante il tentativo a sinistra di unirsi, saranno una peculiarità delle prossime legislature; non vedo molte novità al riguardo. Il problema, semmai, non è politico (non vi è nessuna demonizzazione del Premier, chiunque esso sia) ma di tecnica legislativa. Ho molto apprezzato gli interventi degli esponenti dell’opposizione, che pur evidenziando alcuni rilievi critici non hanno demonizzato questa riforma costituzionale.
Ciò detto, non sostengo la mistica dello stare insieme; interpreto l’articolo 138 della Costituzione come forse altri colleghi non fanno. In base a tale articolo, a ben vedere, il Parlamento propone e il popolo dispone con referendum confermativo. A prescindere dalla maggioranza – che sia più o meno vasta non importa – il popolo successivamente potrà far ciò che non ha potuto fare nel 1948, perché la nostra, a differenza delle costituzioni francese (quella «nata morta» e quella invece suffragata dal referendum) non ha avuto un referendum confermativo.
Ripeto, non elogio la mistica dello stare insieme, ma come anticipato all’onorevole Leoni qualche giorno fa, riterrei opportuno in questo caso un largo consenso, perché si delinea una situazione leggermente paradossale. Infatti, come meglio ricorderà il professor Lippolis successivamente, e come egli ha già scritto in una pubblicazione della fondazione Magna Carta, con grande tratto e sagacia, voi, onorevoli deputati, dovrete ridisegnare le funzioni del Senato. I rappresentanti della Camera saranno costretti a rivedere quanto realizzato dal Senato per le ragioni che ricordava il professor Fabbrini, cioè per non rendere ingovernabili le istituzioni repubblicane, chiunque governi. Quindi, in funzione di uno sforzo così grande sarebbe auspicabile un concorso anche dell’opposizione.
Questa era la prima favola metropolitana da sfatare, la seconda è quella secondo la quale grazie a questa riforma costituzionale i poteri del Capo dello Stato sarebbero, più o meno drasticamente, ridimensionati. Si tratta di una falsità, o meglio, sarebbe vero qualora la Carta scritta fosse stata rispettata a dovere. È infatti vero che le due caratteristiche fondamentali di una forma di Governo parlamentare sono la nomina del Governo e lo scioglimento delle Camere in capo all’Esecutivo inteso in senso lato, nel nostro caso il Capo dello Stato. In realtà questo potere di nomina del Presidente del Consiglio (il futuro Primo ministro) non esiste più ormai da dieci anni. Da quando abbiamo una democrazia maggioritaria, sarebbe stato un colpo di Stato se il Presidente della Repubblica, chiunque esso sia, non avesse nominato Presidente dl Consiglio il leader della coalizione vincente.
Pertanto escluderei dalla discussione il tema della nomina del Presidente il Consiglio. Tant’è vero che nei casi in cui abbiamo avuto dei governi «palatini», dei governi del Quirinale, a cominciare dai Governi Pella, Tambroni ed altri, si è parlato di patologia e non già di fisiologia del sistema parlamentare.
Veniamo ora ai poteri di scioglimento delle Camere; sicuramente, salvo il professor Leopoldo Elia che lo ritiene un atto duumvirale, cioè un atto in cui il Presidente della Repubblica e il Governo concorrono nello scioglimento delle Camere, la maggior parte della dottrina conviene sul fatto che si tratti di un potere formalmente e sostanzialmente presidenziale. Tale asserzione la si ricava in via sistematica. Infatti, siccome negli ultimi sei mesi del suo mandato, come scritto nel testo originario della Costituzione, il Presidente della Repubblica non può ricorrere allo scioglimento delle Camere, è evidente che si tratta di un potere formalmente e sostanzialmente presidenziale.
Ciò premesso, nella prassi, dal 1948 ad oggi, gli scioglimenti delle Camere avvenuti sono stati tutti degli autoscioglimenti, tranne uno. L’unico caso diverso è stato quello eclatante del 1994 quando il Presidente Scalfaro sciolse le Camere a fronte di una maggioranza parlamentare, motivata in parte dalla nuova legislazione elettorale ed in parte dall’esistenza del cosiddetto Parlamento degli inquisiti. La considerazione che oggi il Presidente della Repubblica non detenga più il potere né di nomina del Presidente del Consiglio né di scioglimento delle Camere, rappresenta un argomento del tutto scolastico senza alcuna rispondenza alla realtà.
A tal proposito, proprio alla luce di quanto avvenuto, sta avvenendo o avverrà in relazione al caso Sofri, mi domando se nell’elenco sacrosanto di funzioni e poteri universalmente considerati, formalmente e sostanzialmente, presidenziali, vi sia da ricomprendere, senza controfirma, il potere di grazia e commutazione delle pene. Ciò non per togliere qualcosa al Capo dello Stato bensì per non danneggiarlo. Al di là del caso Sofri, infatti, onorevole Boato, un futuro Presidente della Repubblica potrebbe ritenere che la mafia sia in via di eliminazione e decidere, pertanto, di concedere la grazia a Totò Riina. Certo, si tratta di un caso di scuola ma, onorevole Boato, non ritiene che, così facendo, il Presidente della Repubblica si assumerebbe una responsabilità non solo istituzionale, ma anche politica di estrema gravità che comprometterebbe la sua figura di rappresentante dell’unità nazionale? Quindi per quanto riguarda gli atti del Capo dello Stato da sottrarre alla controfirma procederei con i piedi di piombo, almeno nel caso della grazia. Non ritengo sia vero che il Capo dello Stato abbia qualcosa da temere da questa riforma costituzionale.
La terza favola metropolitana da sfatare riguarda la Corte costituzionale. Onorevoli, la Corte costituzionale avrà lo stesso numero di componenti e le stesse funzioni di oggi. L’unica novità riguarda una ridistribuzione del numero delle nomine. Quattro membri saranno nominati dal Capo dello Stato, quattro dalla magistratura ordinaria e amministrativa e sette dal Senato. Sul tema la discussione è aperta; se lo si ritiene opportuno si poterebbero introdurre alcune misure per i sette membri eletti dal Senato, che tra l’altro necessitano per la loro nomina di un quorum estremamente alto per cui vi sarebbe necessariamente un accordo maggioranza e opposizione. Ad esempio, si potrebbe adottare una clausola per cui i membri eletti dal Senato non possano far parte né della Camera né del Senato. Si tratta di un’ipotesi per spoliticizzare i membri della Corte costituzionale.
In materia di federalismo si può molto discutere. Nella scorsa legislatura quando ricoprivo un incarico diverso, ebbi modo di sostenere che il federalismo assomiglia in qualche modo al sarchiapone di Walter Chiari: da dieci anni tutti ne parliamo, ma non tutti, a partire dal sottoscritto, hanno le idee chiare. Sta di fatto che se ne parla da dieci anni e che la parola d’ordine del ministro Bossi è stata recepita da tutti i partiti politici ed oggi siamo di fronte a degli idola fori – o, se volete, idola tribus – da cui non possiamo prescindere. Abbiamo voluto la bicicletta, quindi, pedaliamo.
Certamente potranno emergere dubbi e perplessità nell’applicazione pratica: per esempio, mi domando se la classe politica a livello locale sia in grado di assolvere con efficienza ai compiti che il titolo V della Costituzione e il disegno di legge costituzionale conferiscono loro. Al riguardo, mi permetto di riprendere una suggestione del Presidente Violante, formulata nella scorsa legislatura, relativa alla necessità di un maggior raccordo sia tra la burocrazia parlamentare e le burocrazie regionali sia tra la classe politica nazionale e quella regionale.
Riguardo alla composizione del Senato, sono state sollevate critiche da parte dell’opposizione, della fondazione Magna Carta, che ha manifestato qualche riserva, e, con grande coraggio dato che presiede l’Assemblea trasformata dal progetto di legge costituzionale, dal Presidente Pera.
MARCO BOATO. L’ha fatto post factum.
PAOLO ARMAROLI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche presso l’Università di Genova. Mi risulta che l’abbia fatto anche in itinere – succede spesso che le massime cariche dello Stato non vengono ascoltate – ripetendo a Cernobbio le sue riserve.
Pur comprendendo le sue ragioni, temo che si possa fare ben poco. Quale partito oggi propone seriamente una Bundesrat alla tedesca? Questo sarebbe un ottimo sistema ma attualmente farebbe fuori i 315 senatori elettivi. L’altra proposta, invece, più realistica è che facciano parte del Senato i presidenti delle giunte regionali, sulla quale mi permetto di esprimere le mie perplessità, in quanto da una parte nessuno ha il dono dell’ubiquità, dall’altro si creerebbero due specie di senatori, quelli – si può dire – di «serie A», i governatori, e quelli elettivi di «serie B».
Ritengo molto ben congegnata la parte relativa alla contestualità, sia pur affievolita, per non sminuire i senatori, ed al raccordo molto stretto tra rappresentanza regionale e regioni. Si è detto che dal testo emerge non certo un Senato federale ma un Senato per le regioni o addirittura contro le stesse. Credo, però, che di più non si possa fare, mentre si possa e si debba fare molto – come dirà tra poco il professor Lippolis – per rimodellare le funzioni del Senato.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Armaroli per la relazione testé svolta e do la parola ai colleghi che intendono intervenire.
MICHELE SAPONARA. Ringraziando il professor Armaroli per la sua ampia e chiara relazione, vorrei porre alcune domande. Mi interessa la sua opinione sull’opportunità di attribuire o meno al potere esclusivo del Capo dello Stato la concessione della grazia.
Riguardo a quanto affermato circa la necessità che in Senato siedano anche i presidenti delle regioni…
MARCO BOATO. Ha detto di no.
PRESIDENTE. Il professor Armaroli è critico circa la partecipazione in Senato dei presidenti delle regioni.
MICHELE SAPONARA. A tale riguardo, vorrei sapere su quale punto dovremmo sviluppare la nostra sagacia per evitare che il Senato federale possa rappresentare un diritto di veto permanente nei confronti del Governo.
Vorrei sapere se ritiene opportuna la modifica riguardo all’elezione da parte del Senato federale dei giudici del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale ed infine quale sia la sua posizione sul premierato, anche in considerazione del testo dell’articolo 88, in base al quale, in caso di scioglimento, la stessa maggioranza può indicare un altro Premier.
MARCO BOATO. Ringrazio il professor Armaroli al quale auguro di tornare a far parte della Camera la prossima legislatura, auspicabilmente dell’opposizione. Dico questo perché, al di là della battuta amichevole, è emerso dalla sua relazione, nel corso della quale ha fatto continuamente riferimento alla dialettica maggioranza-opposizione, che ha una grande nostalgia del suo ruolo di parlamentare.
Vorrei anzitutto precisare – e chiedo un suo parere al riguardo – che a me non sembra che parte delle componenti del centrosinistra abbia revocato la sua preferenza costituzionale per quanto riguarda il modello del primo ministro. Ricordo che, essendo stato inserito nel programma dell’Ulivo del 1996, insieme al collega Maccanico ed ad altri ho lavorato al quel modello e ho personalmente proposto l’espressione «modello del Primo ministro» in modo da rendere il concetto più chiaro possibile ai cittadini. Esistevano già nella Repubblica francese posizioni laiche e socialiste verso questa direzione, ricordo inoltre, nella storia parlamentare italiana, posizioni presidenziali – cito Valiani o Calamandrei – con riferimento non alle tesi di Almirante che ancora non c’era, ma al modello degli Stati Uniti d’America, che più volte il professor Fabbrini ha evocato.
A mio avviso, il problema attiene alle modalità con le quali viene concretizzato il modello del Primo ministro nel disegno di legge costituzionale. In base al testo approvato, in particolare da quanto previsto nell’articolo 88, secondo comma, il Primo ministro può essere sostituito senza alcun voto parlamentare e, per così dire, con un semplice pezzo di carta scritto. Ritengo che tale previsione, dal punto di vista del rigore costituzionale, dovrebbe porre in lei, che è di tradizione liberale, qualche interrogativo. Un altro aspetto paradossale è contenuto nel secondo comma dell’articolo 92 del testo approvato dal Senato, ove si fa riferimento all’esigenza non di garantire ma di favorire la formazione della maggioranza. Ora, si è pensato a cosa avviene se si forma una maggioranza relativa e non assoluta dei componenti delle Camere, come, ad esempio, accadde al Senato durante il primo governo Berlusconi? Ci sarebbe un Governo in carica – tra l’altro, senza voto di fiducia – che governa con la maggioranza relativa? Come si fa ad applicare il secondo comma dell’articolo 88 nell’eventualità di un Primo ministro più debole di quello attuale – che ha quasi 100, per esattezza 85, voti di maggioranza alla Camera – non essendovi una maggioranza assoluta dei componenti che possa cambiare, in corso d’opera, un primo ministro che la propria maggioranza non ritenga più adeguato?
Ci tengo a precisare che con le mie domande non voglio mettere in discussione il modello del Primo ministro che condivido.
Vorrei infine riferirmi con cautela ad un esempio, senza citare nomi e scusandomi con i colleghi della maggioranza, con i quali non intendo polemizzare, che attiene alla questione della nomina della revoca. Risulta agli atti della scorsa legislatura un progetto di legge costituzionale, a firma di tutti i capogruppo della maggioranza di allora, assegnato alla I Commissione, di cui ero relatore che prevedeva la nomina e la revoca. Sulla questione della revoca credo che ci sia l’unanimità della Commissione e forse anche del Parlamento. Forse due senatori o deputati possono non essere d’accordo, ma sostanzialmente c’è l’unanimità.
Diversamente valuto il fatto che scompare la proposta di nomina e di revoca dei ministri al Presidente della Repubblica. Nel nuovo testo costituzionale ipotizzato non è più previsto che il Primo ministro propone al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri, ma è previsto che il Primo ministro «dispone» la nomina e la revoca dei ministri, così come «determina» la politica del Governo e non più la dirige.
Vi prego di prescindere dalla polemica politica, perché ciò che dico vuole essere solo un ricordo storico: nel caso di un primo ministro che proponga il proprio avvocato personale come ministro della giustizia, il Presidente della Repubblica può indicargli di farlo ministro, perché nessuno glielo vieta, ma non ministro della giustizia.
Non voglio lasciare traccia nel resoconto stenografico di nomi, perché non voglio fare una polemica politica. Vorrei fare al professor Armaroli un esempio di come la questione della revoca non è in discussione e siamo tutti d’accordo. È in discussione il modo in cui il ruolo del Presidente della Repubblica, chiunque esso sia e chiunque sia il Primo ministro, è espropriato della possibilità di nominare o revocare, a partire dalla proposta del Primo ministro, i ministri. Ciò è quanto è scritto nella Costituzione attuale ed è rovesciato nel testo del disegno di legge costituzionale. Si può dissentire nel merito ma non nel fatto storico. Quando un proprio avvocato personale è proposto quale ministro della giustizia, il Presidente della Repubblica può indicare di nominarlo ministro ma non ministro della giustizia. Questo è accaduto storicamente e quella persona è diventata ministro della difesa.
Potrei ricordare un altro caso, non di questa rilevanza, che riguarda il ministro della difesa nell’ambito di un Governo di centrosinistra: proposta una persona, è stata nominata un’altra in sede di consultazione. Questo ruolo di garanzia, che non cambia la natura politica della maggioranza, né il potere del Primo ministro, perché non viene mantenuto?
Un’ultima questione riguarda la nomina e il numero dei giudici costituzionali. Nel testo e nelle norme transitorie c’è scritto che il Senato, eletto con le regole attuali, e non quello federale, quindi identico a questo rispetto alle caratteristiche politiche e istituzionali, nominerà i nuovi giudici costituzionali man mano che il loro mandato scadrà. Lo stesso vale per i membri del CSM. Mi pare che ci sia una radicale incongruenza, perché questo è un Senato propriamente politico, non quello del 2011. Vorrei sapere la sua opinione al riguardo.
Rispetto alla questione della contestualità – siccome lei ha detto che non si poteva fare meglio e questo è un giudizio politico e costituzionale, ma io ritengo che si possa fare meglio, quindi sto ragionando su delle possibili correzioni – si subordinano le regioni (per esempio, nel caso di scioglimento di una regione al quarto anno, essa dovrebbe durare in carica un altro anno) alla permanenza del Senato federale. Ciò non ha nulla di federale, ma subordina, assai più di oggi, le caratteristiche e i poteri costituzionali delle regioni al potere centrale. Mi chiedo se questo elemento non ponga qualche interrogativo sull’aggettivo federale, che non si sa dove poggi.
PRESIDENTE. Onorevole Boato, il suo intervento va benissimo, però non ha rispettato i tempi. Se procediamo in questo modo non rispettiamo neanche gli altri colleghi che vogliono intervenire.
MARCO BOATO. Domando scusa.
MARCELLO PACINI. Vorrei porre brevemente due quesiti al professor Armaroli. Entrambi sono attinenti al tema del Senato, che ritengo l’aspetto cruciale anche per l’imbarazzo che abbiamo nel giudicare l’altra Camera del Parlamento. Il professor Armaroli ha distinto la composizione e le funzioni del Senato.
Mi pare che ci sia una terza dimensione che riguarda proprio la figura del senatore, nel senso che è totalmente equiparato al deputato. Infatti, egli ha un dovere di lealtà verso la Repubblica e la Nazione e ha un divieto di mandato imperativo. Non ha nessuna rilevanza il suo rapporto con il territorio. Non c’è da nessuna parte un elemento che lo obblighi a rispettare gli interessi della regione che rappresenta. Di fatto, l’interpretazione degli interessi del territorio viene lasciata ad uno sforzo culturale, dal momento che il senatore è eletto dai consigli regionali e quindi dovrebbe avere qualche dovere in più nei confronti della regione che lo ha eletto. In realtà, in ogni Stato federale c’è qualcuno che ha qualche dovere in più rispetto al territorio, anche perché dovrebbe rappresentare non soltanto le teste ma anche gli interessi di quel territorio. Pertanto, le vorrei chiedere se secondo lei questo problema rientra tra quelli che vanno presi in considerazione per capire come valorizzare un discorso di lealtà e di impegno politico nei confronti del territorio, o, invece, se deve essere affidato soltanto alla buona volontà dei singoli rappresentanti. Lei mi insegna che il Bundesrat tedesco è tutta un’altra cosa e quindi vorrei capire se è possibile una via intermedia tra l’uno e l’altro.
Il secondo problema riguarda l’efficienza del sistema. In questi anni siamo andati avanti attraverso una mediazione degli interessi che si realizzava attraverso la Conferenza Stato-regioni e la Conferenza Stato-regioni-autonomie locali. Va dato atto dei buoni risultati nel senso che, bene o male, siamo riusciti ad andare avanti. Di fronte alle nuove competenze enormemente dilatate delle nuove regioni, mi pare che si ponga il problema di rafforzare le sedi in cui si verifica questa mediazione di interessi concreti, valutando come le linee politiche possono diventare concreta azione politica. A suo avviso, questa mediazione può avvenire al Senato o dobbiamo pensare a mantenere in vita e a rafforzare la Conferenza Stato-regioni, perché così com’è costituita ha espresso il massimo delle sue potenzialità, per cui dovremo preoccuparci di moltiplicare questo sforzo mediatorio?
CARLO LEONI. Vorrei una sua opinione, professor Armaroli, sul secondo comma del nuovo articolo 94. Io non condivido la strada che indica questo disegno di legge sul rafforzamento dei poteri del Premier, ma, ragionando all’interno di quel modello, dal momento che lei conosce l’attività parlamentare per studio e per pratica, le chiedo: non lo ritiene un’assoluta forzatura? Il voto bloccato, conforme alle proposte del Governo (pena quello che è scritto successivamente), si presume possibile su qualunque atto legislativo.
Avvalendomi della sua esperienza, le chiedo se ha un senso ai sensi dell’articolo 117 togliere gli obblighi internazionali che erano previsti accanto all’ordinamento comunitario come limiti della potestà legislativa delle regioni e dello Stato.
Infine, le chiedo se abbia un senso e come possa essere interpretato il fatto che ogni deputato e ogni senatore rappresenti la Nazione e la Repubblica.
PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Armaroli per le risposte.
PAOLO ARMAROLI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Genova. Al cortesissimo onorevole Saponara vorrei dire che quando parlavo di schizofrenia al Senato era perché da una parte si parlava della favola metropolitana numero due (ossia del depotenziamento del ruolo del Capo dello Stato), dall’altra parte un illustre costituzionalista e mio carissimo amico, l’onorevole Massimo Villone, esponente di punta dei DS, in Commissione ha proposto un emendamento, che poi è stato approvato (che ha portato i senatori a vita di nomina presidenziale da cinque a tre), e addirittura in Aula ha presentato un emendamento soppressivo, per cui non voleva che ci fossero senatori a vita di nomina presidenziale. Quindi, mentre in Commissioni Affari costituzionali gli interventi mi erano sembrati tutti cospicui, in Assemblea c’è stata una sorta di schizofrenia un po’ da parte di tutti noi, per cui si diceva una cosa e se ne faceva un’altra.
Se l’onorevole Saponara me lo concede, gli do solo questa risposta e me ne scuso.
L’onorevole Boato mi ha fatto una gran quantità di domande. Sono d’accordo con lui sulla tecnica legislativa, ossia ritengo – e mi scuso di non averlo detto nel mio intervento – che sia necessario un maggiore raccordo tra gli articoli 88, 92 e 94, fermo il principio della norma antiribaltone. C’è un problema di coordinamento tra questi articoli.
Per quanto riguarda il fatto che il Primo ministro si presenterebbe alla Camera non necessariamente con un voto, un voto – come lei m’insegna – è sempre possibile perché sia la maggioranza che l’opposizione possono presentare una mozione sulla quale si vota e, qualora la mozione dell’opposizione fosse vincente, evidentemente il Governo dovrebbe andarsene a casa.
Per quanto riguarda i due consoli…
MARCO BOATO. Chiedo scusa, ma la questione del voto era legata, oltre alla formulazione attuale dell’articolo 88, secondo comma, anche al fatto che non ci potrebbe essere un voto che cambi il Primo ministro se quel Primo ministro non ha già una maggioranza assoluta nelle Camere, e potrebbe non averla, perché nel testo si «favorisce» la maggioranza ma non la si garantisce.
PAOLO ARMAROLI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Genova. Sono d’accordo con lei, onorevole Boato, però forse un rafforzamento di questo elemento andrebbe interpretato in sede di legge elettorale in guisa tale da permettere comunque, come d’altra parte è garantito a livello locale, delle clausole di garanzia, come, ad esempio, un «pezzettino» di premio di maggioranza per raggiungere comunque il 55 per cento dei seggi alla Camera.
Per quanto riguarda il controllo della nomina da parte del Capo dello Stato, ciò non si è voluto istituire per due ragioni. In primo luogo, si è concepito il Capo dello Stato come organo di garanzia che non abbia la possibilità, in linea di principio, di interferire con l’indirizzo politico di governo garantito, oggi come oggi, dall’articolo 95 della Costituzione.
Se un Primo ministro ritiene di nominare – per così dire, a suo rischio e pericolo – il professore Armaroli ministro di un dicastero, se ne assume la responsabilità politica; non solo dinanzi alla Camera ma anche dinanzi ai cittadini, atteso che il professore Paolo Armaroli, oggi come oggi, non avrebbe alcun appoggio. Non mi pare giusto che il Capo dello Stato si opponga all’ipotesi che, per esempio, detto professore diventi ministro delle riforme costituzionali, imponendo che guidi invece il dicastero dei trasporti (materia della quale, ovviamente, non saprei alcunché). Se il Primo ministro ritiene di effettuare una scelta, se ne assumerà la responsabilità politica; non vedo la ragione in base alla quale il Presidente della Repubblica debba intervenire su una decisione – giusta o sbagliata, onorevole Boato – del Primo ministro.
L’onorevole Pacini mi deve scusare in quanto, sulle questioni poste con riferimento al nuovo Senato, risponderò telegraficamente per ragioni di tempo. Come ho già detto – ma lo ribadisco -, per quanto riguarda la composizione, anche con il massimo impegno, non credo si riesca a fare molto di più. Invece, per quanto riguarda le funzioni, come meglio di me chiarirà il professor Lippolis, si può intervenire apportando notevoli modifiche, non solo attraverso la tecnica legislativa ma anche con accorgimenti di carattere psicologico per non urtare la sensibilità dei senatori.
Per quanto riguarda la questione posta dall’onorevole Leoni con riferimento al secondo comma dell’articolo 94, ebbene, il voto che si prefigura è una sorta di questione di fiducia; quindi, nell’ipotesi di un voto contrario, evidentemente il Governo sarebbe costretto alle dimissioni.
Per quanto riguarda la previsione della rappresentanza, ad un tempo, della nazione e della Repubblica, certo nutro anch’io delle perplessità; comunque, nella scorsa legislatura, presentai una proposta di legge costituzionale al riguardo: modifica dell’articolo 67 della Costituzione in materia di divieto di mandato imperativo. Nella scorsa legislatura, peraltro, come è noto, il divieto di mandato imperativo offrì una giustificazione ai ribaltoni. Dunque, a mio avviso, mentre il principio della rappresentanza della nazione è, per così dire, sacrosanto, il divieto di mandato imperativo, al contrario, dovrebbe «cadere» o, quanto meno, essere attenuato, coerentemente ad un assetto di democrazia maggioritaria. Sarà, perciò, contento l’onorevole Boato con il quale vi è spesso motivo di raffinata e stimolante polemica al riguardo.
Mi fa piacere che oggi molti si accorgano della necessità di uno statuto dell’opposizione; al riguardo, un deputato della scorsa legislatura presentò una proposta di legge costituzionale (C. 3013): «Modifiche alla Costituzione in tema di statuto dell’opposizione». Questo deputato faceva parte della Commissione affari costituzionali; non mi pare che l’allora maggioranza di centrosinistra prese in seria considerazione tale proposta. Tuttavia, siccome sono uno spirito un po’ anarchico, ritengo che le opposizioni vadano sempre garantite, anche se devo riconoscere che, a differenza di quanto si è sostenuto, con la riforma, a mio avviso, non vi sarebbe un aumento di potere del Governo; vi sarebbe, piuttosto, una semplice razionalizzazione dell’esistente. Comunque, la disciplina recata dal disegno di legge contiene almeno indicazioni alquanto puntuali, a differenza, invece, di quanto, come ricorderete, prevedeva il testo della Bicamerale predisposto al riguardo dal senatore Salvi, testo che rinviava ai regolamenti parlamentari. Coerentemente con quanto ritenevo nella scorsa legislatura, io, invece, sono dell’avviso che si debba apprestare e rafforzare uno statuto dell’opposizione.
Sono d’accordo con il professore Ceccanti circa il fatto che soltanto il capo dell’opposizione dovrebbe avere la possibilità di rinviare le leggi preventivamente, ovvero prima della promulgazione, alla Corte costituzionale. Ciò, in quanto siamo in Italia e la litigiosità è tanta; vi potrebbe essere il rischio che tutte le leggi approvate da una maggioranza, quale che sia, finiscano dinanzi alla Corte costituzionale, intasando i lavori della Consulta e, praticamente, non permettendo alla stessa di lavorare. Comunque, mi permetto di ricordare quell’anonimo deputato, firmatario della proposta di legge C. 3013.
PRESIDENTE. Ringrazio il professore Paolo Armaroli e dichiaro conclusa l’audizione.
Sospendo brevemente la seduta.