Privacy Policy Cookie Policy

Un equivoco condiziona l’intero dibattito sul federalismo, ogni giorno alimentato da vittime, carnefici e da commentatori ignoranti o in mala fede. Si discute come se l’Italia si trovasse alla vigilia di una scelta storica, tra la conferma del suo impianto centralista e l’adesione ad un nuovo modello federale. Di qui gli appelli a salvaguardare l’unità del paese; il richiamo ai valori del Risorgimento; le richieste di “pause di riflessione”; l’allarme per i conti pubblici che potrebbero essere gravemente alterati. Tutte queste apprensioni vengono racchiuse in una parola straniera, dal significato non meglio identificato e per questo polivalente: devolution. Chi non conoscesse l’inglese, sarebbe indotto a ritenere che essa si traduca in italiano con l’espressione “attenti al lupo”.

Nella realtà dei fatti, il lupo è già arrivato. Lo ha portato in casa la riforma del titolo V, approvata in fretta e furia alla fine della scorsa legislatura dalla maggioranza del tempo. Allora nessun vertice istituzionale suonò la tromba del Risorgimento: le tombe non furono scoperchiate e Garibaldi e Mazzini continuarono a riposare in santa pace. Ma fu quella riforma costituzionale a provocare la grande devoluzione di poteri dallo Stato verso le regioni: in confronto, il nuovo trasferimento di competenze previsto dal provvedimento oggi in discussione, è misera cosa. Non vale nemmeno occuparsene, per non rischiare di sperdere il vero nodo politico-istituzionale della questione.

La riforma del titolo V (ovvero, il federalismo vigente) è stata improvvida. Ha modificato la forma di Stato senza intervenire, insieme, sulla forma di governo. Ha dimenticato di tutelare l’interesse della nazione. Ha posto Stato centrale, regioni ed enti locali sullo stesso piano, senza nemmeno preoccuparsi di creare un luogo di raccordo. Non ha saputo distinguere con chiarezza tra materie statali e materie regionali e, soprattutto, non ha saputo indicare le modalità per dipanare il nodo delle materie concorrenti (quelle per le quali il confine è indefinito) che, nella realtà dei fatti, sono quasi tutte. Non ha previsto, infine, come responsabilizzare le regioni per i denari da esse spesi.

I danni che tali incongruenze hanno determinato sono sotto gli occhi di tutti: basta volerli vedere. Oltre trecento provvedimenti di natura nazionale o regionale sono stati impugnati al cospetto della Corte Costituzionale. È venuta meno per cittadini ed imprenditori la certezza del diritto. Il peso delle burocrazie si è fatto più pesante. La spesa pubblica è aumentata di circa il 40%. Gli sprechi delle regioni iniziano a divenire insopportabili, come benemerite inchieste giornalistiche hanno attestato quest’estate. Il federalismo vigente, insomma, ha tradito gli scopi per i quali è stato richiesto: invece di semplificare il processo legislativo; di avvicinare il cittadino alle istituzioni; di portare più efficienza e meno statalismo; ha provocato effetti contrari. Se non ha determinato un maggior divario tra nord e sud, è solo perché ha esportato a settentrione molti dei difetti dei quali soffrono le istituzioni meridionali.

Tutto ciò è già accaduto con buona pace del professor Sartori, che dalle colonne del Corriere della Sera guida la pattuglia di quanti vorrebbero farlo dimenticare, coniugando al futuro prossimo quello che in realtà è presente indicativo. Per questo è urgente intervenire in fretta, senza sprecare l’occasione che si presenta: altro che moratoria!. Urge ricondurre la riforma federale nell’ambito di un nuovo, complessivo equilibrio istituzionale; bilanciare la devoluzione verso le regioni attraverso l’attribuzione di poteri più ampi all’esecutivo; semplificare il procedimento legislativo; creare quel Senato federale fin qui negato, nel quale i rappresentanti dello Stato e delle regioni possano trovare accordi preventivi sulle rispettive competenze, vanificando il ricorso obbligatorio alla Corte Costituzionale. Va inoltre prevista una clausola di flessibilità nazionale, che consenta al governo centrale di avocare a sé provvedimenti in grado di mettere in discussione l’unità sostanziale dello Stato. E si deve quanto meno aprire il capitolo del federalismo fiscale, affinché presto (credibilmente, entro la prossima legislatura), le regioni possano essere responsabili al cospetto dei cittadini sul fronte sia delle entrate sia della spesa. Il federalismo che c’è, insomma, deve essere bilanciato e completato per provare a renderlo realmente competitivo.

La riforma costituzionale attualmente in discussione rappresenta, in tal senso, un’opportunità in quanto ha il pregio di non isolare la riforma federale dal più complessivo impianto istituzionale. Molte delle modifiche delle quali vi sarebbe bisogno, non sono state previste dal testo così come uscito dalla Commissione della Camera dei Deputati. Ma vi sono possibilità effettive che esse siano prese in considerazione, soprattutto se richieste da un’effettiva mobilitazione in nome della Repubblica, piuttosto che dell’interesse di parte. Chi avesse un briciolo di onestà intellettuale dovrebbe operare in tale direzione, piuttosto che spacciare per ipotetici e futuri danni già avvenuti.

Un tempo non lontano eravamo tutti federalisti, nello stesso modo in cui dopo l’11 settembre ci siamo detti tutti americani. Chi non accettasse la strada qui indicata dovrebbe, per coerenza e decenza, affermare d’essersi sbagliato e chiedere, per questo, l’abrogazione del titolo V sbandierato solo due anni fa come un passo decisivo sulla via delle conquiste progressive della storia. Restare in mezzo al guado, facendo finta che nulla sia successo, non serve. A meno che l’ipotesi non si accompagni con la proposta di una modifica dell’articolo 1 della Carta che, quanto meno, avrebbe il merito di chiarire le cose: «l’Italia è una Repubblica fondata sull’ipocrisia».

Il Riformista, 6 settembre 2004