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La riforma della Costituzione proposta dalla Casa delle Libertà viene accusata dal centrosinistra (mi riferisco alla linea espressa nel corso del dibattito svoltosi al Senato sotto la regia dell’ex ministro della funzione pubblica Franco Bassanini) di realizzare un “premierato assoluto e onnipotente”, che ci porterebbe alla “deriva plebiscitaria”, e di minare l’unità nazionale attraverso la “devolution” leghista. Con queste parole d’ordine, l’Astrid, il laboratorio istituzionale che raccoglie i giuristi di sinistra, guidato dallo stesso Bassanini, ha convocato, insieme alla CGIL e alla associazione (debenedettiana) Libertà e Giustizia, una manifestazione nazionale per il 2 ottobre, nei giorni caldi delle votazioni sulla riforma che si terranno alla Camera dei deputati (con l’obiettivo, tra gli altri, di imporre a Violante e ai gruppi del centrosinistra a Montecitorio la stessa linea tenuta a Palazzo Madama, impresa non facile, come vedremo più avanti).

Si tratta di accuse del tutto prive di fondamento. La forma di governo del premier proposta dalla Cdl è tratta dal testo proposto in Commissione bicamerale dal relatore Ds Cesare Salvi (addirittura in modo testuale su alcuni aspetti essenziali come il potere di scioglimento e il collegamento tra le candidature a premier e quelle per l’elezione della Camera). Proposta Salvi che, a sua volta, traeva origine dal programma dell’Ulivo del ’96. La riforma recepisce, in sostanza, l’evoluzione del bipolarismo che si è realizzata nell’ultimo decennio nel nostro paese. Un sistema a “democrazia immediata” in cui sono gli elettori, e non i partiti dopo il voto, a decidere chi deve governare, scegliendo ad un tempo premier, programma e maggioranza. I poteri del premier sono equivalenti a quelli previsti nella maggior parte delle democrazie europee al fine di favorire la stabilità dell’esecutivo. Il potere di scioglimento è bilanciato dal potere della Camera di sfiduciare in qualsiasi momento il premier e anche dal potere di sostituirlo da parte della stessa maggioranza che ha vinto le elezioni. Certo, ci sono alcuni aspetti che potrebbero essere (e mi auguro siano) migliorati come lo statuto dell’opposizione, alcune (inutili) rigidità che potrebbero essere smussate, ma le accuse di bonapartismo proprio non stanno in piedi.

Quanto alla devolution si impone un chiarimento di fondo. Quella sulle tre materie chiesta dalla Lega (sanità, istruzione e polizia locale) è poca cosa, una “piccola devolution” rispetto alla “grande devolution” che è stata già realizzata dal centrosinistra con la modifica del titolo V approvata alla fine della scorsa legislatura con la maggioranza di quattro voti. Il vastissimo passaggio di competenze legislative alle Regioni è già avvenuto (addirittura la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, le grandi infrastrutture, l’ordinamento della comunicazione, la ricerca scientifica e tecnologica, e tante altre sono materie di legislazione concorrente, su di esse lo Stato può solo formulare i principi fondamentali). Insomma il federalismo non è di là da venire, c’è già, ed è un federalismo rissoso e costoso che andrebbe corretto con urgenza perché ha fatto precipitare il Paese e la sua economia nel baratro dell’incertezza del diritto.

Il centrosinistra predicava un “federalismo cooperativo” ma, guarda caso, si è del tutto dimenticato di realizzare il luogo della cooperazione tra Stato e Regioni, cioè una Camera federale o delle Regioni, come sede di raccordo istituzionale tra i due soggetti titolari della potestà legislativa. E ha realizzato un federalismo basato sul “competentismo”, cioè sull’attribuzione di competenze legislative attraverso elenchi rigidi di materie, come se i problemi si potessero dividere con l’accetta. Il risultato, a tre anni dall’entrata in vigore di questa riforma costituzionale, è disastroso: continui conflitti di competenza tra Stato e Regioni, impugnazione delle leggi più importanti, sia statali che regionali, davanti alla Corte costituzionale, massima incertezza del diritto fino alle pronunce della Consulta, trasformazione impropria della stessa in organo legislatore, esautoramento del Parlamento e dei Consigli regionali.

Ed è qui, sulla questione fondamentale delle correzioni e del completamento del titolo V, che arrivano le dolenti note e i gravi limiti della riforma costituzionale della Cdl. Per due ragioni di fondo.

La prima: dopo aver avversato la riforma del titolo V dell’Ulivo nella scorsa legislatura, la Casa delle libertà, per volontà della Lega, non ha più voluto correggerla, come se – incredibilmente – fosse entrata a far parte del proprio programma di governo. Il fulcro della riforma ulivista, l’articolo 117 della Costituzione che stabilisce il riparto delle materie, è divenuto così una sorta di tavola della legge, sostanzialmente intoccabile.

La seconda: per quanto riguarda la riforma del bicameralismo e l’introduzione del Senato federale, la Cdl si è imbattuta, come era inevitabile, nel corporativismo (trasversale) dei senatori, o se si vuole, nel classico paradosso del riformatore che deve riformare se stesso. Impresa certamente difficile che avrebbe richiesto la capacità di avanzare idee forza in grado di assegnare al Senato un ruolo forte e incisivo ma coerente con l’assetto del nuovo sistema istituzionale. Il risultato, positivo per alcuni aspetti, è invece molto infelice per altri. Il Senato delineato finora dalla riforma – come ha più volte denunciato lo stesso Presidente del Senato Marcello Pera – è, da una parte, troppo debole e poco federale perché privo dei Presidenti delle Regioni (titolari del potere di impugnare le leggi davanti alla Consulta); dall’altra, invece, così forte da poter paralizzare l’attuazione del programma di governo. Bisogna infatti tener conto che nel nuovo sistema il Senato federale non è più legato dal rapporto di fiducia con il Governo. Si tratta di una importantissima riforma volta a superare il nostro anomalo bicameralismo paritario. Nel Senato, per modalità e tempi di elezione, si potranno formare maggioranze diverse da quelle della Camera politica. Il Governo non potrà porvi la questione la fiducia, né chiederne lo scioglimento anticipato. Nonostante questo, l’attuale testo della riforma attribuisce al Senato federale competenze legislative e poteri di veto vastissimi: la legge finanziaria (l’atto legislativo più importante del Governo) e le leggi in materia di tutela della concorrenza sono attribuite alla competenza paritaria delle due Camere; le leggi sulle numerosissime materie di legislazione concorrente (tutte le politiche di settore) devono iniziare il loro iter necessariamente dal Senato (che pertanto può anche decidere di farle ammuffire nei cassetti) e tre quinti dei senatori, alla conclusione dell’iter legislativo, possono in ogni caso bocciare il testo approvato dalla Camera, anche se l’esecutivo vi ha posto la questione di fiducia dichiarando che tale testo è essenziale per l’attuazione del programma di governo.

Insomma, un Senato – questo sì – davvero onnipotente. Un Senato concepito, proprio come richiesto da Bassanini, come contropotere rispetto al Governo. In realtà un Senato non rappresentativo del territorio né raccordato con la maggioranza di governo che finirebbe per divenire un’assemblea di notabili, una oligarchia irresponsabile capace solo di produrre paralisi decisionale e/o di generare un’inedita forma di consociativismo estremamente costosa per le casse dello Stato: l’approvazione di ogni legge sarebbe infatti condizionata dall’acquisizione (diciamo così) da parte del Governo di una maggioranza variabile, diversa da caso a caso.

Il federalismo – che già abbiamo – va corretto e completato, un ritorno all’indietro non è certo immaginabile. Ma occorre un sistema federale ben funzionante. Quello delineato dall’attuale testo della riforma è invece destinato a produrre paralisi decisionale e incertezza del diritto che si tradurrebbero in costi economico-sociali assolutamente intollerabili in un mondo in cui gli ordinamenti nazionali sono posti in concorrenza tra loro. Una paralisi decisionale del circuito democratico elettori-Parlamento-Governo che, oltretutto, andrebbe inevitabilmente ad accrescere il ruolo di supplenza dei cosiddetti poteri forti (Corte costituzionale, Banca d’Italia, autorità indipendenti, magistratura.). Che interesse abbiano a conseguire questo risultato proprio la Casa delle libertà e la Lega che animano ogni giorno la polemica contro la politicizzazione e lo sconfinamento dei poteri forti, non è proprio dato di comprendere.

Certamente la Cdl paga lo scotto della competizione che si è scatenata al suo interno e che ha trasformato la riforma in un terreno di contrattazione per interessi di parte (la devolution alla Lega, il premierato ad An, la proporzionale all’Udc), mentre il partito di maggioranza relativa è sembrato preoccuparsi finora solo di trovare una mediazione purchessia tra gli opposti egoismi, senza riuscire ad avanzare una proposta che abbia come obiettivo il buon funzionamento e l’effettiva modernizzazione delle istituzioni. Un obiettivo che ha sempre costituito la missione principale della Cdl e sulla quale, pertanto, il centrodestra, come ha osservato acutamente Gaetano Quagliariello sul Messaggero, gioca la sua più grande sfida: quella di fondare una nuova legittimità costituzionale e, con essa, la propria stessa legittimità.

Occorre ricordare che a conclusione dell’iter di revisione della Costituzione c’è il referendum confermativo ai sensi dell’articolo 138. Un referendum che si dovrebbe tenere l’anno prossimo, dopo le elezioni regionali, probabilmente in autunno e comunque prima delle elezioni politiche del 2006. Un referendum senza obbligo di quorum che difficilmente potrebbe essere vinto dalla Cdl se essa si presentasse agli elettori con una riforma mal funzionante come quella che scaturisce dal testo approvato dal Senato e dalla Commissione affari costituzionali della Camera. Anche perché il centrosinistra, alla Camera, sta correggendo il tiro: sembra essersi reso conto che sarebbe perdente, come ha osservato il Riformista, “urlare contro il premier forte che non c’è, ma che la gente gradirebbe, invece che contro lo Stato debole, che c’è e che la gente non vuole”. Al riguardo sono emblematiche le pregiudiziali di costituzionalità presentate dai capigruppo Violante e Castagnetti che saranno votate alla ripresa dei lavori parlamentari a metà settembre: esse continuano ad accusare la riforma della Cdl di violare “i principi supremi dell’ordinamento” ma per motivi diametralmente opposti a quelli agitati da Bassanini, cioè proprio per l’eccesso di poteri attribuiti al Senato federale che impedirebbero a chiunque di governare. Evidentemente Violante non è affetto da quella “sindrome dello sconfittismo” che ancora affligge tanta parte del centrosinistra.

C’è da augurarsi che la Cdl riesca a modificare, in seconda lettura, il testo della riforma. Per correggerla basterebbero, in definitiva, poche ma significative modifiche già formulate da molti giuristi (non solo quelli della fondazione Magna Carta ma anche autorevoli studiosi dell’area del centrosinistra): 1) rendere il Senato più federale prevedendo la presenza dei Presidenti delle Regioni; 2) semplificare il processo legislativo rivedendo le competenze del Senato e prevedendo che comunque spetti alla Camera la decisione finale sulle leggi che riguardano l’attuazione del programma di governo; 3) modificare l’articolo 117 introducendo una clausola generale e flessibile di competenza statale (ad esempio, la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, la stessa clausola presente proprio negli ordinamenti federali come gli Usa e la Germania) al fine di consentire al Senato federale di essere la sede di raccordo e di mediazione politico-istituzionale.

Saprà la Cdl operare in questa direzione, superando l’autolesionismo che da tempo la consuma ? Riuscirà a correggere il federalismo e il bicameralismo che non vanno o, invece, modificherà, in negativo, proprio il premierato che va bene, magari aggiungendovi un sistema proporzionale che farebbe a pugni con il bipolarismo ?

Cosa accadrà al tavolo della verifica sulla riforma che la Cdl ha convocato tra il 2 e il 10 settembre non è dato di sapere al momento in cui viene scritto questo articolo. Ma la posta in gioco è veramente alta. Il tema delle riforme costituzionali è certamente logorato e non suscita il grande interesse dei cittadini. Ma questa volta da esso dipenderanno non solo le sorti della legislatura, ma il futuro del nostro sistema politico-istituzionale e del Paese.

Ideazione, n. 5/2004, 16 settembre 2004