La spettacolare azione dei SEAL americani e la morte di Osama, al di là degli aspetti tecnico-militari, ha determinato all’interno dell’amministrazione del Presidente liberal un ripensamento delle strategie di politica estera e una conseguente rifocalizzazione delle priorità e interessi strategici. All’interno del mondo accademico e dei think tank americani si nota un certo fermento, e così si tende a contenere i facili entusiasmi derivati dalla sconfitta del nemico storico[1] degli USA dopo l’11 settembre 2001 e a delineare i futuri scenari per l’unica superpotenza rimasta dopo il crollo dell’URSS.
Secondo lo studioso dell’American Enterprise Institute Jonah Goldberg, infatti, la fine di Bin Laden segna per l’amministrazione Obama il passaggio dalla domestic policy al confronto con la realtà mondiale, ed in particolare con l’ascesa del gigante cinese. A tal fine lo stesso Obama, fin dal dopo elezioni di mid term del 2010, aveva inaugurato una politica estera bipartisan con la ripresa dei negoziati START (Strategic Arms Reduction Treaty) per la riduzione delle armi atomiche e mostrato una nuova attenzione nei confronti dei paesi dell’Asia orientale.
È soprattutto a seguito della recente visita in estremo oriente, però, che l’amministrazione Obama ha ufficialmente preso atto delle nuove dinamiche geopolitiche, aprendosi così al confronto ufficiale con la nuova realtà internazionale con spirito innovativo ed audace[2]. In sostanza la nuova direttiva della politica estera americana mira, in particolar modo nei confronti della potenza emergente cinese, a delineare una nuova agenda di lavori che si prefigge lo scopo di inserire il colosso asiatico nell’ampio contesto dell’economia globale, contro la proliferazione delle armi nucleari, per la sicurezza ambientale e militare dello scacchiere asiatico.
Concretamente, Obama mira ad una partnership strategica[3] con la Cina che copra a 360 gradi l’intero pacchetto delle issues in discussione. Ciò malgrado, la svolta bipartisan delle elezioni di mid term del 2010 non elimina le critiche da parte degli ambienti più conservatori che chiedono una politica più dura nei confronti della Cina. Il risultato è che alla fine a prevalere è la visione strategica di lungo termine[4], che fa della Cina uno “stakeholder” responsabile agli occhi degli Usa soprattutto nelle spinose questioni dell’Iran, della Corea del Nord, e degli equilibri finanziari (essendo la Cina creditore di parte del debito americano).
Le relazioni strategiche Usa-Cina devono tener conto di vari fattori di attrito. Tra questi l’economia, in particolare da un lato una crisi finanziaria globale che grava sulle pacifiche relazioni tra i due paesi, dall’altro la mancata rivalutazione della valuta cinese dello Yuan che permette alla Cina di promuovere politiche commerciali di dumping.
A ciò devono poi aggiungersi le polemiche affermazioni del presidente cinese Hu Jintao nel corso della sua visita negli Usa del gennaio scorso sull’amministrazione americana, “rea” di voler contenere l’ascesa del suo paese. Affermazioni mitigate poi dallo stesso Hu Jintao, che ha dichiarato nella conferenza stampa come “Le società sono più armoniose, le nazioni hanno maggiori successi e lo stesso mondo risulta più giusto quando i diritti e le responsabilità di tutte le nazioni e tutte le persone sono sostenute, compresi i diritti universali di ogni essere umano”. Tale discorso non è passato inosservato agli occhi della critica americana specializzata in questioni internazionali.
In effetti è apparso evidente come, se da una parte si da atto al presidente Hu di una relativa apertura in termini di riconoscimento dei diritti umani, dall’altra si accusa Obama di essere troppo “soft” nei confronti del fattore cinese.
Proprio le polemiche che periodicamente scoppiano negli Stati Uniti in tema di diritti umani e libertà violate in Cina (temi nei confronti dei quali gli Usa sono tradizionalmente sensibili), mettono lungo la strada della svolta di Obama notevoli ostacoli, e così è necessario allargare il nostro sguardo analitico alla ricerca dei motivi reali che hanno spinto il presidente americano a dichiarare l’estremo oriente e la Cina priorità della politica estera americana del XXI secolo.
Innanzitutto è da rilevare che dopo la fine della Guerra Fredda l’approccio americano nei confronti del gigante cinese e l’estremo oriente in toto non poteva ricalcare i vecchi clichés che facevano della Cina una pedina in chiave antisovietica e lo scacchiere asiatico un campo di lotta per impedire l’affermazione del comunismo secondo i dettami della “teoria del dòmino” (enunciata nel 1954 dal Presidente americano Eisenhower, n.d.r.).
Nel giugno 2005 un artefice della politica su indicata di Henry Kissinger[5] sostenne che la Cina, pur non essendo una democrazia liberal-democratica, non governava con la forza bruta come avveniva nell’ex URSS. Alla luce di ciò, gli Usa dovevano impegnarsi ad integrare la Cina in un contesto multilaterale asiatico e stabilizzare tutta l’area. In seguito alla osservazione di Kissinger altri esponenti del mondo accademico e dei think tank americani hanno fornito analisi che hanno contribuito a determinare la recente svolta obamiana.
Joshua Cooper Ramo, un esponente della scuola kissingeriana, ha sostenuto che nell’approccio alla Cina occorre tener conto che nell’ottica cinese il cambiamento, il revisionismo, il dinamismo delle posizioni politiche hanno un valore dirimente, mentre in Occidente vi è la tendenza al controllo meccanicistico degli eventi e l determinismo, approcci che talvolta non facilitano la comprensione della realtà mondiale fluida ed in divenire quale è quella del post guerra fredda.
Ancora in un percorso a ritroso alla ricerca delle direttive che hanno influito sulla recente svolta di Obama, possiamo citare il discorso tenuto il 27 marzo 2007 dal Vicesegretario di Stato per l’Estremo Oriente,[6] nel quale si evinse chiaramente come la base di ogni politica Usa nei confronti della Cina non si doveva basare sul contenimento di kennaniana memoria (da George Kennan, diplomatico USA e padre della teoria del containment enunciata dal presidente USA Truman nel 1947, n.d.r.), quanto sulla ricerca di influenzare le scelte cinesi in modo tale da farne un partner affidabile e responsabile[7] nella gestione degli equilibri mondiali.
A dar maggior sostegno alla scelta obamiana, ecco venirci in aiuto la tesi di un altro importante studioso della realtà cinese, Giovanni Andornino, il quale ha sostenuto acutamente come una politica troppo “tough line” nei confronti della Cina potrebbe oggi avere effetti deleteri su quello stesso ordine internazionale liberale che gli Usa si sforzano contemporaneamente di costruire[8].
Il politologo statunitense Zbgniew Brzezinski ha sostenuto come il compito degli Usa nei confronti della Cina sia reso ancora più difficile dalla presenza di una componente idealistica che da caratterizza i rappresentanti della politica estera americana. Più precisamente, lo studioso di origine polacca evidenzia un possibile motivo di frizione con la Cina nel background di valori[9], di idee, di concetti, di direttive di cui gli Usa si sono fatti portatori sin dalle origini (si pensi alla difesa dell’indipendenza dalla madre patria britannica, alla lotta contro i totalitarismi nel periodo della guerra fredda, oggi alle idee di difesa della dignità umana, di pluralismo religioso ed economia di mercato) e che costituiscono aspetti determinanti della politica estera americana.[10]
Sulla base di quanto detto, risultano appropriate le considerazioni di Martin Feldstein (Irving Kristol Award per il 2011 presso l’American Enterprise Institute), che nel saggio “America’s challenges” ha affermato che l’ascesa della Cina costituisce per gli Usa una sfida tecnologica, psicologica, economica, sistemica.
Dopo aver sviscerato a livello accademico le basi della nuova direttiva obamiana in materia di politica estera Usa nei confronti dell’estremo oriente, è utile ora soffermarsi sui principali aspetti economici e militari delle relazioni Usa-Cina nel XXI secolo. In effetti, alcuni dati economici ci aiutano a capire ancora di più perché Obama abbia deciso di far virare il timone della politica estera americana verso l’estremo oriente: secondo uno studio della Conference Board, la Cina è destinata nel giro di pochi anni a divenire una delle maggiori potenze economiche del pianeta, arrivando a minacciare la stessa leadership Usa[11].
Ancora il Wall Street fornisce alcuni dati analitici circa la crescita cinese nel 2011 che dovrebbe attestarsi al 9.6 per cento, mentre per gli Usa l’omonimo dato si fermerebbe al 1.2 per cento. Allargando la visuale, si può sostenere che tra il 2010 e il 2020 la Cina e l’India costituiranno da sole il 50 per cento della crescita mondiale.
Al di là della logica numerica, è necessario leggere tra le righe di questi dati per evidenziare come tali performance non impediscono che 318 milioni di cinesi vivano con meno di 2 dollari al giorno ed 800 milioni di cinesi non riescano ad avere una pensione.[12];
Sulla base di aspetti economici contraddittori, e considerando la forma non liberale del governo cinese, non risulta sorprendente come i frutti di tale “benessere economico”, invece di permettere una qualità di vita migliore per il miliardo di cinesi, venga impiegato per programmi di riarmo ed ammodernamento dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, costituendo in tal modo una minaccia sia per gli stati limitrofi (Giappone, Corea del Sud, Australia), sia per gli Usa stessi.
In particolare, a partire dagli anni ’90 si è assistito in Cina ad un aumento delle spese militari finalizzato a dotare l’esercito di nuovi missili balistici a medio-lungo raggio che non sono passati inosservati agli occhi dei paesi limitrofi[13]. È infatti principalmente per questa ragione che il Giappone ha spostato l’asse delle sue truppe verso il sud dell’isola, che gli stati dell’area circostante sono alla ricerca di una migliore capacità militare offshore e di un dialogo strategico ufficiale con la potenza cinese, e che gli Usa hanno rafforzato gli avamposti a Guam (un’isola dell’Arcipelago delle Marianne, nell’Oceano Pacifico occidentale, n.d.r.).
La minaccia strategica militare cinese, così come si è configurata nel corso degli ultimi anni, richiede da parte dell’amministrazione Obama un’attenta analisi ed un’elaborazione delle giuste direttive idonee a contrastarla. In primis occorre tener conto della posizione (o meglio, delle dichiarazioni ufficiali) del governo cinese in materia di interessi strategici e vitali. A tal proposito, le autorità cinesi hanno esplicitato i loro interessi strategici per un’area che va dal mar cinese meridionale al Tibet, da Taiwan alle isole Spratly.[14)
Più specificamente, lo studioso Robert Sitten ha elencato le direttive cinesi per l’Asia del XXI secolo: scambi economici, rassicurazione degli alleati, politica ambientale, perpetuazione del proprio potere, unità ed indipendenza, modernizzazione[15]. Sulla base di questi elementi a disposizione la risposta americana non può non essere strategica e di ampio raggio; la chiave di tutto sta nel considerare le relazioni Usa-Cina in chiave globale e pragmatica senza fossilizzarsi sulla spinta delle lobbies di turno, su singole issues come possono essere Taiwan, i diritti umani, le libertà religiose. Questo al fine di delineare le vere priorità della politica estera americana evitando che alcune opzioni emozionali possano danneggiare la flessibilità e la capacità d’analisi[16].
È nuovamente Brzezinski a fornire la chiave di lettura più completa della questione: secondo l’esperto, in mancanza di un accordo strategico tra Stati Uniti e Cina e una ridefinizione del ruolo del Giappone non si raggiungerà nessun equilibrio in estremo oriente; e allo stesso tempo l’ascesa della Cina non costituisce un problema per l’amministrazione Obama perché può essere utilizzata per una politica di “counterbalancing” della Russia in Asia e nel Golfo Persico per mantenere libero accesso alle fonti petrolifere. In definitiva, il futuro equilibrio in estremo oriente si deve basare sulla potenza globale rappresentata dagli Usa, sul primato regionale della Cina e sulla leadership internazionale del Giappone[17].
Alla luce di quanto esaminato si spiega perché la svolta obamiana nelle relazioni con la Cina abbia comportato una “mezza rivoluzione”[18] anche all’interno delle tradizionali direttive del Department of the State. A tal proposito si è venuto a delineare un duplice approccio: da un lato un atteggiamento complessivo “low profile”, nel senso di un parlare piano senza sbraitare pur conservando una credibile capacità dissuasiva; dall’altro un fenomeno di redistribuzione del potere all’interno dell’amministrazione, con un National Security Council più forte ed esteso che si avvale di inviati speciali per le aree di crisi[19].
Lo stesso dibattito si è presentato all’interno del mondo accademico americano, in particolare tra le varie scuole di relazioni internazionali: secondo gli esponenti della scuola internazionalista liberale l’ascesa della Cina può essere considerata positiva perché basata sull’apertura cinese al mercato ed agli scambi (quindi di natura pacifica e facilmente integrabile nell’ordine liberale internazionale); i realisti sostengono invece che l’ascesa della Cina è di natura competitiva egemonica e che sfocerà in una nuova guerra fredda che si allargherà inevitabilmente agli altri paesi dell’area come già si sta verificando con l’avvicinamento Usa-India finalizzato a controbilanciare l’ascesa cinese nell’area asiatica[20].
Oltre che economica-culturale, la vera minaccia che gli Usa devono contrastare è però quella militare. A tale scopo gli Usa hanno elaborato il concetto di “dissuasione estesa in Asia orientale e le sue implicazioni[21]”, in questa maniera garantendo la sicurezza dell’area e la non proliferazione nucleare.
Dopo la fine della guerra fredda, gli Usa hanno in parte modificato tale postura causando preoccupazione negli alleati storici (Australia, Corea del sud, Giappone), in particolare nei circoli nazionalisti conservatori dei suddetti paesi. Tali preoccupazioni si sono acuite in seguito alla presa visione del Nuclear Posture Review del 2010, che ha ulteriormente messo in dubbio la credibilità della garanzia militare Usa.
La diffidenza ha raggiunto livelli tali che alcuni esponenti dei paesi interessati sono arrivati a proporre un sistema di garanzie militari simile a quello in vigore nella Nato; ciò non tiene conto del fatto che gli assetti ed equilibri militari tra l’Europa e l’Asia sono diversi, e che una tale innovazione nell’area asiatica potrebbe essere percepita dalla Cina come strumento di contenimento delle proprie aspirazioni.
Data la delicatezza della situazione e delle scelte da adottare, l’amministrazione Obama ha elaborato una politica di ampio raggio che tiene conto di molteplici fattori che contribuiscono a determinare l’equilibrio nell’area estremo orientale[22]. Innazitutto il fattore Corea del nord, inquadrato anche in un’ottica di fuoriuscita dal comunismo. In secondo e terzo luogo il dialogo con la Cina e un’attenzione verso gli alleati storici degli Usa nell’area Australia, Corea del Sud, Giappone[23].
Per Steven Pifer, direttore dell’arms control al Brooking Institute, la sfida che attende Obama non è delle più semplici, anche perché la deterrenza era più facile durante la guerra fredda in quanto meno diffusa e meno complessa. La chiave interpretativa della dissuasione diffusa sta nel rassicurare gli alleati e scoraggiare ogni tentativo destabilizzante da parte del “rogue state” di turno.
Inoltre, dinanzi all’ascesa della potenza cinese, una politica saggia (e questo Obama l’ha capito), è non tanto quella di abbandonare chiudendosi in un isolazionismo ottuso, quanto quella di ricalibrare[24] la presenza Usa[25] per mezzo di stati fiduciari che siano in grado di svolgere la funzione di stakeholder responsabili del mantenimento dell’equilibrio[26] dell’area e non più su basi militari avanzate e difficili da gestire.
Concludendo, la svolta in politica estera di Obama e la nuova direttiva verso l’estremo oriente segnano ancora una volta lo storico contrasto tra potenze continentali e marittime. Dopo la fine della guerra fredda gli Usa hanno rivalutato la visione geopolitica cara a Spykman e guardano con preoccupazione l’ascesa delle potenze del cosiddetto Rimland geografico Giappone-Cina.
Il realismo ed il pragmatismo impongono agli Usa il confronto con le nuove realtà emergenti e come già in altre fasi storiche è su questo confronto e su queste ritrovate potenze che si giocheranno gli scenari futuri degli equilibri internazionali mondiali.
Bibliografia
[1] Thomas Donnelly, “Questions from the killing Osama Bin Laden”, AEI, 2011.
[2] Joshua Cooper Ramo, in “Il secolo imprevedibile. Perchè il nuovo disordine mondiale richiede una rivoluzione del pensiero”, Elliot, 2009, sostiene (sulla scia del suo mentore Kissinger) che nelle relazioni internazionali occorre avere sempre una posizione audace sia in termini di pensiero ideologico, sia in termini di direttive strategiche in quanto la realtà internazionale è in continuo divenire.
[3] Toby Harden, “Le 10 sfide di Obama in politica estera” ,The Telegraph, 07-05-2011.
[4] Ryan Lizza, “Dopo Bin Laden una nuova politica estera” The New Yorker maggio 2011 sostiene che la strategia di fondo di Obama mira a riequilibrare la posizione Usa verso l’estremo oriente con un progressivo ritiro di truppe da Afganistan ed Iraq e presenza meno invasiva e più flessibile;occorre riposizionare le nostre priorità a medio lungo termine,superare la logica delle guerre attuali che hanno trovato nella morte di Osama la finalizzazione di 10 anni di politica estera amaricana e lotta senza quartiere al terrorismo.
[5] Pagine Difesa 2007.
[6] Pagine Difesa 2007.
[7] Will Hutton, “Drago dai piedi d’argilla” Fazi Editore, 2007.
[8] Giovanni B. Andornino, “Dopo la muraglia:la Cina nella politica internazionale”, Vita Pensiero, 2008.
[9] Sulla base di ciò risultano appropriate le considerazioni di Martin Feldstein, Irving Kristol Award per il 2011 presso l’AEI, che nel saggio “America’s challenges” ha sostenuto come l’ascesa della Cina costituisca per gli Usa una sfida tecnologica, psicologica, economica, sistemica (valori, idee, strategie).
[10] Zbgniew Brzezinski, “L’ultima chance”, Salerno edizioni, 2008.
[11] Adam Segal, in “China’s innovation wall”, Council Foreign Relation 201, ha evidenziato come la minaccia cinese si concretizza anche a livello culturale, intellettuale. Allo scopo cita un report del 2006 intitolato “Guidelines on national medium and long term program for science and tecnology” per diminuire nell’arco di 15 anni la dipendenza tecnologica dall’estero.
[12] Dan Blumenthal, “Why isn’t China democratizing? Because it’s not really capitalist”, AEI.
[13] Michael Swaine, “Contro una guerra fredda tra Usa e Cina”, The Diplomat, 2011.
[14] Dan Blumenthal, “Riding a Tiger:China Resurgency foreign policy aggression”, AEI, ha evidenziato alcune caratteristiche della politica estera cinese vista come risultato di potenza militare, nazionalismo esasperato, variabilità della leadership.
[15] Robert Sitten, “Approcci cinesi per l’Asia:guadagni a lungo termine”, NBR, Asian research Institute.
[16] Robert M. Hathaway, Report NBR, Asian research Institute.
[17] Zbgniew Brzezinski, “Geostrategia per l’Asia”.
[18] I trend geopolitici del XXI secolo fanno dell’estremo oriente un’area prioritaria per la politica estera Usa. Ciò presuppone un impegno positivo nell’area che sia durevole, alla ricerca di un’articolata posizione al fine di tutelare gli interessi americani ed attrarre sostegno da parte dei paesi della regione. AA.VV, “The U.S and the Asia Pacific Region: security strategy for the Obama administration”, Center for a new american security”.
[19] Baker Rodgen, “L’emergere della nuova politica estera di Obama”, Commentary Future Brief, 2011.
[20] Charles Glaser, “Will China’s rise lead to war”Council of foreign relation, aprile 2011.
[21] Richard Bush III , “La dissuasione estesa in Asia orientale e le sue implicazioni”, Brooking institute.
[22] Noemi Lanna, “Il Giappone ed il nuovo ordine in Asia orientale”, Vita Pensiero, 2010.
[23] Per il Giappone questione centrale è la libertà dei mari a causa della dipendenza energetica del paese da approvvigionamenti esteri.
[24] Paul Bracken, “Fuochi ad oriente:il sorgere del potere militare asiatico e la seconda era nucleare”, Corbaccio, 2001.
[25] Un contrasto tra Usa e Cina che si ha anche con riguardo alla questione iraniana, in quanto la Cina contribuisce al riarmo del paese islamico e fa svanire gli sforzi Usa di isolare il paese degli ayatollah. (Michael Mazza, “China Iron ties: assesment and implications for U.S policy”, AEI).
[26] Obama ha innovato il contesto delle relazioni tra Usa e Cina abbandonando le vecchie concezioni che relegavano la Cina in secondo piano a favore di un rapporto paritario: il cosiddetto G2 Usa Cina (Daniele Scalea, “Sfida Totale”, Fuoco edizioni, 2010).